Sin
Roberto Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica.
L’ecclesiologia di papa Francesco, Libreria editrice Vaticana, 2017, €12.00
Sintesi
nota: il testo è tratto dal volume. Gli elementi di
raccordo tra parentesi quadre sono inseriti da chi ha estratto la sintesi.
Sintesi di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Capitolo 4°
La necessaria riforma
parte prima
I testi [del
Concilio Vaticano 2° (1962/1965)] non [sono] sempre così univoci nel prospettare una trasformazione della
Chiesa. La riforma di importanti istituzioni ecclesiali che molto si
aspettavano all’indomani del Concilio non [è] sempre stata attuata.
Per Francesco
una riforma della Chiesa è necessaria affinché la Chiesa rimanga sempre
evangelica e trasparente al Dio misericordioso che la abita e la fa esistere.
La riforma, proprio per questo, [è] intimamente connessa all’idea di una Chiesa in uscita missionaria. La Chiesa,
infatti, avverte il dovere di uscire e
di far incontrare tutti con il Dio misericordioso comunicatosi in modo ultimo
in Cristo e nel dono del suo Spirito.
Non ci si deve
aspettare dal Papa un programma di riforma sistematico e offerto in modo
organico. Al contempo, [per Francesco], non si tratta di occupare spazi ma di
avviare processi.
Proprio per
questo, risulta forse impossibile e addirittura insensato delineare un quadro
preciso delle riforma che si dovrebbero attuare. Farlo significherebbe in fondo smentire alcuni capisaldi della visione di Francesco:
che la Chiesa sia un soggetto dinamico
guidato dalla presenza viva dello Spirito di Cristo; il fatto che tutti i cristiani siano soggetti vivi e
attivi nella Chiesa; che le Chiese
locali non siano dipartimenti amministrativi, ma Chiese
con una loro soggettualità.
Ciò
nondimeno si possono evidenziare alcune fondamentali linee di riforma
nell’insegnamento di Francesco. Concernono la sinodalità della Chiesa, l’importanza di una collegialità intermedia, il papato
e la realtà del Sinodo dei vescovi.
Con il papato di
Francesco, il tema ecclesiologico della sinodalità [è] tornato prepotentemente
alla ribalta. Esso non è stato esplicitamente tematizzato dal Vaticano 2°:
nella visione ecclesiologica del popolo di Dio e nella conseguente concezione del [senso della fede - sensus fidei] [nota mia: =la facoltà per cui il
popolo di Dio, guidato dallo Spirito, intuirebbe la verità e sarebbe preservato
dall’errore in materia di fede] vi erano, però, le premesse per il suo
sviluppo.
Per il Papa, la
strada della sinodalità [è] da percorrere in quanto è quella che permette in
questo nostro mondo, di attivare sinergie in vista della missione della Chiesa.
Il Papa ha infeatti parlato della sinodalità come dimensione costitutiva della
Chiesa. [Infatti] la Chiesa non è altro che il camminare insieme [la parola del greco antico da cui deriva il
termine italiano sinodo è composta da
altri due termini che appunto richiamano l’idea del camminare insieme] del Gregge di Dio sui sentieri della storia
incontro a Cristo Signore. Il fondamento di ciò è da rintracciarsi proprio nel
fatto che la Chiesa è il popolo di Dio.
All’interno
della Chiesa nessuno può essere collocato al di sopra degli altri. Chi assume al suo interno il ministero è
posto piuttosto al servizio degli altri.
Affinché sia
realmente percepito il [senso della fede
- sensus fidei] vi è - secondo il Papa - la necessità di un ascolto, che
investe la Chiesa a tutti i livelli e in tutti i soggetti. Una Chiesa sinodale - dice infatti Francesco
- è una Chiesa dell’ascolto.
Un tale
discorso concerne la questione della riforma, proprio perché obbliga a
chiedersi dove si dia la Chiesa.
Si sa come al
Vaticano 2° ci sia dato un evidente ripristino della visione secondo cui quelle locali sono realmente
Chiese e della prospettiva che vede la Chiesa quale comunione di Chiese - communio Ecclesiarum. [Ma] il collegio dei
vescovi è visto ancora come realtà in parte slegata dalla comunione delle
Chiese. Francesco pare orientarsi con decisione verso la concezione per cui non
si possa intendere l’universalità della Chiesa come realtà previa all’esistenza
delle Chiese locali. [Il Papa parla] della Chiesa locale non quale parte, bensì come porzione
della Chiesa. [Per questo] Francesco [ha] chiesto che si aprisse una porta senta in ogni Chiesa particolare e
che la prima porta fosse aperta in Africa. Si tratta infatti di segni concreti
con cui si dice che le Chiese locali non
sono parti o distretti di una Chiesa universale, da pensarsi astrattamene come
realtà previa al loro esistere: esse
sono, piuttosto, la Chiesa in quanto
esiste in un determinato “luogo” così come emerge dalle lettere [di san Paolo].
Poiché c’è un
recupero della piena consistenza delle
Chiese locali, si comprende perché, per il Papa, la sinodalità debba anzitutto
realizzarsi proprio a quel livello e comporti una necessaria riforma degli
organismi di partecipazione, il Consiglio
presbiterale, il Collegio dei
Consultori, il Capitolo dei canonici
e il Consiglio pastorale. Le parole
del Papa mostrano la coscienza, comune a
molti oggi, che tali istituti abbiano
spesso attraversato una crisi e debbano essere rivitalizzati. [Per il Papa]
tali organismi di partecipazione non debbano essere solo luoghi di organizzazione delle attività [all’interno], in quanto debbono partire dai problemi di ogni giorno
che la gente vive; e non debbono risolversi solo in luoghi di ascolto, ma anche
di condivisione.
La sinodalità
[deve] allargarsi ad altri livelli e [deve] coinvolgersi i vescovi che
presiedono le Chiese e debbono rappresentarle.
Si tratta, in questo caso, di ciò che va sotto il nome di collegialità episcopale. Proprio a tal riguardo e, specificamente,
a livello di quanto viene espresso in termini di collegialità intermedia, [vale a dire un effettivo esercizio di
collegialità episcopale anche nel caso di Conferenze episcopali nelle quali
partecipano solo i vescovi di un determinato territorio], pare di percepire le
principali istanze di riforma da parte di papa Francesco. Vi sono stati quanti hanno invece ritenuto che un effettivo esercizio di collegialità si
avrebbe solo con la partecipazione di tutti i vescovi: negli altri casi si esprimerebbe solo una collegialità affettiva. Da una tale prospettiva si avrebbe - [a parte il
concilio come fatto eccezionale]- il governo del papa, per quel che concerne la
Chiesa universale, e quello di ogni singolo vescovo, per quel che attiene alla
Chiesa locale. Oltre a dover rimarcare
come una tale visione contraddica la prassi della Chiesa antica, è bene
rilevare come essa sarebbe assai poco
funzionale ad una Chiesa missionaria, che necessita di istanze intermedie per
prendere delle decisioni che possano
favorire l’annuncio evangelico in Chiese che vivono in culture anche
sensibilmente diverse tra loro. Papa
Francesco sembra andare decisamente nella linea di una decentralizzazione e,
dunque, di una valorizzazione effettiva delle istanze di collegialità
intermedia. Ciò richiede, evidentemente, che il discernimento e le decisioni
vengano assunte dagli episcopati locali
e non siano demandati a Roma. Nell’ottica di una Chiesa in uscita missionaria,
infatti, una centralizzazione è di
ostacolo invece che essere di aiuto.
Sin dall’inizio [papa Francesco] non ha citato
soltanto i suoi predecessori, ma diversi interventi di differenti Conferenze
episcopali: ha così mostrato di riconoscere un loro reale magistero. Con ciò,
come è chiaro, [egli ha] rimesso in primo piano l’impellenza di un ripensamento
del papato.