Popolo
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Spunti per il dialogo in vista dell’incontro in Google Meet
del 17 ottobre 2020 sul tema “Come siamo
popolo?”
0. Premessa. Le idee di popolo e di nazione sono
di nuovo al centro del dibattito pubblico.
Sono sfruttate per creare nuovi fattori di coesione politica tra la
gente, in un tempo in cui ne sono venuti meno molti del passato recente. Nell’Ottocento furono alla base delle
ideologie nazionaliste che promossero l’unificazione politica dell’Italia, in
particolare di quella repubblicana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), fino ad
arrivare ai movimenti interventisti che, tra il 1914 e il 1915, spinsero per
l’entrata del Regno d’Italia nella Prima Guerra mondiale. La rigenerazione del popolo italiano, e quindi della nazione, fu uno un tema dominante
nell’ideologia del fascismo mussoliniano, come fattore principale di un
progettato imperialismo italiano. Dopo la sconfitta del regime fascista, nella
fase di progettazione e costruzione di uno stato con diversi fondamenti
(1945-1946), deposta nel nuovo corso l’ideologia razzista e imperialista,
l’idea di popolo come comunità attiva, realmente
partecipante, responsabile e deliberante
fu proposta in antitesi al sistema istituzionale monarchico, come principio
cardine di una riforma repubblicana delle istituzioni pubbliche, sulla base
degli esempi di virtù civiche manifestate durante la guerra di Resistenza
(1943-1945). Successivamente, e fino all’inizio degli anni ’90, le questioni
pubbliche si polarizzarono su marcate differenze ideologiche tra le formazioni
partitiche che avevano assunto il controllo dello stato, in particolare tra il partito cristiano, sorretto dall’attivismo
cattolico, e quelli di ideologia socialista, nell’ambito dei qualei quello
comunista venne presto a rappresentare la forza maggiore a differenza che in
epoca pre-fascista. Dalla metà degli
anni Novanta e per i successivi vent’anni circa, la politica fu marcatamente
de-idelogizzata e fu concepita in genere come manifestazione di interessi
coalizzati, ma anche di diversi stili di vita e di consumo. Tra il 2010 e il
2013 in Italia si visse un’epoca propriamente rivoluzionaria, con un fortissimo
ricambio di ceto politico e di fattori di coesione prodotto da agitazioni
sociali basate sul proposito di rottamazione
del precedente personale della
politica, accusato di aver operato prevalentemente nell’interesse dei propri
gruppi di influenza. Da un lato si sono tentate sperimentazioni di democrazia
diretta, sfruttando piattaforme informatiche, dall’altro si sono recuperati
temi del precedente nazionalismo, in un neo-nazionalismo caratterizzato da
un’idea di popolo con marcati connotati etnici, sul modello di
quello proposto dal fascismo storico, senza però inglobare il principio della
guerra imperialista come fattore di rigenerazione etica e politica.
In religione, d’altro canto, dagli anni ’60
doveva farsi i conti con l’idea di Popolo
di Dio, comunità di fedeli attiva e solidale in fase di espansione universale,
deliberata nei documenti normativi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) come essenza
della Chiesa nella concezione cattolica.
La questione si è da ultimo ulteriormente articolata con l’avvento del
regno del papa Francesco (2013), nel corso del quale sono stati proposte idee
derivate dall’esperienza delle Chiese latino-americane che, cercando di
contrastare il colonialismo culturale europeo, hanno dato molta importanza alle
culture dei
popoli anche nelle espressioni religiose. Non solo al Popolo universale di Dio, come totalità,
ma anche ai singoli popoli che ne costituiscono porzioni non parti, con le loro differenti culture,
si vorrebbe riconoscere quel senso della fede - sensus fidei, nel significato di senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, che sarebbe quella proprietà di non potersi ingannare nel credere, nelle questioni di
fede, che si manifesterebbe quando dai
vescovi fino agli ultimi fedeli laici c’è l'universale consenso in cose di
fede e di morale. E’ questione non particolarmente evidente al di fuori della
teologia cattolica, per l’incredibile livello di violenza impiegato
storicamente nei secoli nella lotta alle cosiddette eresie e contro la gente del
popolo che vi credeva e che ne praticava
i valori e l’etica. Ed è difficile immaginare una sola delle questioni di fede
e morale sulla quale in passato si sia avuto universale consenso dei
popoli e all’interno dei popoli. La
linea dell’ortodossia è stata tracciata, in realtà, d’autorità, senza
coinvolgimento di tutto il popolo. E tutto sembra un po’ dipendere da
che cosa si intende per Popolo di Dio,
in particolare se i dissenzienti ne continuino a fare parte o non.
Considerata, quindi, la grande attualità
dell’argomento, ho pensato, nell’organizzare per il prossimo 17 ottobre il
primo incontro telematico, con Google
Meet, di proporre alla riflessione e al
dialogo comuni la domanda “Come
siamo popolo?”, per cercare di
chiarirci le idee a partire dal nostro concreto e personale modo di vivere in
società, evitando di impelagarci in questioni ideologiche e dottrinali con le
quali in genere si ha meno dimestichezza. Nella mia prospettiva, il metodo
di quell’incontro è
però importante quanto il tema. I
Il metodo è quello
del dialogo democratico. Il tema, quello di come
si è popolo, mette in questione la convivenza democratica, perché si
può essere popolo anche in altri modi.
Dialogo
democratico significa che ci si impegna a non limitarsi a dire
la propria, come accade spesso quando si parla insieme in un gruppo, ma
ad agganciarsi alle argomentazioni proposte dagli altri,
per condividerle, integrarle o confutarle. In modo che poi, alla fine, sia
possibile fare una sintesi del dibattito, proprio per
quei legami che ciascuno ha tessuto con gli altri.
Questo richiede di ripudiare
l’argomento secondo me, che taglia fuori gli altri e di
impegnarsi a sviluppare ragionamenti che cerchino condivisione
ragionata anche al di fuori della propria soggettività, per costruire un pensiero comune.
Quello della democrazia è uno dei modi in cui si può essere popolo. Lo si può essere anche semplicemente rimanendo sudditi ad un potere superiore. Fino al Concilio
Vaticano 2° era appunto quest’ultimo il modo prescritto di essere popolo nella Chiesa
universale. Siamo ancora nella fase di passaggio, aperta da quel Concilio,
verso un modo diverso di essere popolo,
quello in cui si è comunità attiva di
fedeli in una Chiesa locale, porzione della Chiesa universale, non semplice suo distretto
amministrativo al quale siano assegnati
popolo e territorio, e in una Chiesa
universale come comunione di Chiese.
Di seguito
offro alcuni spunti per i dibattito che ho sviluppato dall’inizio di settembre
sul blog
http://acvivearomavalli.blogspot.it/ . Ve li offro di seguito.
1. Sull’idea di popolo.
L’idea di popolo ha
avuto uno sviluppo storico e varia, in una stessa epoca, di società in società
e di contesto in contesto. Divenne molto importante per la nostra fede
fin dalle origini.
Per il
Maestro, “popolo” era innanzi tutto quello degli israeliti della
sua epoca, ai quali disse di essere stato mandato innanzi tutto. Essi
concepivano loro stessi come popolo in quanto legati
dall’etnia, da costumi religiosi e di altro genere, da un rapporto particolare
con il territorio, tra il Mediterraneo a occidente, il Libano e la Siria al
nord, il fiume Giordano a oriente e il deserto a sud, nel quale si erano
insediati storicamente, e dalla consapevolezza di una predilezione divina che
determinava un comune destino.
E poi c’erano
tutti gli altri popoli della terra, ai quali, ad un certo punto il Maestro
inviò i suoi seguaci, per farne dei discepoli, e quindi perché
venisse insegnato loro tutto ciò che egli aveva comandato.
I primi
cristiani, presto, ritennero anch’essi di essere diventati un popolo, come gli
israeliti, salvo che per la relazione con un certo territorio. Roma e
Costantinopoli non divennero mai per i cristiani ciò che era Gerusalemme per
gli ebrei. I Cristiani si figurano una nuova Gerusalemme che
scenderà dal Cielo. E immaginano di essere amati dal Creatore,
non prediletti tra gli altri popoli.
Nello sviluppo
storico delle teologie cristiane questo popolo doveva espandersi in tutto il
mondo. Come si sarebbe dovuto relazionare con gli altri popoli? Il
rapporto poteva pensarsi come conflittuale, di
assimilazione, di coesistenza nella separazione, di dominio.
Tutte queste modalità si manifestarono negli eventi politici nei quali i
cristiani vennero coinvolti nella loro lunga storia. La nostra fede, dal Quarto
secolo, manifestò evidenti connotati politici, vale a dire che influì sul
governo delle società in cui era immersa. Presto la relazione prevalente
diventò quella di dominio.
Dal Secondo
millennio quel dominio fu teorizzato come sostenuto da una struttura
istituzionale paragonabile a quella delle società civili, ma distinta da esse.
In relazione a questa istituzione, il popolo, come nelle società
civili, venne concepito come la massa dei governati, delle persone
soggette all'autorità istituzionale. Con il formarsi degli stati europei, che
divennero modello per analoghi processi nel mondo colonizzato dagli europei,
dal Cinquecento quella struttura istituzionale venne considerata analoga a
un stato, quindi come una società organizzata, visibile, religiosa,
con poteri propri di una società perfetta e sovrana,quindi
con leggi proprie, con autorità proprie, con mezzi e fini propri, resa omogenea da
quelle leggi e autorità proprie, con un popolo costituito
dagli individui, dalle famiglie dagli altri gruppi soggetti a quel potere
istituzionale.
Nell’Ottocento,
con il formarsi in Europa delle ideologie basate sulle nazioni,
vale a dire sulle popolazioni considerate accomunate per elementi etnici,
linguistici, storici e destinate a ricadere sotto l’autorità di istituzioni di
dimensione nazionale, il popolo fu visto
progressivamente come fonte della legittimazione all’esercizio
del potere politica, insieme o in sostituzione di quella sacrale evidenziata
dalla diciture “Per Grazia di Dio” sulle deliberazioni delle
autorità sovrane. Questo processo, però, non riguardò, se non in minima parte.
la Chiesa cattolica come istituzione, nella quale, ed è la situazione di oggi,
il popolo è ancora prevalentemente presentato nella
condizione di gregge nei confronti dei Pastori,
che governano l’istituzione, anche se gli viene riconosciuta un virtù
singolare, per la quale non potrebbe ingannarsi quanto alle verità di fede.
2. Popolo di fede. E’ diverso chiedersi “Come siamo popolo?”, o, invece “Che cosa è il popolo?” o “Come dovrebbe essere il popolo?”.
Nel primo caso, non si
tratta di:
a) dare una definizione
di popolo;
b) dire quale sia la
definizione giusta di popolo in politica o religione;
c) trattare della nazione e del nazionalismo,
concetti politici strettamente legati a quello di popolo.
Si tratta di presentare come si è popolo, quindi come
ciascuno lo è e lo fa. Questo implica anche dire qual è il proprio
atteggiamento politico nella società, perché l’idea di popolo è
interamente costruita dalla politica e pertanto
è espressione di un sistema di dinamiche di potere sociali. Quindi
anche: come si partecipa politicamente
alla società.
Quella
di popolo si è sviluppata come concezione religiosa e poi
giuridica. Ora è religiosa e giuridica. Non, ad
esempio, sociologica o antropologica. La sociologia studia le dinamiche
sociali; l’antropologia le culture umane, i modi sociali di essere umani. Per
sociologia e antropologia quello di popolo è un concetto poco accurato: nelle
scienze che studiano la natura e la società si parte dalle osservazioni della
realtà, ma nella realtà il popolo non c’è. Ci sono le
società così come ci appaiono, composte da strati sociali che
le dividono, le attraversano, si scontrano, si combinano, si fondono, si
separano, a seconda delle dinamiche sociali. Ci sono individui e gruppi, con
certe caratteristiche antropologiche. La scienza studia partendo dal basso, il
concetto di popolo cala invece dall’alto. Nella ricerca
scientifica, il pensiero formale, quello che crea concetti, cerca di adattare i
concetti alla realtà; nel campo religioso e giuridico, invece, si
tenta di adattare la realtà ai concetti. Pensare realisticamente i popoli
secondo le immagini che ne propongono le
religioni e il diritto delle società va oltre le facoltà cognitive dell’essere
umano, nella sua biologia, che comprende anche capacità mentali su basi
neurologiche. Da questo punto di vista, si ritiene che un umano possa pensare al più circa 150 relazioni con altre persone.
Noi agiamo sempre in teatri sociali molto limitati. Tutto ciò che va
oltre è una massa confusa di gente nella quale non riusciamo a cogliere le
individualità se non avvicinandoci a contesti limitati, ad un certo gruppo di persone. Su questo si basa la magia del teatro e del cinema: si può rendere l’idea di masse umane con pochi attori sulla scena.
Non ne cogliamo l’incongruenza, perché la nostra realtà cognitiva è appunto
quella.
Quando il Papa si affaccia dalla
finestra del suo ufficio che dà su piazza San Pietro all’Angelus della domenica
vede solo una massa di individui: non gli è possibile coglierli
ognuno nella propria realtà personale. Ma anche per i fedeli nella piazza è un
po’ lo stesso. Vedono una figura umana, sentono la sua voce, ma non possono
cogliere il Papa nella sua individualità: gli sono troppo lontani. La nostra
vita è fatta di relazioni personali ravvicinate. Questo perché, come ci
avvertono gli esperti di psicologia cognitiva e di neuroscienza, la nostra
mente ha una base biologica che risale a circa 200.000 anni fa e, da allora,
non è cambiata molto.
Con il progresso delle tecnologie
informatiche si cerca di superare questi limiti cognitivi e di avvicinarsi a
ciò che si riteneva proprio degli dei: conoscere tutti nella loro individualità personale. Questo perché ciò darebbe
un potere enorme sulle società umane: è un risultato che in Occidente si è già
prodotto, su scala ancora non generale
ma comunque abbastanza vasta, nelle attività di influenza dei consumatori e dei
corpi elettorali. Sistemi automatici hanno imparato a parlare a ciascuna delle persone sulle quali chi
gestisce il sistema vuole influire, ma parlando
nello stesso alle persone come
componenti di una società, in modo da influenzare l’agire sociale di
moltitudini. In questo lavoro l’idea di popolo
non è utile. La tecnologia informatica, combinata con la psicologia, la
sociologia e l’antropologia, fa emergere gli
strati sociali di cui una società è composta, per influirvi.
Per certi versi quello di popolo è un
concetto di natura mitologica, vale a
dire una narrazione che combina aspetti di realtà con elementi emotivi, in modo
da rendere l’idea, non di ciò
che è, ma di ciò che si vorrebbe
fosse.
Vediamo in questi giorni i
grandissimi stormi di storni sulla nostra città. Improvvisamente si levano in
alto e cominciano a girare tutti insieme e sembra che cerchino una direzione:
ad un certo punto partono tutti insieme. Stormo,
una parola dal gergo militare è
passato alla biologia. Indica una moltitudine inquadrata e orientata. Popolo ha un significato
simile: ecco perché nasce dal gergo religioso e giuridico. In entrambi quei
campi si fa questione di autorità e di obbedienza. Vi sono stati tempi in cui popolo era chi obbediva
e altri nei quali il popolo si faceva motore dell’agire sociale, era un
società in movimento ordinato verso un fine. Quando Giuseppe Mazzini,
rivoluzionario irredentista italiano (1805/1872), propose il motto Dio e popolo era in quest’ultimo senso
che intendeva il popolo.
L’idea di popolo fu al centro del
dibattito sviluppatosi nella Chiesa cattolica durante il Concilio Vaticano 2°,
che si svolse a Roma, nei palazzi del Vaticano, tra il 1962 e il 1965 e che
deliberò una marcata riforma della nostra Chiesa, rimasta in gran parte
inattuata. Si volle indurre un cambiamento dell’essere popolo nella nostra Chiesa, da moltitudine obbediente, resa popolo
proprio da quell’essere sottomessa al dominio di un sistema di autorità, a
moltitudine motore della storia, per
indurre un mutamento sociale radicale, secondo l’idea di agàpe salvifica, in una società sottomessa
alla violenza sociale, economica,
politica, a partire dalle singole persone per estendersi come un incendio a
tutti gli ambienti, fino a modificare le strutture sociali di potere dominanti.
L’agàpe, termine del greco antico che è al centro delle
narrazioni evangeliche e che richiamava originariamente l’idea di un lieto convito,
è una forma di convivenza libera dalla violenza e dall’oppressione.
Ora, a noi, per crescere in una
fede che sia capace di pensiero sociale e dunque di attivismo sociale, di
pensiero orientato all’azione sociale secondo la missione dell’Azione Cattolica,
non serve approfondire più di tanto il concetto di popolo sotto il profilo
religioso o giuridico, quanto capire se il
nostro modo di vivere la fede comprenda, e come, un essere popolo, e anche come si manifesti, nella pratica del nostro
vivere quotidiano, questo essere popolo.
Ci sentiamo e agiamo come popolo
sottomesso ad autorità o, anche o invece,
popolo motore della storia? Come
interpretiamo questo nostro essere popolo
secondo la nostra vita di fede
religiosa (secondo la nostra teologia pratica,
per ora senza considerare la dottrina,
quella teologia semplificata che ci insegna come obbedire alle autorità
religiose)? Il nostro essere popolo è
in qualche modo legato alla nostra fede e come?
Una versione di questo proposito
di riforma, che implica una proposta di essere
popolo e di considerare come popoli le masse che animano le società umane, si
trova nel magistero di Papa Francesco, regnante nella nostra Chiesa dal 2013.
Una sintesi efficace si trova nel libretto
di Roberto Repole “Il sogno di una Chiesa evangelica -
L’ecclesiologia di papa Francesco”, del quale ho pubblicato una sintesi sul
blog https://acvivearomavalli.blogspot.com .
3. Difficile immaginare
il popolo. Popolo si è un po’ come gli stormi degli uccelli: una massa
orientata, che va verso una direzione e ci va tutta insieme. Ma gli stormi di
uccelli, per quanto numerosi, e talvolta come accade a Roma con gli storni
molto numerosi, non sono mai tutto, anzi tutti. L’idea
di popolo va molto più in là di ciò che si vede. Ciò che non
si vede, si cerca di immaginarlo, e qui soccorre il mito,
soprattutto per evocare la direzione di quelle moltitudini che
chiamiamo popoli. Il problema è che proprio non ce la facciamo
ad immaginarci veramente una moltitudine come un popolo,
ad esempio quella del popolo italiano. Alla fine ciò che ci appare
nella mente è un po’ sempre una folla e poi, in essa, dei
gruppetti o addirittura degli individui che prendiamo come simboli del
popolo a cui appartengono.
Nei miti
che riguardano il popolo è su quei simboli che riversiamo attributi emotivi e,
allora, la nostra immagine di popolo finisce per risentirne, perché una persona
la collega, ad esempio, a Giuseppe Mazzini, un’altra al Cavour e un’altra
ancora al Papa Pio 9°, che di Mazzini e Cavour fu un duro avversario. Infatti,
se ci avviciniamo a una società, l’indistinzione che caratterizza in genere
l’idea di popolo, come gruppo che comprende tutti, svanisce
e ci si manifesta la realtà delle società umane, che sono fatte di gruppi in
interrelazione tra loro per questioni di interesse, vale a dire per le
direzioni che prendono e che a volta li portano a collidere continuando a
fronteggiarsi, altre a fondersi, altre a separarsi, e, infine, recuperata
precariamente una certa stabilità pacati i conflitti, spesso a porsi in una
gerarchia, dove c’è chi domina e chi è dominato, e rimane una
tensione tra loro.
Le narrazioni
evangeliche in questo non ci soccorrono. Raccontano, infatti, di un piccolo
gruppo, in posizione blandamente anarchica, quindi non rivoluzionaria, nei
confronti dei poteri costituiti al suo tempo, che provoca dinamiche piuttosto
fluide intorno a sé. Non vediamo costituirsi, dalla sua azione sociale,
posizioni di potere stabilizzate che inducano il sorgere di un popolo.
Lo avvicinano folle, tra le quali poi si stagliano alcune
persone che interagiscono con il Maestro e i discepoli in una relazione
interpersonale, con effetti riflessi sulla società, ma non politica in
senso proprio. Come negli episodi della moltiplicazione prodigiosa del cibo,
dai quali non origina un’organizzazione sociale: finito l’episodio le folle e i
discepoli con il Maestro si separano.
Compare il popolo nell’inchiesta
di Pilato sul Maestro, quando gli fu portato prigioniero invocando che fosse
giustiziato. Vennero le autorità e il popolo, ma certamente
non c’era tutta la gente della città e nemmeno tutti gli
israeliti, e quindi quel “popolo” non era veramente il popolo. C’erano
i capi religiosi e una folla orientata contro il predicatore
detenuto: quest’ultima popolo in quanto soggetta ad
un’autorità, quindi “stormo”, nel senso originario di brigata
combattente secondo ordini ricevuti. Non è il popolo come
oggi cerchiamo di figurarcelo quando usiamo quella parola.
«Sarete
odiati da tutti i popoli a causa del mio nome» [nel Vangelo secondo
Matteo, capitolo 2, versetto 9]. Ecco, qui la parola popolo appare
usata nel senso in cui oggi la intendiamo. In questo contesto, però, si prevede
una dinamica conflittuale, che in alcuni casi si è prodotta, soprattutto alle
origini, ma poi è mutata in quella di assimilazione e dominio, con
l’inculturazione dei cristianesimi in Asia, Europa e poi in tutto il mondo,
processo di scontro che però in certi posti è senz’altro ancora vivo, e allora
ci immaginiamo popolo oppresso da altri popoli senza mai veramente riuscire a
figurarci l'inverso. La situazione italiana di oggi non è certamente quella del
conflitto, tanto che la Repubblica finanzia in maniera imponente la nostra
Chiesa ed è rimasta legata ad essa con trattati molto importanti e impegnativi
noti come Patti Lateranensi, conclusi del 1929 dal Regno d’Italia e
revisionati in era repubblicana nel 1984. Il nostro problema però è
quello di capire se l’essere popolo abbia anche un
significato per la nostra fede e, in particolare, per la missione di
evangelizzazione: quell’essere inviati. A chi?
« “Andate
dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare
tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo".», così traduce CEI 2008 Mt 28,
18-20, dal testo in greco antico.
« “Andate
dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad
osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo"», così tradusse CEI 1974 lo stesso passo.
E così, la
TILC - Traduzione interconfessionale in lingua corrente,
togliendo di mezzo “popoli” e “nazioni”: « “Perciò
andate, fate che tutti diventino miei discepoli; battezzateli nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; 20 insegnate loro
a ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato. E sappiate che io sarò sempre
con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo”».
Il testo greco,
dove quelle versioni traducono popoli, nazioni e tutti,
ha πάντα τὰ ἔθνη, che si legge pànta
ta ètne: la prima parola significa tutte, la seconda le,
e la terza, che è all’origine della parola italiana etnia, nel greco
antico significava sostanzialmente stirpi, genti legate dalla
convinzione di una comune discendenza, ma, nella Palestina al tempo del
Maestro, veicolava il concetto di genti straniere rispetto
ai Giudei, come si chiamavano tra loro gli ebrei rimasti in
Palestina dopo l’Ottavo secolo dell’era antica, quando molti altri vennero
deportati altrove.
E’thnos non è equivalente alla
parola greca dèmos, che compone la parola italiana democrazia,
tanto importante nelle nostre ideologie politiche. I greci antichi fecero delle
loro etnie dei popoli-dèmos, costruendo costituzioni attraverso
la politica, che è il governare il popolo-dèmos, mentre
la democrazia è il popolo che governa se stesso. In
definitiva, il popolo-dèmos emerge dalle etnie mediante
la politica. L’etnia richiama prevalentemente gli
aspetti naturali dei gruppi umani, il popolo quelli
culturali, tra i quali principalmente la politica.
Ecco che
il greco imparato poco e male al liceo, per la mia qualità di pessimo studente,
ora mi torna utile nella mia meditazione religiosa. Ma essa naturalmente è
veramente infima cosa rispetto alla letteratura immensa che su ogni parola dei
Vangeli è stata prodotta, e nessuna persona umana può ormai dominarla.
Nondimeno quella meditazione rimane uno dei principali doveri religiosi, la
nostra spiritualità si fonda su di essa: affrontarla nel dialogo vero la arricchisce,
oltrepassando i nostri limiti individuali, che sono anche del sapiente: nessuno
riesce ormai a sapere tutto. Da qui l'utilità di incontri come
quelli che abbiamo programmato, delle nostre riunioni come gruppo di AC San
Clemente, e anche la ragione per cui, con lo strumento di Google
Meet, vorremmo coinvolgere altri. Inoltre, come AC, uno dei nostri
principali interessi è l'azione sociale, che esige appunto l'aprirsi sociale,
in particolare per elevarsi alla politica democratica. E su questa via incontriamo
il problema del popolo.
Mi
sono convinto di questo, ma naturalmente è argomento che nel dibattito con
altre persone colte, o addirittura veramente sapienti, potrebbe non reggere e
richiedere di essere modificato (Il dialogo, se è veramente tale, arricchisce.
La sapienza circola): sulla questione popolare in
senso politico, il pensiero evangelico non ci dà precise istruzioni, in
particolare su come risolvere i conflitti sociali, non tanto per fare
giustizia (che comunque è molto importante), ma per orientare la
gente e farne così ciò che immaginiamo debba essere un popolo,
quando cerchiamo di figurarcelo.
4. Popolo e organizzazione sociale. L’idea di popolo, come anche quella di nazione, non si basa sull’osservazione della realtà delle società
umane: popoli e nazioni
non esistono in natura, si tratta di
concetti culturali, in particolare
con una forte valenza politica. Sintetizzo un’argomentazione che, naturalmente,
va sottoposta a verifica nel dialogo. La riunione in videoconferenza Google Meet del gruppo AC San Clemente indetta per il prossimo 17 ottobre, alle 17,
dovrebbe servire a questo. E’ finalizzata all’azione
sociale, il campo principale di lavoro dell’Azione Cattolica, e si terrà con metodo democratico, che implica pari
dignità e libertà di pensiero e di espressione e, quindi, anche una demitizzazione dei concetti che vogliono definire i fatti
sociali, nel senso che nulla è sottratto al dibattito, nessuna definizione può pretendere obbedienza incondizionata, tutto è proposto per l’adesione libera e
partecipata, dunque aperta
all’interazione, nessun argomento può essere respinto facendo appello ad
una autorità, ogni confutazione deve essere sufficientemente argomentata. Questo è il metodo che si adotta anche nella
ricerca scientifica. Va bene per tutto il
popolo? Ecco, vedete: torna il concetto di popolo, per decidere su una questione molto rilevante, vale a dire
quella sulla libertà da riconoscere
alle persone. Fino ad epoca abbastanza recente la nostra gerarchia restringeva
abbastanza quella libertà nel governo della maggior parte della popolazione, e
questo anche non in ambito propriamente di dottrina dogmatica, quelle
affermazioni fondamentali tratte dalla teologia che vengono poste come
discrimine tra chi è dentro e chi è
fuori. Quindi il metodo democratico di dialogo è poco
usato nelle nostre collettività, che in gran parte vedo costruite come comunità intorno ad autorità
costituite per delega o cooptazione dall’alto
o carismatiche.
Nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium, un documento legislativo contenente
definizioni dogmatiche deliberato durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
troviamo la seguente definizione, al n.2:
Così la Chiesa
universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall'unità
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Qui è la teologia che definisce l’idea di
popolo, attribuendogli il principale fattore
di unità, di natura soprannaturale.
Fatto il lavoro teologico, comincia quello sociale, che può essere organizzato
in diversi modi, tra i quali quello democratico. In una teocrazia la medesima
autorità che ha la forza di imporre quella definizione teologica come dogma, quindi come affermazione
sottratta al dibattito se non per chiarirne il senso e l’estensione, darà le
disposizioni conseguenti di organizzazione sociale. Questo fu l’orientamento
della prima dottrina sociale, quella che troviamo nell’enciclica Le novità - Rerum novarum, diffusa nel 1891 sotto l’autorità de papa
Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°. Il metodo teocratico si scontra con la difficoltà di comprendere
nei dettaglio quella realtà sociale di cui si vorrebbe, d’autorità, fare un popolo. Fatalmente si scivola
nell’assolutismo dogmatico che
finisce per comprendere nel dogma anche tutte le disposizioni, per così dire, esecutive, irrigidendo il sistema che
inevitabilmente viene a scontrarsi con resistenze sociali di una popolazione
che la teocrazia non riesce veramente a capire. Posta la definizione di Chiesa come popolo e il suo fattore di unità nella Trinità divina,
sono possibili molte vie diverse per costruire in pratica quel popolo. Oggi è
molto sentita la questione di come quel popolo
debba entrare in relazione con gli altri popoli e se debba essere, oltre che principio di
unità tra i credenti cristiani, anche promotore dell’unificazione dell’intero genere umano, e se, in questo
caso, esso dovrà soppiantare gli altri popoli, assimilarli o farsene assimilare, o, infine,
mantenersene sempre separato, al
mondo in cui l’ebraismo ha in genere pensato il suo rapporto con le altre genti. Dalla definizione dogmatica non
discende tutto il resto, che va pensato e organizzato,
come in effetti si è fatto in vario modo nella storia bimillenaria della nostra
Chiesa. Negli scorsi anni ’60 lo si è fatto durante il Concilio Vaticano 2°,
che ha avuto al suo centro, appunto, l’idea di popolo e il ruolo in esso del laico,
vale a dire chi non è chierico o appartenente ad un ordine religioso.
Il metodo democratico applicato a problema
dell’organizzare il popolo parte
dalla condivisione del lavoro tra chi di quel popolo è chiamato a fare parte,
che, come osserva spesso papa Francesca,
è in maggioranza il laico. La teocrazia
parte dall’alto e dai concetti
teologici, la democrazia fa emergere la realtà sociale come effettivamente è, nel suo grande
pluralismo in un mondo più popolato che mai, e cerca le vie per raggiungere il fattore di unità definito dalla teologia. In quest’ottica, la competenza a valutare e decidere dipende dal fatto che
quella del popolo è una realtà che anzitutto va vissuta, e vissuta da ognuno. Vissuta significa anche sviluppata
nelle situazioni concrete della vita, che sfuggono al potere e anche alla capacità cognitiva di
qualsiasi teocrazia, come anche di qualsiasi altro potere, e sono materia della
responsabilità personale.
Una religione puramente teocratica può senz’altro essere cosa solo degli specialisti
teologi, così come l’informatica che c’è negli smartphone che usiamo tutti i giorni è materia dei tecnici
informatici e il popolo, nell’insieme, deve limitarsi a utilizzare secondo schemi preordinati altrimenti spacca i
telefoni, ma una religione popolare, che quindi voglia anche costituire e costruire un popolo, no, almeno nell’essenziale: in
quest’ottica, se la Chiesa universale è
popolo, con il fattore di unità Trinitario, ciò che non può essere compreso, e quindi accettato consapevolmente,
dal popolo non è l’essenziale. Ma il popolo è realtà necessariamente
pluralistica, con tante facce e menti quante sono le persone chiamate a
comporlo, altrimenti non è popolo ma solo una sua immagine mitizzata, quindi semplificata, e questo richiede che in
quel comprendere per accettare siano
coinvolti molti e che tra i quei molti
avvenga quello scambio di idee che consenta la diffusione del sapere e delle
esperienze indispensabile per fare di una
popolazione, quindi dei molti,
una superiore unità. Il metodo
democratico, come oggi lo si pratica, e lo si pratica in modo molto diverso per
certi aspetti da come lo si faceva tra i greci antichi che lo inventarono e
teorizzarono per primi, serve appunto a fare quel lavoro in modo più ampiamente
condiviso e partecipato.
5. Essere popolo. Dal punto di vista giuridico, popolo è la gente stabilmente soggetta all’autorità dello stato
senza esserlo a quella di altri stati, come gli stranieri. In alcuni casi i
trattati internazionali consentono che si possa essere contemporaneamente
soggetti all’autorità di due stati. C’è poi il caso degli stranieri che però
non sono soggetti all’autorità di altri stati, gli apolidi, e per essi valgono regole particolari. Infine la legge
italiana considera popolo anche un certo numero di discendenti di italiani che
risiedono stabilmente all’estero e che, per questo, sono molto labilmente
soggetti alle autorità italiane.
A partire dal Cinquecento, la Chiesa
cattolica si è data un’organizzazione politica simile a quella degli stati e
considera i fedeli come suo popolo in senso giuridico. Considerata però dal
punto di vista religioso, secondo la sua dottrina quindi, essa, nel complesso, è popolo e, più precisamente «un
popolo che deriva la sua unità dall'unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Questo fattore ideale di unità sostituisce quello che per
gli stati è costituito dalla loro cultura in senso sociologico, vale a dire
l’insieme di concezioni, costumi, istituzioni, tradizioni, comprese quelle
religiose, miti e lingua comuni a una
gente stanziata su un certo territorio e diffusi in modo prevalente nella sua
società, sulla cui base quando si pensa a quella gente la si pensa come popolo.
Questi elementi culturali non sono essenziali per la fede, che è destinata a
diffondersi in tutte le culture umane. Nello stesso tempo, quando si diffonde,
ciò avviene permeando le culture dei popoli e, ad un certo punto, entra nelle
loro tradizioni religiose, costituendone così un fattore di unità con rilevanza
politica, quindi per il governo delle società di riferimento. E’ in questo tempo che l’Italia venne
considerata un insieme di popoli cattolici, e poi uno stato e una nazione
cattolici: il principio della religione
cattolica come religione di stato venne definitivamente abbandonato solo
nel 1984, con la revisione del Concordato Lateranense tra la Repubblica
italiana e la Santa Sede (il Papato romano) che quell’anno fu deliberata dalle
due parti, con la procedura prevista dalla Costituzione vigente. Ma già era
superata con l’entrata in vigore di quest’ultima che non lo prevede e, anzi, è
fondata sul diverso principio della laicità
dello stato.
Considerata dalla parte degli
individui, la questione del popolo, da
quando si sono costituiti gli stati, si presenta sotto forma di quella della cittadinanza. La cittadinanza è
l’insieme dei diritti e dei doveri che per il singolo comporta l’essere parte
di un popolo in senso giuridico. Con l’affermarsi dei processi democratici, tra
quei diritti vennero compresi anche quelli politici,
di partecipazione al governo. Nelle autocrazie essi erano e tuttora sono
fondamentalmente limitati a certe garanzie,
in particolare per quanto riguardava i beni, la vita, le procedure giudiziarie.
Ma essi tendono a scemare aumentando il grado dell’autorità pubblica che li
fronteggia: nelle autocrazie del passato ogni diritto poteva essere travolto
dal sovrano. Ai tempi nostri anche nelle autocrazie sono stabilite garanzie
formali verso il potere supremo, ma esse tendono di fatto ad essere ignorate.
La Chiesa cattolica è organizzata giuridicamente come un’autocrazia, che
tuttavia riconosce ai propri sudditi vari diritti di garanzia verso ogni
autorità pubblica salvo quella del Papa, la cui potestà di governo è definita «ordinaria
suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre
esercitare liberamente.» [dal
canone 331 del Codice di diritto canonico vigente, deliberato nel 1983].
Nell’esercizio del governo egli è libero di avvalersi o di non avvalersi della
cooperazione degli altri vescovi. Tuttavia, per effetto delle leggi deliberate
durante il Concilio Vaticano 2° (1962/1965), dagli scorsi anni Sessanta la
Chiesa cattolica è interessata a diffusi processi democratici, in particolare
nel suo essere popolo con fattore di
unità Trinitario, in particolare per il diverso ruolo che fu stabilito in esse
per i laici, i fedeli che non sono né chierici né appartenenti ad un ordine
religioso. Essi, fino ad un certo punto, furono assecondati, perché si iniziò a
pensare al popolo nella sua realtà di organismo di diffusione e di trasmissione
della fede, dove per secoli lo si era pensato sostanzialmente solo come oggetto dell’evangelizzazione attuata da chierici e
ordini religiosi.
In effetti le tradizioni
religiose si diffondono e perpetuano nel popolo allo stesso modo degli altri
elementi culturali che contribuiscono a definirlo, appunto, popolo. Il problema è però che, quando
si è giunti a prendere coscienza di
questo fatto, questa modalità popolare di evangelizzazione andava facendosi meno
efficiente, per i contemporanei processi di desacralizzazione
del potere politico che si andavano
manifestando. La desacralizzazione
politica, che viene detta anche secolarizzazione,
parola che indica appunto che dalle
autorità politiche si pretende una forma di legittimazione
diversa da quella religiosa, è un fenomeno che è comune a tutto
l’Occidente, ma che in Italia, per i fatto che dal dicembre del 1945 al maggio
1994 il partito cattolico, la Democrazia Cristiana, ebbe la
responsabilità della direzione del governo, ebbe caratteri particolari, perché
fu assecondato dalla Chiesa cattolica italiana per liberare l’evangelizzazione
dai pesanti condizionamenti della politica che si erano inevitabilmente
prodotti. Il voto cattolico concentrato su quel partito era stato infatti
essenziale per l’instaurazione e il mantenimento della nuova democrazia
repubblicana, che aveva anche mantenuto certe posizioni privilegiate di potere
alla gerarchia cattolica. In quest’ordine di idee, in particolare, si spiega il
senso della scelta religiosa compiuta dall’Azione Cattolica dal 1963,
durante la presidenza di Vittorio Bachelet: da allora l’associazione legò se
stessa alla promozione della politica democratica e di una coscienza religiosa
libera e consapevole, adulta in questo senso, indispensabile per influire,
come popolo, nella prima. Un
modo di essere popolo questo che
non poteva non rifluire su quello di essere Chiesa.
6. Popolo o tribù? La concezione di popolo ha natura propriamente politica e quindi influenza le attività formative. Gli
esseri umani sono infatti, per natura, viventi che formano società, ma non sono per natura popolo. Essere popolo è un modo di
vivere una società umana secondo particolari connotati culturali. L’essere popolo deve quindi essere appreso e
insegnato. E ci sono diversi modi di esserlo.
Nelle nostre attività formative religiose non
si ha di solito ben chiaro come essere popolo secondo la fede e che cosa comporti. La teologia e, quindi, la catechesi
si mantengono molto sulle generali, apparentemente pronte a correggere ma non
capaci veramente di definire.
Uno degli errori più comuni, e fatali, nella
formazione religiosa è proporre il popolo secondo la
fede come una tribù, quindi con legami di solidarietà, dipendenza
e preminenza/sottomissione modellati sullo schema della famiglia allargata e
quindi con struttura piuttosto rigida modellata su autorità paterne. Del
resto la cultura biblica è fortemente impregnata di una tale mentalità. Ma la
vita tribale è caratterizzata da un complesso di miti/tradizione/costumi che non sono fondati sugli insegnamenti
evangelici. Il Maestro, in particolare, non costituì una propria tribù e visse
piuttosto liberamente le costumanze tribali del proprio ambiente, tanto da
venire rimproverato per questo. E così
fecero i suoi primi seguaci fino, addirittura, a staccarsene (come ad esempio
sulle questioni delle prescrizioni rituali che riguardavano gli alimenti e
della circoncisione).
Inserito in una tribù, la persona ne dipende.
Come in famiglia, viene ancora accettata anche se commette una qualche
infrazione, ma non le viene perdonata il rifiuto della dipendenza, della
sottomissione. La decisione di staccarsi dalla comunità comporta anche
l’interruzione delle sue relazioni con le persone che sono rimaste dentro,
quindi la sua emarginazione. La
minaccia dell’esclusione e dell’emarginazione
è un potente strumento di controllo nelle mani delle autorità paterne
che dominano il contesto tribale. In questo modo la comunità esercita una pressione
sulle singole persone perché si
sottomettano. A differenza di ciò che accade nelle famiglie parentali, l’esclusione
e l’emarginazione sono possibili in un contesto tribale e sono molto temute e
dolorose per chi le subisce. Ciascuna
persona sta nella tribù come incastrata. La tribù poi si difende dal
contesto sociale intorno separandosi da esso o entrando in conflitto attivo.
Innestare la formazione religiosa in un
contesto comunitario di tipo tribale può apparire utile per consolidarla con
quella pressione di cui si diceva. In realtà è altamente controproducente,
perché è propria degli esseri umani, biologicamente, l’apertura sociale e
questo a differenza delle specie che biologicamente ci sono più vicine. Inoltre la buona novella
evangelica veicola un messaggio di liberazione e di libertà. Vi è poi il
rischio di confondere il messaggio religioso con altre tradizioni culturali che
portano a travisarlo. Infine, tale modo di procedere è disastroso nella
formazione dei giovani, i quali, per natura, devono affrancarsi da simili contesti costrittivi,
come dalle famiglie di origine. Di fatto, il risultato è, prima o poi, il
rifiuto della comunità tribale e, insieme, della religione. E’ fatale che
accada, soprattutto in una società aperta come quella in cui siamo immersi.
Di solito, il metodo basato su comunità di
tipo tribale comporta il distacco dalla famiglie di origine, qualora non siano
inglobate nella tribù. L’argomento di solito è quello che non sono state capaci
di mettere in riga i propri
giovani. In genere è un argomento ingiusto e infondato, addirittura
diffamatorio, non rispettoso della personalità altrui. In realtà quelle
famiglie hanno avviato i propri giovani alla formazione religiosa, secondo il
loro dovere religioso, mentre i formatori tribali, contravvenendo al proprio, li disamorano alla
fede con il loro metodo. Del resto, il metodo tribale è necessariamente
fondamentalista e totalitario: non tollera partecipazione e collaborazione, ma
solo sottomissione.
Vengono magnificati i risultati ottenuti nel
corso di eventi carichi di emotività, al modo degli esercizi spirituali, e si
rimprovera alla famiglie che, una volta che i propri giovani, rimessi in
riga, sono rientrati nel loro
ambito, non hanno saputo mantenerli come erano diventati. Ma l’evento emotivo
crea quella quella che i sociologi chiamano condizione di stato nascente, analoga a quella dell’innamoramento. E’ piena
di emotività, che suscita una sensazione di riconoscimento e di comprensione sul piano intuitivo e
profondo.
Scrisse il sociologo
Francesco Alberoni in un libro divulgativo che continua ad avere successo, Innamoramento
e Amore, RCS Libri, 1979:
«Un famoso mistico
medievale, Raimondo Lullo, scrive: - L’amante e l’amato sono realtà diverse [eppure] concordanti
insieme senza opposizione alcuna né alcuna diversità di essenza -. Ne
deriva perciò una esperienza particolarissima, di essere completamente diversi
eppure di avere una misteriosa e fortissima affinità spirituale. Questa
affinità spirituale però prima non c’era, si va costituendo nell’incontro
stesso.
[…]
E’ questo il motivo per
cui, nei grandi movimenti collettivi, migliaia di persone diverse per età, per
classe sociale, si “riconoscono” e formano una unità collettiva, un noi. Il
processo è ancora più intenso e violento dell’innamoramento.
[…]
Tutti i movimenti collettivi nella loro fase iniziale, in quello che
chiameremo stato nascente, hanno
queste caratteristiche.
[…]
L’innamoramento ha […] la funzione di
separare ciò che era unito e unire quanto era diviso; ma unire in modo
particolare perché questa unione si
presenta come alternativa
strutturale alla solida relazione precedente. La nuova struttura
sfida quella antica alle radici, la degrada a qualche cosa che no ha valore. In
parallelo fonda la nuova comunità sulla base di un valore assoluto, un diritto
assoluto, e riorganizza attorno a questo diritto ogni altra cosa.»
Quando una persona in formazione viene
condotta a un evento emotivo organizzato da una comunità che è organizzata per esercitare una pressione al
modo tribale, viene spinta a staccarsi dall’ambiente sociale di origine, e, se è una
persona giovane, dalla sua famiglia di origine, e spinta verso la comunità
tribale. Se, finito l’evento e rientrando in famiglia o comunque nelle
relazioni sociali consuete, non si stacca dai costumi familiari o da quelle
delle relazioni abituali, significa che l’integrazione tribale non è riuscita,
non che ha rifiutato la fede. Ma, per quella comunità, e per le autorità paterne
che la dominano, il rifiuto della
comunità equivale al rifiuto della fede e quindi prenderanno ad
escludere ed emarginare la persona riottosa. Ecco, questa conclusione è
assolutamente arbitraria e fa molto danno se vi si dà spazio nella formazione
religiosa. Esprime una violenza psicologica inammissibile e, in quanto
violenza, controproducente e antievangelica. Bisogna sempre saper distinguere
il processo di conversione personale da quello di assimilazione personale in una
certa comunità. Nessuna comunità particolare può pretendere di esaurire i
modi di vita secondo la fede, quasi che non ne fossero possibili al suo
esterno.
La condizione di stato nascente è, per sua natura, in quanto suscitata da
forti elementi emotivi, transitoria. Se
non produce, nel tempo, un’amicizia, si esaurisce: il formatore religioso dovrebbe
adoperarsi per favorire una solida e
costante amicizia con Dio che poi si riverbera nelle relazioni sociali.
Una formazione alla fede legata prevalentemente ad esperienze altamente emotive
produrrà invece adesione altalenante, legata a condizioni straordinarie
fatalmente episodiche, una sorta di realtà aumentata nella quale la fede
agisce un po’ come un fattore allucinante.
La fede, poi, serve veramente per mettere
in riga le persone? E’ una sorta di
ausilio alla polizia sociale? Il servizio che le comunità formative organizzate
al modo tribale offrono è appunto questo. Non stupisce, naturalmente, che i
giovani se ne tengano alla larga.
Per la verità, questa idea del controllo
sociale organizzato con una formazione comunitaria permea anche il rinnovamento della catechesi
progettato dagli anni ’70. Comunità emotivamente coinvolgenti avrebbero dovuto
sostituire quella pressione che sulle persone veniva esercitata dall’ambiente
di cristianità in cui viveva, quello in cui si era persona per bene se si andava a messa. Naturalmente
questa era più che altro una tentazione che rimaneva un po’ sullo sfondo,
perché si faceva e si fa invece molto conto sull’adesione profonda, personale,
consapevole, ma c’era. Ma fare formazione vera, quella che rende liberi della libertà dei figli di Dio costa
tempo e fatica e bisogna esservi preparati. Non tutti quelli che si occupano di
formazione appaiono tali.
«Cristo ci ha
liberati per la libertà! Sta dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il
giogo della schiavitù» (Lettera ai Galati 5,1; detto a proposito
dell’obbligo rituale di praticare la circoncisione)
E’ discutibile l’idea di essere popolo di
fede secondo costumi tribali, perché
non ci è stato ordinato di chiuderci dentro delle tribù, ma di andare per il mondo
a coinvolgere tutte le genti. Quest’idea si ritrova anche nel magistero di papa
Francesco sulla Chiesa in uscita.
Dunque, come essere popolo? E’ proprio
il tema dell’incontro programmato per il prossimo 17 ottobre. E, innanzi tutto,
essere popolo o essere nel popolo? Essere
popolo implica un’idea di conformità collettiva a un ideale modello
sociale, da adottare tutti insieme (perché il popolo è moltitudine). Essere nel
popolo denota invece un modo di interrelazione sociale che, anche in
un certo popolo, lascia sussistere e ammette la diversità e un contesto pluralistico. La concezione democratica di popolo è appunto
questa.
7. Un popolo e la sua storia. L’idea di popolo non corrisponde a una realtà
naturalistica, come quella relativa al comportamento sociale degli umani.
Rientra nella cultura di una società, vale a dire l’insieme delle concezioni,
costumi, tradizioni, modalità comunicative a partire dal linguaggio,
istituzioni che viene utilizzato per definirla, oggettivarla, renderla
comprensibile e prevedibile e, in questo modo, per governarla. Una società può
essere fondata in un certo tempo storico con forti elementi di novità, e
quindi, in questo senso, partendo quasi da zero (mai da zero, per gli elementi
culturali preesistenti che fatalmente compongono le mentalità dei suoi nuovi
consociati). Un popolo al contrario, proprio perché prodotto culturale, non è
mai concepibile senza far riferimento a una lunga storia. Tutti gli elementi
che lo connotano hanno avuto una evoluzione storica, in particolare le sue
istituzioni che si legano a certe tradizioni. Anzi, gran parte del credito che
quelle istituzioni riscuotono si deve al fatto di essere manifestazione di
tradizioni storiche. L’antico culto degli antenati si basava su questo. Il
processo genetico delle società deriva da abitudini di relazioni sociali che si
consolidano ripetendosi nel tempo e coinvolgendo sempre più gente. La consuetudine,
non la legge formale quella
deliberata da un’autorità costituita, è stata la più antica fonte del diritto ed è
ancora all’origine dell’evoluzione giuridica che sempre si manifesta nel
concreto mondo delle relazioni sociali, e solo successivamente entra nella
riflessione teorica dei giuristi e nei provvedimenti normativi delle autorità.
Quando ci riferiamo genericamente ad un popolo
di solito vogliamo intendere la gente
che consideriamo esprimere una nazione. Quest’ultimo è un concetto molto
recente nelle idee politiche, e risale fondamentalmente, in
quell’accezione, al Settecento ed ebbe
il suo massimo sviluppo nel secolo seguente. La politica contemporanea lo sta recuperando
in vari modi dopo il discredito che a lungo lo aveva colpito, per le catastrofi
causate in Europa dai nazionalismi fascisti.
Il
concetto di nazione è
affine a quello di popolo, con
una particolare accentuazione di ipotizzati legami di etnia e con un certo
territorio. Ma è poi la politica che definisce l’estensione di quello che viene
definito stato nazionale e quindi del suo popolo. Su queste
basi, ad esempio, si fece il processo di unificazione politica italiana,
compiuto nell’Ottocento, sulla base del mito della nazione e
quindi del popolo italiano,
quindi di una narrazione colorata da molti elementi emotivi e discriminando
nella storia delle genti italiane quelli che non si accordavano con essa. In
realtà, ancora oggi come allora, variando certi criteri e tenendo conto di ciò
che in precedenza si era ritenuto secondario, si possono distinguere nell’area
geografica che politicamente si definisce Italia vari aggregati che, per
storia e cultura, meriterebbero il titolo di nazioni e di popoli. La necessaria correlazione
tra governo e nazione, per
cui ogni nazione debba avere un suo governo, non è mai stata storicamente data per scontata
e venne proposta come ideale politico solo a partire dal Settecento in Europa.
Nel mondo contemporaneo in genere gli stati presentano caratteri
multi-nazionali, vale a dire che aggregano componenti sociali con
caratteristiche di nazioni diverse. Bisogna evidenziare che l’ideale dello stato,
vale a dire di una istituzione di
vertice che in linea di principio non riconosce altri poteri sopra di sé, sovrano
in questo senso, è stato teorizzato sempre prima di quello di nazione,
come fonte di legittimazione etica e politica del primo. Anche il concetto di nazione,
a differenza di quello sociologico
di etnia e come quello di popolo, non descrive dunque una realtà
della natura ma è una creazione politica, vale a dire finalizzato al governo di
una determinata società.
In altri contesti, la parola popolo viene ad indicare solo una parte della
società, contrapposta alla sua struttura istituzionale di vertice, in
particolare nei sistemi politici basati sul dominio di aristocrazie di stirpe,
come nell’antico sistema feudale europeo o come avveniva nell’antica repubblica
di Roma, tramontata nel primo secolo dell’era antica con l’egemonia di Giulio
Cesare.
La sigla S.P.Q.R., usata nella Roma antica per definire il
sistema di governo, significa, dalle iniziali in latino, il Senato e il
Popolo Roma, dove originariamente il Senato era un organo collegiale di
governo composto da membri di un’aristocrazia (anche se nel tempo vi furono
ammessi anche coloro che non ne originavano), e il popolo era la parte restante
della popolazione. E’ stata questa, fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e
al codice di diritto canonico deliberato nel 1983 per conformare le istituzioni
ecclesiastiche ai principi teologici affermati da quel Concilio, anche la
concezione di popolo adottata nel governo della Chiesa:
sintesi dei canoni 2016-217 del Codice di diritto canonico
deliberato nel1917.
Le Diocesi, e
possibilmente i Vicariati e le Prefetture Apostoliche si divideranno in parti
territoriali; alle singole saranno assegnati la chiesa, il popolo e il
pastore proprio. Nelle Diocesi le parti si chiamano parrocchie, fuori,
quasi-parrocchie se hanno un proprio pastore; nè sono ammesse divisioni per
nazionalità, famiglie o persone; né nelle esistenti ogni cambiamento senza
indulto apostolico. [dal Web]
naturalmente con
l’avvertenza che al posto di una aristocrazia etnica nella Chiesa vi era,
come ancora vi è, una struttura
gerarchica basata sull’Ordine sacro e quindi composta da chierici, la
quale si perpetua per cooptazione (chi è sopra sceglie coloro dei livelli inferiori dell’ordine
gerarchico).
Nell’attuale codice di diritto canonico
invece, tutti i fedeli, chierici, laici e religiosi, sono compresi nel Popolo
di Dio. Quest’ultimo però non viene definito con connotati etnici o per
legami con una certa cultura tradizionale, una lingua, un territorio e, dunque,
sotto questo profilo non è nazione in senso politico.
E’ evidente che, nel trapasso tra il codice
di diritto canonico del 1917 e quello del 1983 è variato il concetto di popolo
nel governo ecclesiastico. Ma, dagli
anni ’70, vi è stata un’evoluzione ancora più importante, per il rilievo sempre
meno marcato dato alle culture europee e quindi alla teologia europea, che di
quelle culture è parte.
Se si risale nel tempo la storia mondiale, ci
si avvede presto come, nel trapasso delle culture, anche l’idea di popolo cambiò. Se poi ci confrontiamo con le
narrazioni evangeliche, ci rendiamo conto, infine, che in esse un’idea di popolo
universale, il Popolo di Dio, come lo intendiamo oggi in religione,
non c’è, anche se sicuramente ce ne sono gli spunti.
Quando si ragiona di popolo e di popoli bisognerebbe quindi tenere
sempre sotto mano i manuali di storia delle scuole secondarie, e ricomprarli se
ce se ne è disfatti. E la storia, non solo quella detta sacra perché
relativa alle narrazioni bibliche, dovrebbe sempre rientrare nella formazione
religiosa di base.
8. Che fare come popolo nella nostra Chiesa? Concludo le mie riflessioni sull’idea di popolo,
in vista dell’incontro in Google Meet del prossimo 17 ottobre sul tema “Come
siamo popolo?”. Sono basate sulle mie letture. Sarebbe molto utile
che anche i lettori che pensassero di partecipare a quella riunione virtuale
preparassero analoghe sintesi, da proporre nel dibattito. Ho proposto di
articolare il dialogo in interventi piuttosto brevi, di tre minuti ciascuno, in
modo da evitare che la riunione diventi una specie di conferenza in cui
tutti quelli che ascoltano prendono come riferimento chi spiega, sempre che la
loro attenzione resista un tempo sufficiente, e non è scontato. Lo schema della
conferenza mal si adatta ad un incontro virtuale che non abbia come finalità un
aggiornamento specialistico. Ma partecipare tutti richiede di prepararsi.
Quando, nella Costituzione dogmatica sulla
Chiesa Luce per le genti, deliberata nel corso del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), che ha la natura e la forma di una legge della Chiesa, si fecero queste definizioni:
«[…] la Chiesa universale si presenta come « un popolo che deriva la
sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» [Cost. Luce
per le genti, n.4]
(rifacendosi alle argomentazioni di alcuni Padri della Chiesa richiamati
in nota nel documento [Tazio Tellio CIPRIANO (3° secolo), Sulla preghiera
del Signore; Aurelio AGOSTINO d’Ippona (5° secolo): Giovanni DAMASCENO (7°
/ 8° secolo), Contro gli iconoclasti])
e poi:
«In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e
opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare
gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle
costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo
servisse nella santità.» [Cost. Luce per le genti, n.9]
e
«Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una,
santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua
resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e
agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per
sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15).»
e, infine, (bisognerebbe imparare a memoria quanto segue)
[…]
«I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli
uffici della gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei
fedeli che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia
ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia
uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in
particolare alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali
circostanze del nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I
sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene
di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi
da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma
che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di
pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi
propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro
misura, al bene comune. Bisogna infatti che tutti « mediante la pratica di una
carità sincera, cresciamo in ogni modo verso colui che è il capo, Cristo; da
lui tutto il corpo, ben connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le
giunture di comunicazione, secondo l'attività proporzionata a ciascun membro,
opera il suo accrescimento e si va edificando nella carità» (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei laici
31. Col nome di laici si intende qui l'insieme
dei cristiani ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato
religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo,
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di
tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i
membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose
del secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro
speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro
ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed
esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo
spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il
regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono
nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle
ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è
come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a
modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio
sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo
agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col
fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi
particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle
quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano
costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.»
non si proposero certamente idee nuove: su di esse si discuteva, anche
con aspre e tragiche divisioni, nelle
Chiese cristiane dal Cinquecento.
In quelle affermazioni
confluiscono due modi diversi e divergenti di concepire la Chiesa e il suo popolo.
Fin da ragazzo mi furono spiegati.
Il primo modello è piramidale,
con al vertice il Papa, sotto i vari gradi della gerarchia ecclesiastica, fatta
di chierici, e, in fondo, il popolo,
vale a dire, fondamentalmente, i laici che non appartengano ad un ordine
religioso.
L’altro modello è circolare, con al centro il Cristo
e intorno il suo popolo, nel quale ognuno ha qualcosa da fare, una
funzione a beneficio di tutti, quindi un ufficio, secondo le sue
capacità e la sua indole, i laici come i chierici, come i religiosi.
Lo sforzo fatto dai chierici che
si riunirono in quel Concilio fu quello di tenere insieme i due modelli, perché, in particolare,
ritenevano che l’organizzazione feudale della gerarchia ecclesiastica, ricevuta
dai secoli addietro, fosse irrinunciabile ed essenziale per tramandare integra
la nostra fede. Di fatto, con alcuni temperamenti, continuò a prevalere il primo,
anche se non vanno sottovalutate le novità, in genere presentate solo come aggiornamenti
dell’antica dottrina, piuttosto che
come una riforma. In particolare la nostra gerarchia ecclesiastica
rimase una autocrazia teocratica, un sistema di potere che non
ritiene di aver necessità di una legittimazione dal basso, diciamo dal
popolo, in quanto fondata su un mandato soprannaturale di natura sacramentale, tramandato nell’Ordine
sacro.
E tuttavia la nostra Chiesa è
anche organizzata, almeno del Cinquecento, propriamente come uno stato,
con autorità, territorio e popolo, vuole ancora essere, nelle questioni di
stato, una società perfetta [definizione datane dal gesuita toscano
Roberto Bellarmino [1542-1621)], con
tutto ciò che ne consegue trattandosi di stato governato da una autocrazia: la
mancanza di limiti all’esercizio del potere se non quelli esercitati dall’altro
e l’ampia discrezionalità concessa ai vari livelli dei poteri intermedi,
secondo l’ideologia feudale, genera poi i problemi di cui in questi giorni ci
si scandalizza nell’opinione pubblica.
Dopo un decennio di interessanti
sperimentazioni di nuovi impegni laicali (anche nella nostra parrocchia), negli
anni ’70, durante i quali, in Italia, venne approfondito il nesso tra evangelizzazione
e promozione umana, in
particolare nel convegno ecclesiale nazionale svoltosi a Roma nel 1976, sotto
il magistero dei Papi Wojtyla – Giovanni Paolo 2° e Ratzinger – Benedetto 16°,
venne d’autorità sospeso quel processo, temendosi la dispersione del gregge dei
fedeli. In realtà, per quanto mi è stato
dato di constatare, nelle realtà di base si è talvolta addirittura arretrati a modi di essere popolo di Chiesa
caratteristici dell’epoca preconciliare, con la novità che, talvolta, i modi di
governo di tipo clericale vengono esercitati nell’associazionismo ecclesiale da
autorità laicali, ma nello stesso modo autocratico. In questo quadro, l’Azione
cattolica italiana ha fatto sicuramente eccezione, perché è governata con
metodo democratico, anche se alcune sue cariche apicali, a tutti i livelli,
anche parrocchiale, richiedono il gradimento della gerarchia ecclesiastica.
Nella realtà di base, quella
parrocchiale, in teoria i fedeli dovrebbero essere chiamati a prendere
decisioni in Assemblea e, in particolare, ad eleggere membri nel Consiglio
pastorale parrocchiale, organo solo consultivo ma comunque manifestazione
di una certa incipiente democraticità.
Spesso però queste procedure cadono in desuetudine e personalmente non
ricordo di essere stato mai chiamato a parteciparvi nella nostra parrocchia.
Quindi poi, a livello
parrocchiale, ma ai livelli superiori mi pare vada addirittura peggio, i laici
sono chiamati prevalentemente ad operare come collaboratori del parroco,
al pari dei chierici assegnati alla parrocchia, senza che sia loro riconosciuta
alcun ruolo di iniziativa o decisionale. Essi
del resto non sono abituati a collaborare tra loro e, a parte le
pratiche individuali di pietà, si riuniscono in associazioni settoriali,
prevalentemente dedite al perfezionamento spirituale, ciascuna gelosa del suo
spazio. Anche in questo campo l’Azione Cattolica fa eccezione.
Di questa situazione si è
lamentato papa Francesco, ma certamente finora non si è fatto nulla di concreto
per cambiarla. Bisognerebbe fare spazio ai laici, ma né loro, né i chierici,
sono preparati a questa nuova organizzazione del lavoro. Quindi poi si continua
a essere popolo come prima.
Ho letto che in alcune
parrocchie italiane si sono tentati processi sinodali per rinvigorire le forme di partecipazione che
sulla carta ci sono ancora. Il sinodo dovrebbe essere una organizzazione che,
nell’arco di un periodo abbastanza lungo, mesi o addirittura un anno, induca
una maggiore coesione nel popolo, chierici e laici, in modo da generare
impegni di azione collettiva condivisa e partecipata. Il primo scoglio è stato, come sempre accade nelle procedure
democratiche, e quella sinodale in alcuni suoi aspetti lo è, individuare chi aveva diritto a prendervi
parte: i residenti nel territorio
parrocchiale o anche chi aveva preso l’abitudine a frequentare una parrocchia
diversa da quella con giurisdizione sul suo luogo di residenza. La
questione è particolarmente spinosa
nella nostra parrocchia, dove in una delle organizzazioni laicali esistenti, la
più numerosa, sono presenti molti non residenti che vengono in parrocchia solo
per gli eventi di quella loro congregazione. In effetti la parrocchia ha
assegnati, come prevedeva il codice di diritto canonico del 1917, un territorio
e un popolo, che è quello che
su quel territorio abita, ma, in realtà, non si sa precisamente chi siano
quelli di quel popolo che vogliono (e sarebbero disposti a spendere il proprio
tempo per) essere parte attiva nell’istituzione parrocchiale, e non semplici utenti
di servizi religiosi. Questo, però,
ha in fondo poca importanza per come va una parrocchia ancora oggi, perché quel
popolo non conta nulla. Cambiare questa situazione, in un processo
sinodale, richiederebbe di conoscerlo, quel popolo, ma, su questa via, potrebbero
aversi spiacevoli sorprese. In teoria ho stimato che quelli che fanno
riferimento alla religione cristiana per la loro etica, e talvolta anche per la
loro spiritualità sono circa 15.000 nella nostra parrocchia; in pratica,
contando invece quelli che sarebbero veramente
disposti ad essere popolo attivo secondo le nuove (per modo di dire)
idee conciliari, potrebbe arrivarsi a poche decine di persone. Bisognerebbe
intanto cominciare da questi, perché la democrazia, in qualsiasi misura la si
introduca, ha la caratteristica di essere contagiosa, quindi di diffondersi e
di appassionare. Ma, appunto, non si è formati a farlo e, anzi, dei processi
democratici si è anche molto sospettosi.
Mario Ardigò – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli