Insufficienza della concezione del Popolo di Dio come comunità-gregge
Negli
anni ’70, rinnovando la catechesi sulla base di una particolare interpretazione
della concezione di Popolo di Dio proposta dal Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), si pensò di organizzare l’evangelizzazione intorno a comunità molto coese, per
sostituire con quella comunitaria la pressione sociale che in passato era stata
esercitata dalla declinante autorità sacrale della gerarchia ecclesiastica,
dominata dal clero. Si sarebbe stati guidati all’adesione alla pratica della fede ecclesiale in gruppi di prossimità
caratterizzati da benevolenza e solidarietà oltre che da stili di vita
personale e comunitaria uniformi e conformi alla dottrina corrente. In quest’ottica
erano fondamentali l’esempio e quel certo conformismo che si sviluppa all’interno
delle formazione sociali in cui si creano relazioni interpersonali forti e
nelle quali, quindi, si teme l’esclusione.
Ma è proprio riguardo ai risultati che ci si
aspettava da quel conformismo indotto per via comunitaria che quel modello ha
funzionato poco, se non nei casi in cui arrivava a coinvolgere persone disposte ad accettare una vera e propria dipendenza
dal gruppo per una qualche loro
particolare situazione di fragilità, che le induceva a cercare sostegno e
protezione comunitarie e a rinunciare a quote di indipendenza individuale.
In genere, nella civiltà Occidentale contemporanea
in cui siamo immersi, si è indotti invece ad atteggiamenti critici verso qualunque
forma di sottomissione incondizionata -
l’educazione di base punta a stimolarli -,
e questo, in particolare, anche per rendere gli individui-consumatori
desiderosi di novità, nel quadro di un mercato di consumi di massa del quale
vivono i sistemi economici avanzati.
E’ anche l’ideologia democratica avanzata a
respingere ogni sudditanza acritica. Essa è centrata sulla finalità di far
uscire le masse lavoratrici dalla passata condizione di minorità, stimolandone
la capacità di consapevole autodeterminazione e di autonoma aggregazione, per
consentire una qualche effettiva loro
partecipazione al governo delle istituzioni pubbliche.
Nella visione neo-comunitaria ecclesiale basata sull’ideale teologico del Popolo
di Dio, le masse vengono invece presentate essenzialmente come greggi al seguito dell’evangelico Buon Pastore, qualifica
che il Maestro attribuì a se stesso, quindi di ordine soprannaturale. In quest’ordine
di idee, si presenta come loro fondamentale attitudine collettiva quella di riconoscere
la voce del Buon Pastore, e addirittura
di individuarlo al fiuto secondo la suggestiva metafora proposta da papa
Francesco, in mezzo a tante altre cattive guide. In definitiva, una volta individuato
il Buon Pastore, le masse fedeli vanno dove si dice loro di andare. Qual Buon
Pastore non agisce infatti nel proprio interesse nell’esercizio di un’economia
di pastorizia come la si pratica tra noi, da qui si capisce che è immagine
soprannaturale, e quindi conduce le
greggi a riposare su pascoli erbosi, ad acque tranquille le conduce, senza poi macellare, né tosare, né mungere.
Fatalmente però si è prodotto uno slittamento
di significato in quell’immagine pastorale, quando la qualifica di Buon
Pastore viene attribuita ad autorità
sacrali terrene, in particolare al clero nelle sue funzioni di governo
ecclesiale organizzate in una complessa gerarchia strutturata da secoli imitando
quelle degli stati, e qui sono iniziati i problemi, perché storicamente questa
sorte di Buoni Pastori vicari, lasciati un po’ a se stessi in un ordine
autocratico che si è sempre più emancipato dal resto dei fedeli, in genere
hanno deluso. Questo perché hanno tutti i limiti degli esseri umani e il loro
potere segue dinamiche non divere da quelle presenti nelle società in cui sono
immersi. Dunque, rispetto a quel loro potere, la condizione di minorità che
discende dall’ideologia pastorale, accettabile se riferita a un Buon
Pastore soprannaturale, non si
giustifica più, così come, nelle democrazie popolari avanzate che
caratterizzano l’Occidente contemporaneo, si presentano come obsolete le poche
autorità sacrali residue, la maggiore delle quali è quella ecclesiastica cattolica.
In realtà, il giusto cammino nella vita di fede, pur definito da
principi accettati religiosamente, va individuato, così come per ogni altro obiettivo
sociale, confrontando, nel dialogo sociale, i vari punti di vista, le varie
condizioni sociali, i vari interessi implicati, tenendo comunque conto che le dinamiche di potere sociali implicate in
ogni decisione collettiva comportano sempre, almeno all’inizio, uno scontro tra gruppi
espressione di posizioni collettive realmente o potenzialmente divergenti, che
può essere risolto nella mediazione
sociale, nel confronto dialogico transattivo, ma che anche può non riuscire a
risolversi. Nondimeno lo spirito cosiddetto sinodale potrebbe riuscire a tenere insieme ciò che
tende a divergere, facendo forza su ciò che pur sempre ancora unisce.
Storicamente, fino ad epoca piuttosto recente, le Chiese cristiane seguirono
invece la via dell’esclusione di ciò e di coloro che non si riusciva a piegare
e, così, a raddrizzare, secondo l’ideologia di potere di volta in volta dominante.
In particolare, l’accettazione del pluralismo e della libertà di coscienza è molto recente nella Chiesa cattolica e risale
fondamentalmente al Concilio Vaticano 2°.
La soluzione dei problemi sociali, anche di
quelli specificamente ecclesiali, in genere non deriva per un meccanismo logico
dai principi normativi di fede derivati dalla riflessione sulle Scritture o
dalla sapienza del passato consolidato in quella che viene individuata come
Tradizione, e nemmeno dal Magistero impartito, prevalentemente con finalità
etiche, dal Magistero della gerarchia.
Un’autorità sacrale basata essenzialmente su
una competenza sacrale quindi non è sufficiente. Questo spiega gli spesso
discutibili e insoddisfacenti risultati conseguiti in genere dagli episcopati nella loro pretesa di governo delle società ecclesiali, cercando di impersonare il Buon Pastore. Qualche anno fa una grande
anima del nostro episcopato riconobbe sconsolato che si era sempre in ritardo di almeno due secoli rispetto alla
società civile.
In definitiva dall’ideologia neo-comunitaria
del Popolo
di Dio spesso
discende l’esortazione ai fedeli a conformarsi spontaneamente e acriticamente,
con docilità secondo
l’espressione piuttosto urtante che ricorre nei documenti del Magistero, ai
deliberati di autorità sacrali autocratiche configurate come pastorali e, in tal modo, a sorreggerne
l’influenza sociale che storicamente in gran parte hanno ormai perso.
Questo un po’
anche il senso della trascorsa pastorale dei grandi eventi che ha cominciato a praticarsi
su larga scala regnante il papa Karol Wojtyla
- Giovanni Paolo 2°, in particolare tra i più giovani, con qualche risultato
seppure in genere effimero. Essa puntava
a creare
un’immagine di ideale e vasta comunità-gregge radunata intorno a un Pastore – simbolo, quindi fattore essenziale
di unità, ma si è visto che fatalmente dura
per il tempo di quell’incontro emotivamente coinvolgente e poi si
dissolve, almeno come movente di unità, rimanendo al più vivo nelle psicologie
individuali.
Da un
lato i problemi nuovi delle complesse
società contemporanee, dall’altro quelli minuti delle convivenze comunitarie di
prossimità - infatti più ci si avvicina
tra le persone, maggiori sono le occasioni di contrasto -, cooperano presto a
riportare a gente alla realtà, con il che quella pressione sociale per suscitare e mantenere la coesione
ecclesiale intorno ad una gerarchia sacrale e al suo Magistero, e anche la sinodalità e solidarietà di
massa, si dissolve come la nebbia nel
progredire del mattino.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli