Aggiornamento alle ore 14:15:
n.12 partecipanti registrati
la videoconferenza Meet sarà attivata alle ore 16:45 - l'incontro inizierà alle 17:00 - consigliamo di effettuare la procedura di accesso tra le 16:45 e le 17:00 per consentire il regolare avvio della riunione.
L'invio dei codici di accesso terminerà alle 16:30
Nel caso che nel corso della riunione ci si disconnetta, si ripeta la procedura di accesso, inserendo nuovamente il codice comunicato, che sarà bene tenere a portata di mano
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“Come siamo popolo?”
-
1° riunione in Meet del gruppo AC San Clemente
-
sabato 17 ottobre, ore
17
Istruzioni di accesso
e
Sintesi di idee per la
discussione
Propongo in forma sintetica alcune idee sulle
quali si potrebbe discutere nell’incontro in Meet “Come siamo popolo!” di sabato 17 ottobre, ore 17 del gruppo AC San
Clemente
(il post segue le
istruzioni per l’accesso all’incontro in
Meet)
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Oggi, alle ore 16:45,
sarà attivata la videoconferenza in Meet per l’incontro del gruppo AC San Clemente sul
tema “Come siamo popolo”, che
inizierà alle 17. Cercate ultimare le procedure di acceso tra le 16:45 e le 17,
per non sottrarre tempo al dibattito. Di
seguito trovate le istruzioni per accedere, il programma, e alcune idee sulle
quali si potrebbe dibattere.
Saranno ammesse le
persone che hanno richiesto il codice di
accesso. Saranno riconosciute con la email che hanno comunicato
Per accedere:
A) da PC fisso, PC
portatile, tablet
1) accedere a Google [in
precedenza, nel richiedere il codice, avrete comunicato ad
mario.ardigo@acsanclemente.net la email con la quale vi siete iscritti a Google
e con la quale parteciperete alla riunione; nell’accedere alla riunione sarete
riconosciuti con quella email]. Per accedere a Google, aprire Google Chrome,
cliccare sul riquadro azzurro in alto a
destra con la scritta ACCEDI e inserire la email di registrazione e la pasword;
2) in Google Chrome, cliccare sul quadratino
di puntini in alto a destra;
3) cliccare sull’icona verde di Meet
e selezionare PARTECIPA
A UNA RIUNIONE;
4) inserire il codice di
accesso che vi è stato comunicato, facendo COPIA/INCOLLA;
5) cliccare su CONTINUA
6) cliccare su CHIEDI DI
PARTECIPARE e attendere di essere ammessi alla riunione.
B) da smartphone:
1) aprire la app Meet
che avrete in precedenza
scaricato.
2) cliccare su CODICE
RIUNIONE, inserire il codice di accesso che vi è stato comunicato;
3) cliccare su CHIEDI DI
PARTECIPARE e attendere di essere ammessi.
Segnalare eventuali
problemi con una email a
mario.ardigo@acsanclemente.net
indicando, se si vuole
essere contattati telefonicamente, un numero di telefono al quale essere
chiamati.
e clicca su PARTECIPA
Tempistica proposta per
l’incontro
durata totale prevista: 90
minuti suddivisi in :
3 minuti di mia
presentazione;
3 minuti di presentazione
della Presidente;
3 minuti di intervento di
componente dell’equipe pastorale della parrocchia (eventuale, se ci
darà la disponibilità)
3 minuti per intervento
dell’Assistente ecclesiastico (eventuale, se riterrà di svolgerlo)
10 minuti per deliberare a
maggioranza se approvare o modificare il metodo di dibattito proposto
20 interventi successivi
da 3 minuti ciascuno, in ordine alfabetico dei nomi di battesimo dei partecipanti;
terminato un giro, si riprende nello stesso ordine; ci si impegna a parlare
agganciandosi a ciò che ha detto la persona che ha parlato precentemente
3 minuti solo di mia
sintesi degli interventi
3 minuti per decidere se
proseguire il dibattito in un’altra riunione o dedicarlo ad un altro tema
2 minuti: preghiera finale
elaborata da uno dei partecipanti sulla base di quanto emerso dal dibattito.
La
presidenza della riunione sarà assunta dalla Presidente del gruppo: darà e
toglierà la parola al termine del tempo assegnato per ciascun intervento (venti
secondi prima, avvertirà chi parla della prossima scadenza del termine;
l’assemblea dei partecipanti può però deliberare di concedergli più tempo, non
oltre due minuti, se ci riuniremo in meno di quindici), nel caso di risparmio
di tempo rispetto al programma, allargherà i tempi del dibattito. In caso di
sua indisponibilità, il presidente della riunione sarà designato a maggioranza
dai partecipanti.
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1. Quando usiamo la
parola popolo non viene in mente nessuna persona particolare o
nessun gruppo di persone specifiche, perché ce ne serviamo proprio per indicare
una massa di gente che non ci è nota nelle individualità particolari e
personali che la compongono.
2. Un tempo si parlava
del popolo di una
parrocchia come della porzione di una popolazione che le era
stata assegnata. Ora, invece,
se ne parla come di una determinata
comunità di fedeli con il parroco come pastore. Questo in applicazione dell’idea della Chiesa come
popolo di Dio deliberata durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Che c’è in fondo di diverso? C’è che un popolo può
essere tale anche solo perché sottomesso ad un certo
potere, mentre da una comunità ci si aspetta un ruolo
più attivo.
Il primo modello è piramidale,
con al vertice il Papa, sotto i vari gradi della gerarchia ecclesiastica, fatta
di chierici, e, in fondo, il popolo,
vale a dire, fondamentalmente, i laici che non appartengano ad un ordine
religioso.
L’altro modello è circolare, con al centro il Cristo
e intorno il suo popolo, nel quale ognuno ha qualcosa da fare, una
funzione a beneficio di tutti, quindi un ufficio, secondo le sue
capacità e la sua indole, i laici come i chierici, come i religiosi.
3. Quest’idea di comunità
attiva c’è anche nel concetto di popolo di
una repubblica, che è quando la gente ha la reale possibilità di
partecipare al governo della società. Questa partecipazione agli affari
pubblici è definita come dovere civico, nel senso esercitarla
obbliga in coscienza e fa parte dell’etica pubblica.
4. Ai tempi nostri nessun
potere viene considerato superiore a quello del popolo, ma anch’esso ha dei
limiti nei fondamentali principi umanitari. In una repubblica come oggi la si
intende in genere in Occidente, nessun
potere è veramente sovrano. Un
potere, infatti, è sovrano quando non ammette nessun limite sopra di sé. Una sovranità limitata
non è più sovranità come
si pretendeva di esercitarla nei regni antichi.
5. Nella nostra Chiesa,
il passaggio da un modo di essere popolo, nel senso di
gente assegnata al potere di un certa autorità, a quello
di popolo in quanto comunità partecipante di fedeli è tuttora in corso e non è
facile. In particolare è difficile conciliare l’idea di Popolo di Dio universale con
la realtà di un’umanità divisa in tanti popoli con le loro culture particolari.
Papa Francesco, sulla base dell’esperienza latino-americana propone un modo
di essere popolo che non significhi ripudiare le proprie
culture di origine, che definiscono, includono ma anche limitano.
6. L’idea di popolo ha avuto uno sviluppo
storico ed è variata, in una stessa epoca, di società in società e di contesto
in contesto.
6.1. Nella Bibbia “popolo” era
innanzi tutto quello degli israeliti della sua epoca, ai quali disse di essere
stato mandato innanzi tutto. Essi concepivano loro stessi come popolo in
quanto legati dall’etnia, da costumi religiosi e di altro genere, da un
rapporto particolare con il territorio, tra il Mediterraneo a occidente, il
Libano e la Siria al nord, il fiume Giordano a oriente e il deserto a
sud, nel quale si erano insediati storicamente, e dalla consapevolezza di una
predilezione divina che determinava un comune destino.
E poi c’erano
tutti gli altri popoli della terra, ai quali, ad un certo punto furono inviati
i suoi discepoli di Gesù per insegnare loro tutto ciò che egli aveva comandato.
6.2. I primi cristiani, presto,
ritennero anch’essi di essere diventati un popolo, come gli israeliti, salvo
che per la relazione con un certo territorio. Roma e Costantinopoli non
divennero mai per i cristiani ciò che era Gerusalemme per gli ebrei. I
Cristiani si figurano una nuova Gerusalemme che scenderà dal
Cielo. E immaginano di essere amati dal Creatore, non prediletti tra
gli altri popoli.
6.3. Nell’opera missionaria si entrava in
contatto con altri popoli. Il rapporto poteva pensarsi come conflittuale, di
assimilazione, di coesistenza nella separazione, di dominio.
Tutte queste modalità si manifestarono negli eventi politici nei quali i
cristiani vennero coinvolti nella loro lunga storia.
Da quando la nostra esperienza di comunità
religiose, dal Quarto secolo, manifestò evidenti connotati politici, influendo sul
governo delle società in cui era immersa, divenne molto importante la relazione
prevalente diventò quella di dominio. In questo modo, il popolo dei fedeli, come nelle società
civili, venne concepito come la massa dei governati, delle persone
soggette all'autorità ecclesiastica. Dal Cinquecento, poi, la nostra Chiesa si
diede istituzioni simili a quelle di uno stato moderno.
Con il formarsi degli stati europei, che
divennero modello per analoghi processi nel mondo colonizzato dagli europei,
dal Cinquecento quella struttura istituzionale venne considerata analoga a
un stato, quindi come una società organizzata, visibile, religiosa,
con poteri propri di una società perfetta e sovrana,quindi
con leggi proprie, con autorità proprie, con mezzi e fini propri, resa omogenea da
quelle leggi e autorità proprie, con un popolo costituito
dagli individui, dalle famiglie dagli altri gruppi soggetti a quel potere
istituzionale.
6.4. Dall’Ottocento le ideologie politiche basate sulle nazioni, vale a dire
sulle popolazioni considerate accomunate per elementi etnici, linguistici,
storici e destinate a ricadere sotto l’autorità di istituzioni di
dimensione nazionale, il popolo fu visto
progressivamente come fonte della legittimazione all’esercizio
del potere politico: si governava per il
bene del popolo e in suo nome. Questo
diede avvio a processi democratici sempre più ampi, in particolare in
Occidente: democrazia è partecipazione
e quindi governo del popolo, inteso come comunità
attiva nel deliberare sugli affari pubblici.
Questo sviluppo finora ha interessato molto
marginalmente il governo della nostra Chiesa.
7. In una democrazia, una delle decisioni
più importanti e quella su come essere
popolo.
Non basta, per questo, descrivere come è e ciò che
fa una determinata popolazione, come
si fa in antropologia e in sociologia. Bisogna dire come si partecipa politicamente
alla società in cui si vive. Se non si partecipa per nulla, allora se ne è solo
sudditi, sottomessi al potere che la dirige e in cui non si ha voce.
7.1 Pensare il popolo è impossibile senza ricorrere a
generalizzazioni. Si ritiene che un umano possa pensare al più circa 150 relazioni con altre persone.
Noi infatti agiamo sempre in teatri sociali molto limitati. Tutto ciò che va
oltre è una massa confusa di gente nella quale non riusciamo a cogliere le
individualità se non avvicinandoci a contesti limitati, ad un certo gruppo di persone. Su questo si basa la magia del teatro e del cinema: si può rendere l’idea di masse umane con pochi attori sulla scena.
Non ne cogliamo l’incongruenza, perché la nostra realtà cognitiva è appunto
quella.
La nostra vita è
fatta di relazioni personali ravvicinate. Questo perché, come ci avvertono gli
esperti di psicologia cognitiva e di neuroscienza, la nostra mente ha una base
biologica che risale a circa 200.000 anni fa e, da allora, non è cambiata molto.
Con il progresso delle tecnologie
informatiche si cerca di superare questi limiti cognitivi e di avvicinarsi a
ciò che si riteneva proprio degli dei: conoscere tutti nella loro individualità personale. Questo perché ciò darebbe
un potere enorme sulle società umane.
Per versi quello di popolo è un concetto di natura mitologica,
vale a dire una narrazione che combina in una sintesi aspetti di realtà con
elementi emotivi, in modo da rendere
l’idea, non tanto di ciò che è, ma di ciò che si vorrebbe fosse e che si
vorrebbe essere.
Ne ha scritto il Papa nel n.158
della recente enciclica Fratelli tutti,
richiamando quanto aveva detto in una precedente intervista:
«Popolo non è una categoria
logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello
che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria
angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un
popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma
non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha
qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del
popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E
questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso
un progetto comune».
7.2 Vediamo a volte i grandissimi stormi di storni sulla
nostra città. Improvvisamente si levano in alto e cominciano a girare tutti
insieme e sembra che cerchino una direzione: ad un certo punto partono tutti
insieme. Stormo, una parola dal gergo militare è passato alla
biologia. Indica una moltitudine inquadrata
e orientata. Popolo ha un significato simile: ecco perché nasce dal
gergo religioso e giuridico. In entrambi quei campi si fa questione di autorità
e di obbedienza. Vi sono stati tempi in cui popolo
era chi obbediva e altri nei quali il popolo
si faceva motore dell’agire sociale,
era un società in movimento ordinato verso un fine. Quando Giuseppe Mazzini,
rivoluzionario irredentista italiano (1805/1872), propose il motto Dio e popolo era in quest’ultimo senso
che intendeva il popolo.
L’idea di popolo fu al centro del
dibattito sviluppatosi nella Chiesa cattolica durante il Concilio Vaticano 2°,
che si svolse a Roma, nei palazzi del Vaticano, tra il 1962 e il 1965 e che
deliberò una marcata riforma della nostra Chiesa, rimasta in gran parte
inattuata. Si volle indurre un cambiamento dell’essere popolo nella nostra Chiesa, da moltitudine obbediente, resa popolo
proprio da quell’essere sottomessa al dominio di un sistema di autorità, a
moltitudine motore della storia, per
indurre un mutamento sociale radicale, secondo l’idea di agàpe salvifica, in una società sottomessa
alla violenza sociale, economica,
politica, a partire dalle singole persone per estendersi come un incendio a
tutti gli ambienti, fino a modificare le strutture sociali di potere dominanti.
L’agàpe, termine del greco antico che è al centro delle
narrazioni evangeliche e che richiamava originariamente l’idea di un lieto
convito, è una forma di convivenza libera dalla violenza e
dall’oppressione.
Ci sentiamo e agiamo come popolo sottomesso ad autorità o, anche o invece,
popolo motore della storia? Come
interpretiamo questo nostro essere popolo
secondo la nostra vita di fede
religiosa (secondo la nostra teologia
pratica, per ora senza considerare la dottrina,
quella teologia semplificata che ci insegna come obbedire alle autorità
religiose)? Il nostro essere popolo è
in qualche
8. L’idea di popolo va
molto più in là di ciò che si vede. Ciò che non si vede, si
cerca di immaginarlo, e qui soccorre il mito, soprattutto per
evocare la direzione di quelle moltitudini che chiamiamo popoli. Il
problema è che proprio non ce la facciamo ad immaginarci veramente una
moltitudine come un popolo, ad esempio quella del popolo
italiano. Alla fine ciò che ci appare nella mente è un po’ sempre una folla e
poi, in essa, dei gruppetti o addirittura degli individui che prendiamo
come simboli del popolo a cui appartengono.
Nei miti
che riguardano il popolo è su quei simboli che riversiamo attributi emotivi e,
allora, la nostra immagine di popolo finisce per risentirne, perché una persona
la collega, ad esempio, a Giuseppe Mazzini, un’altra al Cavour e un’altra
ancora al Papa Pio 9°, che di Mazzini e Cavour fu un duro avversario.
Se poi ci avviciniamo a una società,
l’indistinzione che caratterizza in genere l’idea di popolo, come
gruppo che comprende tutti, svanisce e ci si
manifesta la realtà delle società umane, che sono fatte di gruppi in
interrelazione tra loro per questioni di interesse, vale a dire per le
direzioni che prendono e che a volta li portano a collidere continuando a
fronteggiarsi, altre a fondersi, altre a separarsi, e, infine, recuperata
precariamente una certa stabilità pacati i conflitti, spesso a porsi in una
gerarchia, dove c’è chi domina e chi è dominato, e rimane una
tensione tra loro. Ma, avvicinandosi, si perde l’immagine complessiva.
9. Nella
Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce
per le genti - Lumen gentium, un
documento legislativo contenente definizioni dogmatiche deliberato durante il
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), troviamo la seguente definizione, al n.2:
Così la Chiesa
universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall'unità
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Qui è la teologia che definisce l’idea di
popolo, attribuendogli il principale fattore
di unità, di natura soprannaturale.
Fatto il lavoro teologico, comincia quello sociale, che può essere organizzato
in diversi modi, tra i quali quello democratico.
Posta la definizione di Chiesa come popolo e il suo fattore
di unità nella Trinità divina, sono possibili molte vie diverse per
costruire in pratica quel popolo. Oggi è molto sentita la questione di come quel
popolo debba entrare in relazione con gli altri popoli e se debba essere, oltre che principio di
unità tra i credenti cristiani, anche promotore dell’unificazione dell’intero genere umano, e se, in questo
caso, esso dovrà soppiantare gli altri popoli, assimilarli o farsene assimilare, o, infine,
mantenersene sempre separato, al
mondo in cui l’ebraismo ha in genere pensato il suo rapporto con le altre genti. Dalla definizione dogmatica non
discende tutto il resto, che va pensato e organizzato,
come in effetti si è fatto in vario modo nella storia bimillenaria della nostra
Chiesa. Negli scorsi anni ’60 lo si è fatto durante il Concilio Vaticano 2°,
che ha avuto al suo centro, appunto, l’idea di popolo e il ruolo in esso del laico,
vale a dire chi non è chierico o appartenente ad un ordine religioso.
10. Il
popolo è realtà necessariamente pluralistica, con tante facce e menti quante
sono le persone chiamate a comporlo, altrimenti non è realmente il popolo ma solo una sua immagine mitizzata, quindi semplificata: per ottenere l’agàpe, quella convivenza benevola,
misericordiosa e solidale ispirata ai valori religiosi, è necessario
coinvolgere realmente, non solo nel mito, molti e
che tra i quei molti avvenga quello scambio di idee che consenta la diffusione del sapere e delle
esperienze indispensabile per fare di una
popolazione, quindi dei molti,
una superiore unità. Il metodo
democratico, come oggi lo si pratica, e lo si pratica in modo molto diverso per
certi aspetti da come lo si faceva tra i greci antichi che lo inventarono e
teorizzarono per primi, serve appunto a fare quel lavoro in modo più ampiamente
condiviso e partecipato.
11. Oggi la
Chiesa è definita come «un popolo che deriva la sua unità dall'unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Questo fattore ideale di unità integra quello che per gli
stati è costituito dalla loro cultura in senso sociologico, vale a dire
l’insieme di concezioni, costumi, istituzioni, tradizioni, comprese quelle
religiose, miti e lingua comuni a una gente
stanziata su un certo territorio e diffusi in modo prevalente nella sua
società, sulla cui base quando si pensa a quella gente la si pensa come popolo.
Questi elementi culturali non sono essenziali per la fede, che è destinata a
diffondersi in tutte le culture umane, ma sono necessari per la nostra umanità,
come sostiene il Papa nell’enciclica Fratelli
tutti:
«Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è
apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai
propri tratti culturali.
È possibile
accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono
saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura.»
12. Nel diffondersi,
la fede, pur rimanendo la medesima, permea le culture dei popoli e, ad un certo
punto, entra nelle loro tradizioni religiose, potendo costituire così anche un
fattore di unità con rilevanza politica, quindi per il governo delle società di
riferimento. E’ in senso tempo che
l’Italia venne considerata un insieme di
popoli cattolici, e poi uno stato e una nazione
cattolici: il principio della religione
cattolica come religione di stato venne definitivamente abbandonato solo
nel 1984, con la revisione del Concordato Lateranense tra la Repubblica
italiana e la Santa Sede (il Papato romano) che quell’anno fu deliberata dalle
due parti, con la procedura prevista dalla Costituzione vigente. Ma già era
superata con l’entrata in vigore di quest’ultima che non lo prevede e, anzi, è
fondata sul diverso principio della laicità
dello stato, che significa desacralizzazione
delle istituzioni pubbliche, vale a
dire che nessuna questione può essere sottratta alle procedure democratiche di
decisione e che le autorità pubbliche non possono pretendere una legittimazione
religiosa, come tale sottratta al potere democratico.
13. Nelle nostre attività formative religiose non
si ha di solito ben chiaro come essere popolo secondo la fede e che cosa comporti. La teologia e, quindi, la catechesi
si mantengono molto sulle generali, apparentemente pronte a correggere ma non
capaci veramente di definire.
Uno degli errori più comuni, e fatali, nella
formazione religiosa è proporre il popolo secondo la
fede come una tribù, quindi con legami di solidarietà, dipendenza
e preminenza/sottomissione modellati sullo schema della famiglia allargata e
quindi con struttura piuttosto rigida modellata su autorità paterne. Del
resto la cultura biblica è fortemente impregnata di una tale mentalità. Ma la
vita tribale è caratterizzata da un complesso di miti/tradizione/costumi che non sono fondati sugli insegnamenti
evangelici. Il Maestro, in particolare, non costituì una propria tribù e visse
piuttosto liberamente le costumanze tribali del proprio ambiente, tanto da
venire rimproverato per questo. E così fecero
i suoi primi seguaci fino, addirittura, a staccarsene (come ad esempio sulle
questioni delle prescrizioni rituali che riguardavano gli alimenti e della
circoncisione).
Inserito in una tribù, la persona ne dipende.
Come in famiglia, viene ancora accettata anche se commette una qualche
infrazione, ma non le viene perdonata il rifiuto della dipendenza, della
sottomissione. La decisione di staccarsi dalla comunità comporta anche
l’interruzione delle sue relazioni con le persone che sono rimaste dentro,
quindi la sua emarginazione. La
minaccia dell’esclusione e dell’emarginazione
è un potente strumento di controllo nelle mani delle autorità paterne
che dominano il contesto tribale. In questo modo la comunità esercita una pressione
sulle singole persone perché si
sottomettano. A differenza di ciò che accade nelle famiglie parentali,
l’esclusione e l’emarginazione sono possibili in un contesto tribale e sono
molto temute e dolorose per chi le subisce.
Ciascuna persona sta nella tribù come incastrata. La tribù poi si
difende dal contesto sociale intorno separandosi da esso o entrando in conflitto attivo.
Innestare la formazione religiosa in un
contesto comunitario di tipo tribale può apparire utile per consolidarla con
quella pressione di cui si diceva. In realtà è altamente controproducente,
perché è propria degli esseri umani, biologicamente, l’apertura sociale e
questo a differenza delle specie che biologicamente ci sono più vicine. Inoltre la buona novella evangelica
veicola un messaggio di liberazione e di libertà. Vi è poi il rischio di
confondere il messaggio religioso con altre tradizioni culturali che portano a
travisarlo. Infine, tale modo di procedere è disastroso nella formazione dei
giovani, i quali, per natura, devono affrancarsi da simili contesti costrittivi,
come dalle famiglie di origine. Di fatto, il risultato è, prima o poi, il
rifiuto della comunità tribale e, insieme, della religione. E’ fatale che
accada, soprattutto in una società aperta come quella in cui siamo immersi.
Fare formazione vera, quella che rende liberi
della libertà dei figli di Dio
costa tempo e fatica e bisogna esservi preparati. Non tutti quelli che si
occupano di formazione appaiono tali.
«Cristo ci ha
liberati per la libertà! Sta dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il
giogo della schiavitù» (Lettera ai Galati 5,1; detto a proposito
dell’obbligo rituale di praticare la circoncisione)
E’ discutibile l’idea di essere popolo di
fede secondo costumi tribali, perché
non ci è stato ordinato di chiuderci dentro delle tribù, ma di andare per il mondo
a coinvolgere tutte le genti. Quest’idea si ritrova anche nel magistero di papa
Francesco sulla Chiesa in uscita.
Dunque, come essere popolo?
14. Quando ci riferiamo
genericamente ad un popolo di solito
vogliamo intendere la gente che consideriamo esprimere una nazione.
Quest’ultimo è un concetto molto recente nelle idee politiche, e risale
fondamentalmente, in quell’accezione, al
Settecento ed ebbe il suo massimo sviluppo nel secolo seguente. La politica
contemporanea lo sta recuperando in vari modi dopo il discredito che a lungo lo
aveva colpito, per le catastrofi causate in Europa dai nazionalismi fascisti.
Il
concetto di nazione è
affine a quello di popolo, con
una particolare accentuazione di ipotizzati legami di etnia e con un certo
territorio. Ma è poi la politica che definisce l’estensione di quello che viene
definito stato nazionale e quindi del suo popolo. Su queste
basi, ad esempio, si fece il processo di unificazione politica italiana,
compiuto nell’Ottocento, sulla base del mito della nazione e
quindi del popolo italiano,
quindi di una narrazione colorata da molti elementi emotivi e discriminando
nella storia delle genti italiane quelli che non si accordavano con essa. In
realtà, ancora oggi come allora, variando certi criteri e tenendo conto di ciò
che in precedenza si era ritenuto secondario, si possono distinguere nell’area
geografica che politicamente si definisce Italia vari aggregati che, per
storia e cultura, meriterebbero il titolo di nazioni e di popoli. La necessaria correlazione
tra governo e nazione, per
cui ogni nazione debba avere un suo governo, non è mai stata storicamente data per scontata
e venne proposta come ideale politico solo a partire dal Settecento in Europa.
Nel mondo contemporaneo in genere gli stati presentano caratteri
multi-nazionali, vale a dire che aggregano componenti sociali con
caratteristiche di nazioni diverse. Bisogna evidenziare che l’ideale dello stato,
vale a dire di una istituzione di vertice
che in linea di principio non riconosce altri poteri sopra di sé, sovrano in questo senso, è stato teorizzato sempre prima di quello di nazione,
come fonte di legittimazione etica e politica del primo. Anche il concetto di nazione,
a differenza di quello sociologico
di etnia e come quello di popolo, non descrive dunque una realtà
della natura ma è una creazione politica, vale a dire finalizzato al governo di
una determinata società.
15. In altri contesti, la parola popolo viene ad indicare solo una parte della
società, contrapposta alla sua struttura istituzionale di vertice, in
particolare nei sistemi politici basati sul dominio di aristocrazie di stirpe,
come nell’antico sistema feudale europeo o come avveniva nell’antica repubblica
di Roma, tramontata nel primo secolo dell’era antica con l’egemonia di Giulio
Cesare.
La sigla S.P.Q.R., usata nella Roma antica per definire il
sistema di governo, significa, dalle iniziali in latino, il Senato e il
Popolo Roma, dove originariamente il Senato era un organo collegiale di
governo composto da membri di un’aristocrazia (anche se nel tempo vi furono
ammessi anche coloro che non ne originavano), e il popolo era la parte restante
della popolazione. E’ stata questa, fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e
al codice di diritto canonico deliberato nel 1983 per conformare le istituzioni
ecclesiastiche ai principi teologici affermati da quel Concilio, anche la
concezione giuridica di popolo adottata
nel governo della Chiesa.
16. Concludo le mie riflessioni sull’idea di popolo, in vista
dell’incontro in Google Meet del prossimo 17 ottobre sul tema “Come
siamo popolo?”. Sono basate sulle mie letture. Sarebbe molto utile
che anche i lettori che pensassero di partecipare a quella riunione virtuale
preparassero analoghe sintesi, da proporre nel dibattito. Ho proposto di
articolare il dialogo in interventi piuttosto brevi, di tre minuti ciascuno, in
modo da evitare che la riunione diventi una specie di conferenza in cui
tutti quelli che ascoltano prendono come riferimento chi spiega, sempre che la
loro attenzione resista un tempo sufficiente, e non è scontato. Lo schema della
conferenza mal si adatta ad un incontro virtuale che non abbia come finalità un
aggiornamento specialistico. Ma partecipare tutti richiede di prepararsi.
17. In una realtà di di base come quella
parrocchiale, in teoria, secondo le regole del diritto canonico in vigore, i fedeli dovrebbero essere chiamati a prendere
decisioni in Assemblea e, in particolare, ad eleggere membri nel Consiglio
pastorale parrocchiale, organo solo consultivo ma comunque manifestazione
di una certa incipiente democraticità.
Spesso però queste procedure cadono in desuetudine e personalmente non
ricordo di essere stato mai chiamato a parteciparvi nella nostra parrocchia.
Quindi poi, a livello
parrocchiale, ma ai livelli superiori mi pare vada addirittura peggio, i laici
sono chiamati prevalentemente ad operare come collaboratori del parroco,
al pari dei chierici assegnati alla parrocchia, senza che sia loro riconosciuta
alcun ruolo di iniziativa o decisionale. Essi
del resto non sono abituati a collaborare tra loro e, a parte le
pratiche individuali di pietà, si riuniscono in associazioni settoriali,
prevalentemente dedite al perfezionamento spirituale, ciascuna gelosa del suo
spazio. Anche in questo campo l’Azione Cattolica fa eccezione.
Di questa situazione si è
lamentato papa Francesco, ma certamente finora si è fatto poco di concreto per
cambiarla. Bisognerebbe fare spazio ai laici, ma né loro, né i chierici, sono preparati
a questa nuova organizzazione del lavoro. Quindi poi si continua a essere
popolo come prima.
Ho letto che in alcune
parrocchie italiane si sono tentati processi sinodali per rinvigorire le forme di partecipazione che
sulla carta ci sono ancora. Il sinodo dovrebbe essere una organizzazione che,
nell’arco di un periodo abbastanza lungo, mesi o addirittura un anno, induca
una maggiore coesione nel popolo, chierici e laici, in modo da generare
impegni di azione collettiva condivisa e partecipata. Il primo scoglio è stato, come sempre accade nelle procedure
democratiche, e quella sinodale in alcuni suoi aspetti lo è, individuare chi aveva diritto a prendervi
parte: i residenti nel territorio
parrocchiale o anche chi aveva preso l’abitudine a frequentare una parrocchia
diversa da quella con giurisdizione sul suo luogo di residenza. La
questione è particolarmente spinosa
nella nostra parrocchia, dove in una delle organizzazioni laicali esistenti, la
più numerosa, sono presenti molti non residenti che vengono in parrocchia solo
per gli eventi di quella loro congregazione. In effetti la parrocchia ha
assegnati, come prevedeva il codice di diritto canonico del 1917, un territorio
e un popolo, che è quello che
su quel territorio abita, ma, in realtà, non si sa precisamente chi siano
quelli di quel popolo che vogliono (e sarebbero disposti a spendere il proprio
tempo per) essere parte attiva nell’istituzione parrocchiale, e non semplici utenti
di servizi religiosi. Questo, però,
ha in fondo poca importanza per come va una parrocchia ancora oggi, perché quel
popolo non conta nulla. Cambiare questa situazione, in un processo
sinodale, richiederebbe di conoscerlo, quel popolo, ma, su questa via, potrebbero
aversi spiacevoli sorprese. In teoria ho stimato che quelli che fanno
riferimento alla religione cristiana per la loro etica, e talvolta anche per la
loro spiritualità sono circa 15.000 nella nostra parrocchia; in pratica,
contando invece quelli che sarebbero veramente
disposti ad essere popolo attivo secondo le nuove (per modo di dire)
idee conciliari, potrebbe arrivarsi a poche decine di persone. Bisognerebbe
intanto cominciare da questi, perché la democrazia, in qualsiasi misura la si
introduca, ha la caratteristica di essere contagiosa, quindi di diffondersi e
di appassionare. Ma, appunto, non si è formati a farlo e, anzi, dei processi
democratici si è anche molto sospettosi.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli