Il popolo nell’enciclica Fratelli tutti (2020)
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La parola popolo ricorre 58 volte nell’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti (ottobre 2020). Riporto di seguito le frasi in cui compare.
Quando nel documento
si parla di popolo si esprime un pensiero propriamente politico.
La concezione di popolo espressa da papa Francesco riflette la
particolare esperienza latino-americana, che è molto diversa da quella europea,
in particolare nello sviluppo delle esperienze democratiche. E’ proprio nella
considerazione del valore della democrazia che si colgono gli aspetti più
critici, da un punto di vista europeo, del pensiero del Papa. Ne ha scritto recentemente
il professore bolognese Loris Zanatta nel libro Il populismo gesuita: Peron, Fidel, Bergoglio, Laterza, 2020, che
appare assai ben documentato e argomentato.
Nella politica, vale
a dire nel governo della società, il Papa non ha l’autorità religiosa che gli
si riconosce nelle questioni teologiche ed etiche. Il suo pensiero vale nei
limiti della validità riconosciuta alle sue argomentazioni. La principale sua
critica verso le democrazie occidentali è quella di essere, insieme, fonte di
grande arricchimento per le classi privilegiate che le dominano a fronte però
di un insostenibile sfruttamento delle risorse naturali e di molto minor o
nessun beneficio per le altre classi o, addirittura del genocidio di quelle che
ostacolano questo processo, ad esempio dei popoli che vivono in modo primitivo
molto legati ad ecosistemi naturali. Gli si oppone la critica di non
considerare a sufficienza l’epocale veloce aumento del benessere diffuso in
stati elevatisi a forme democratiche che, in Asia, Africa e America Latina, fino a qualche decennio addietro
costituivano un Terzo mondo sottosviluppato, a fronte delle gravi crisi politiche ed economiche manifestatesi in stati dell'America latina che hanno cercato di perseguire la via della giustizia sociale senza democrazia, ma secondo autocrazie populiste.
La definizione di popolo nel pensiero del Papa è piuttosto vaga, come
in genere nella dottrina sociale. Che
cosa è popolo? Sono le tradizioni etniche di genti storicamente stanziate
in una certa area territoriale o c’è altro? Ad esempio, nel concetto di popolo di Dio c’è altro.
L’idea di popolo che prevale in una cultura determina in gran
pare la sua forma di governo, come anche un’idea diversa di popolo è alla base di tutti i movimenti di riforma o
di rivoluzione, che sono sempre moti collettivi.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma,
Monte Sacro, Valli
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dall’enciclica Fratelli
tutti di papa Francesco (ottobre
2020)
In vari Paesi un’idea
dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse ideologie, crea
nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una
presunta difesa degli interessi nazionali.
Ma è anche vero che una
persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro
di sé l’apertura agli altri.
D’altra parte, ignorare la cultura di un
popolo fa sì che molti leader politici non siano in grado di
promuovere un progetto efficace che possa essere liberamente assunto e
sostenuto nel tempo.
Una terra sarà feconda,
un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in
cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui
crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo
compongono; e anche nella misura in cui rompe le spirali che annebbiano i
sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri».
C’è una motivazione per
allargare il cuore in modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare
già nei testi più antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo
ebraico di aver vissuto come straniero in Egitto […]
Far sprofondare un
popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così
opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono
impadroniti delle risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare.
Come il viandante
occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e
semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di
includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci
troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti
nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la menzogna.
Tutti abbiamo una
responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli
della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di
ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento,
l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.
Difatti, un antico testo
ebraico che menziona nazioni degne di disprezzo si riferisce a Samaria
affermando per di più che «non è neppure un popolo» (Sir 50,25), e
aggiunge che è «il popolo stolto che abita a Sichem».
Non si
tratta del falso universalismo di chi ha bisogno di viaggiare continuamente
perché non sopporta e non ama il proprio popolo. Chi guarda il suo popolo con
disprezzo, stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda
classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci
sia spazio per tutti.
Se una globalizzazione
pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa
globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun
popolo.
Servire significa avere
cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società,
nel nostro popolo.
Come non c’è dialogo con l’altro senza
identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire
dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali.
È possibile accogliere chi è diverso e
riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio
popolo e alla sua cultura.
C’è una falsa apertura all’universale, che
deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di penetrare fino in
fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un risentimento non risolto
verso il proprio popolo.
Ci sono narcisismi localistici che non esprimono
un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura.
Questo approccio, in definitiva, richiede di
accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere
tutto da sé.
. La pretesa di porre il
populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto
debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il
tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a
eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante,
per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è
necessario il termine “popolo”.
La realtà è che ci sono fenomeni sociali che
strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie;
inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per
attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare
qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno
collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e
nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida
critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della
realtà sociale.
Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una
categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che
tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una
categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che
cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono,
certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola
popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere
parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e
culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento,
difficile… verso un progetto comune»
Ci sono leader popolari
capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le
grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e
guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di
crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella
ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta
nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare
politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al
servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere.
Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse
ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando
diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e
della legalità.
I gruppi populisti chiusi deformano la parola
“popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la
categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è
quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che
è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad
essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da
altri, e in tal modo può evolversi.
Ciò che è veramente popolare – perché
promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far
germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua
iniziativa, le sue forze.
In una società realmente progredita, il
lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un
modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per
stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per
sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per
vivere come popolo.
La categoria di popolo,
a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali,
è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la
società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di
rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi
contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i
diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di
popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui
si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella
di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o
disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società
civile
Occorre pensare alla partecipazione sociale,
politica ed economica in modalità tali «che includano i movimenti popolari e
animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel
torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella
costruzione del destino comune»; al tempo stesso, è bene far sì «che questi
movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal
sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino».Questo,
però, senza tradire il loro stile caratteristico, perché essi sono «seminatori
di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e
grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia». In questo
senso sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e
liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di
superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i
poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e
tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli». Benché diano
fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna
avere il coraggio di riconoscere che senza di loro «la democrazia si atrofizza,
diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va
disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la
dignità, nella costruzione del suo destino».
Questa carità politica presuppone di aver
maturato un senso sociale che supera ogni mentalità individualistica: «La
carità sociale ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene
di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione
sociale che le unisce». Ognuno è pienamente persona quando appartiene a un
popolo, e al tempo stesso non c’è vero popolo senza rispetto per il volto di
ogni persona. Popolo e persona sono termini correlativi. Tuttavia, oggi si
pretende di ridurre le persone a individui, facilmente dominabili da poteri che
mirano a interessi illeciti. La buona politica cerca vie di costruzione di
comunità nei diversi livelli della vita sociale, in ordine a riequilibrare e
riorientare la globalizzazione per evitare i suoi effetti disgreganti.
È bello
essere popolo fedele di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e
il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!
Vista in questo modo, la politica è più
nobile dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage mediatico.
Tutto ciò non semina altro che divisione, inimicizia e uno scetticismo
desolante incapace di appellarsi a un progetto comune. Pensando al futuro, in
certi giorni le domande devono essere: “A che scopo? Verso dove sto puntando
realmente?”. Perché, dopo alcuni anni, riflettendo sul proprio passato, la
domanda non sarà: “Quanti mi hanno approvato, quanti mi hanno votato, quanti
hanno avuto un’immagine positiva di me?”. Le domande, forse dolorose, saranno:
“Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il
popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali
ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho
seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?”.
Alcuni provano a fuggire dalla realtà
rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza distruttiva,
ma «tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre
possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo,
perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti
alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue
diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la
cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura
economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media.
La parola “cultura” indica qualcosa che è
penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più profonde e nel suo stile di
vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di un’idea o di
un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva un modo di
vivere che caratterizza quel gruppo umano. Dunque, parlare di “cultura
dell’incontro” significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare,
il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga
tutti. Questo è diventato un’aspirazione e uno stile di vita. Il soggetto di
tale cultura è il popolo, non un settore della società che mira a tenere in
pace il resto con mezzi professionali e mediatici.
Quello che conta è avviare processi di
incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le
differenze. Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la
buona battaglia dell’incontro!
Come hanno affermato i Vescovi del Congo a
proposito di un conflitto che si ripete, «gli accordi di pace sulla carta non
saranno mai sufficienti. Occorrerà andare più lontano, includendo l’esigenza di
verità sulle origini di questa crisi ricorrente. Il popolo ha il diritto di
sapere che cosa è successo».
Il libro degli Atti
degli Apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da alcune autorità,
“godevano il favore di tutto il popolo” (cfr 2,47; 4,21.33; 5,13).
Se un delinquente ha fatto del male a me o a
uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché
quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo
stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa
necessità bensì la richiede.
Ciò che conta è non farlo per alimentare
un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per
un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette.
Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa
maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna
etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e
copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e
unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui
ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme
apparentemente legali». Così non si guadagna nulla e alla lunga si perde
tutto.
La Shoah non va dimenticata.
È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da
false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale
merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la
religione che professa»