Unità di popolo come ricerca e costruzione dell’armonia
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A questo link YouTube
trovate un video le istruzioni dettagliate per partecipare alle nostre riunioni
in Meet
https://www.youtube.com/watch?v=GorIYoaHGjk
E' stata spedita per posta, ai soci che non erano presenti all'ultima riunione del gruppo, la Lettera ai soci distribuita in quell'occasione
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1. Il popolo è
la società nel suo aspetto politico, in particolare nella sua unità politica.
Lo può essere in quanto popolazione sottomessa ad un qualche sistema di potere
che lo governa o come sistema di potere, quindi di governo, molto partecipato, pertanto strutturato secondo un complesso di norme con limiti all’arbitrio di potere che
prevenga la caduta nell’autocrazia dispotica. Quel complesso di norme è lo statuto di una società democratica e organizza la
partecipazione del popolo in modo che ciascuno possa avervi voce. Il potere autocratico rifiuterà confini e quindi si limiterà a imporre la sua legge.
Un sistema di potere è autocratico quando non ritiene di aver bisogno di
una legittimazione da parte del popolo che ha sottomesso, e quindi non la
ricerca né la promuove. In ogni autocrazia vi è sempre una fase di presa del potere in cui con la violenza si
sottomette un popolo e gli si impongono precetti normativi. L’autocrazia risponde alla legge di natura dei
viventi sociali, per la quale comanda chi riesce a prevaricare con la forza, e
finché mantiene la capacità di farlo.
Anche il passaggio da una autocrazia ad un governo di popolo, quindi più
partecipato e con limiti ad ogni centro di potere, di solito avviene nel corso
di una fase violenta.
Ogni sistema di potere, tuttavia, una volta affermatosi al governo di
una società, cerca, per uscire dalla violenza politica che rende instabili le
società, una propria giustificazione che, dall’antichità, viene solitamente
costruita su una qualche ministerialità
dell’autorità pubblica, nel senso che chi comanda pretende che gli si riconosca
che lo fa per il bene dei governati. Storicamente si è in genere
osservato il passaggio a questa condizione, salvo che in poteri che mantengono
una certa primitività di concezione, e allora essi basano la sottomissione dei
governati essenzialmente sulla paura dello sterminio.
Su questo passaggio alla ministerialità
del governo si basano sempre le forme di potere pubblico più partecipate.
A lungo questa ministerialità
venne configurata come un mandato, un
incarico quindi, ricevuto da divinità: pertanto come un potere
fondato su un mandato soprannaturale.
Il potere pubblico in tal modo sacralizzato
viene imposto come sovrano, nel
senso che pretende di non avere altro sopra di sé che la divinità da cui il
mandato di governo deriva.
A
quel punto, si regna per Grazia di Dio.
Questa formula, o altre analoghe, come “In
nome di Dio”, veniva premessa agli atti deliberati dai monarchi del
passato, generati da dinastie delle quali si affermava il potere e la
legittimazione sacrale.
Accadde anche nella monarchia
sabauda, da cui derivò l’unità nazionale, nel 1861, nel Regno d’Italia. In quel
sistema politico, nel passaggio un sistema politico democratico, nel 1848, venne
adottata la diversa formula “Per grazia
di Dio e volontà della nazione, Re d’Italia”.
Il
Trattato Lateranense concluso l’11 febbraio 1929 tra il Regno d’Italia dominato
dal fascismo mussoliniano e la Santa Sede, regnante il papa Pio 11° - Achille
Ratti, ha la premessa “In nome della
santissima Trinità, quindi un preambolo di natura sacrale. Il Papato, nel
governo della Città del Vaticano (entità politica distinta da quella della
Chiesa cattolica) è, con le monarchie islamiche del Vicino Oriente, uno degli ultimi poteri pubblici veramente autocratici,
sovrani, sacrali, assoluti, essendo previsto nella Legge fondamentale dello Stato [termine non contemplato, ed
evidentemente accuratamente evitato, nel Trattato Lateranense da cui
quell’entità politica deriva] della Città
del Vaticano che «Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città
del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Quella legge
fondamentale, infatti, fu deliberata con Motu
proprio, quindi d’iniziativa e d’autorità del solo Pontefice il 26 novembre
2000. Sostituì quella deliberata in analogo modo il 7 giugno 1929 dal papa Pio
11°, che ebbe la responsabilità personale, storica, etica, politica, diretta ed esclusiva di aver impegnato la
Chiesa cattolica nel trattato di cui sopra, sottoscritto per il Regno d’Italia
dal Capo del Governo di allora, Benito Mussolini, e per la Santa Sede dal
cardinale Segretario di Stato, Pietro Gasparri.
Il principale problema che oggi si
ha nei propositi di riforma della nostra organizzazione ecclesiale è quello di
costruirvi un potere pubblico più partecipato dai fedeli, laici, chierici e
religiosi, conformemente allo spirito dei tempi e, in fondo, di quello delle
comunità delle prime origini, piuttosto effervescenti e pluralistiche. Cosa
praticamente impossibile, invece, nella Città del Vaticano, che non dispone di
un vero e proprio popolo, ma solo di
uno stuolo di dipendenti, in
servizio a vario titolo nelle sue varie articolazioni e in quelle
centrali della Chiesa cattolica, con i loro famigliari.
La riscoperta di una teologia del popolo nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
ha realizzato le basi ideologiche per quella svolta, che tuttora, però, è solo,
ancora, alle fasi iniziali, e questo a tutti i livelli, anche in quello di base
delle parrocchie.
Qual è lo scopo di unificare politicamente una popolazione per farne un popolo? E’ quello di rendere
possibile le articolate organizzazioni sociali e istituzionali indispensabili
per far vivere società molto complesse, caratterizzate da una marcata divisione
del lavoro, nelle quali, quindi, nessuno, senza la collaborazione altrui riesce
ad ottenere ciò che gli necessita.
Una delle più importanti
istituzioni delle società non primitive è il mercato, dove, appunto, si attua
quella collaborazione mediante un sofisticato sistema di scambi. Alle origini
delle democrazie occidentali vi è proprio l’istituzione del mercato, che può
esistere solo se a tutti gli operatori vengono
riconosciute sicurezza e pari dignità. Se questi requisiti non sono assicurati, il
mercato muore, e rimane solo l’esercizio della reciproca rapina, quindi della
violenza per sottrarre agli altri ciò che loro hanno e che invece non si ha.
La società, quindi, rimane in un
certo grado pluralistica anche se dominata da autocrazie.
Finora nessun despota si è mai
proposto di realizzare un effettivo totalitarismo,
perché, in fondo non è indispensabile, e
nemmeno funzionale, ad un potere di quel tipo. Il despota si propone di
ottenere obbedienza ai suoi comandi, mantenendo quel livello di pluralismo che
consenta le dinamiche sociali dalle quali deriva la ricchezza pubblica, ma
anche il suo potere di riservarsi una parte privilegiata della sua
distribuzione.
Nelle forme democratiche di potere, essa si fa,
invece, tendenzialmente nell’interesse
generale e cercando di diffonderla anche alle classi che contano meno in
società: questo richiede una specifica organizzazione politica che istituisca
un certo pluralismo nelle strutture istituzionali di comando mediante un
sistema di limiti ad ogni potere pubblico o privato.
In ogni caso, finita la fase, in
genere violenta, della presa del potere da parte di una struttura di comando,
si cerca di organizzare una convivenza sociale pacifica, in modo da armonizzare il pluralismo sociale,
impedendo i suoi esiti distruttivi, ma nello stesso tempo mantenendolo vivo
quel tanto che consenta la produzione della ricchezza pubblica e un sistema
efficiente di scambi, vale a dire il mercato.
L’idea di armonia richiama il canto
corale o la musica sinfonica, nei quali ognuno fa la sua parte, ma il risultato
piacevole è di tutti e non può essere conseguito individualmente: richiede una
direzione che si distingua, per posizione e funzione, dagli altri operatori, i
quali né individualmente né collettivamente riuscirebbero ad produrre quel coordinamento
necessario a realizzarlo.
2. Le società umane
sono sempre in movimento: cambiano nel tempo e nello spazio. L’armonia deve
quindi essere sempre riconquistata e
questo richiede costanti processi di riforma,
per realizzarla in nuove condizioni sociali. Fu detto che la Chiesa necessita sempre di riforma.
L’idea di congelare le società in un determinato assetto è
irrealistica. Questo vale anche per quel particolare tipo di società che sono
le Chiese cristiane, e la storia lo dimostra.
In religione si sono molto mitizzati le Chiese e i loro popoli, del
resto sulla base di esempi che troviamo nelle Scritture. Si cerca così di
rendere l’idea di una armonia
sacralizzata, realizzata e garantita
dal Cielo, nonostante le dinamiche pluralistiche, anche di scontro, che ci sono
state storicamente. Questi miti sono utili
- gli esseri umani non possono farne a meno - in quanto idealizzano l’armonia sociale e ne fanno un fine anche religioso. L’agàpe, l’ideale cristiano di convivenza
sociale, è il principale di questi miti, che fonda quelli di Chiesa e di popolo.
Per millenni, tuttavia, nella ricerca della
realizzazione dell’unità religiosa si sono impiegate dosi
impressionanti di violenza, in particolare, su larghissima scala, dal
Cinquecento. Dove c’è violenza non c’è armonia e il sistema sociale funziona come
una macchina di cui le persone sono semplici ingranaggi. L’evangelizzazione
delle Americhe ne fu tragicamente pervasa. Questo perché, dal Quarto secolo, l’espansione
della nostra fede fu sorretta religiosamente da autocrazie sacralizzate.
Il recente affermarsi delle democrazie moderne, dalla fine del
Settecento, ha gradualmente prodotto diverse concezioni sui modi per costruire
e mantenere l’unità, sia politica che religiosa.
In particolare, la nostra Chiesa, nel corso
del Novecento, maturò la convinzione che la pace sia un valore politico che
richiede anche un impegno religioso. In passato i metodi delle autocrazie
religiose, non solo cattoliche, non differivano dalle autocrazie politiche.
Però la nostra Chiesa, dal punto di vista politico, è pur sempre una autocrazia
e addirittura, nel governo della Città del Vaticano, un’autocrazia
assolutistica territoriale, dotata quindi di tutte le istituzioni degli stati,
come esercito, polizia, tribunali e via dicendo. Difficilmente il passato potrà
essere superato senza una sua riforma.
Da decenni se ne parla, ma i risultati sono stati veramente scarsi: ora il tema
è tornato di grande attualità perché rientra nelle proposte di riorganizzazione
ecclesiali di papa Francesco.
Date le dimensioni attuali globali
della Chiesa cattolica, il millenari residuo ideologico autocratico e gli
ingenti patrimoni e flussi finanziari controllati dal Papato, dagli episcopati
e dagli ordini religiosi, difficilmente la riforma
potrà veramente essere coordinata
dall’alto. In questo lo stesso Papa regnante sembra in realtà prigioniero nei
suoi palazzi, che effettivamente ha preso ad abitare come un ospite,
risiedendo nell’albergo per
chierici e religiosi che vi si trova.
La riforma dovrebbe cominciare dalle realtà sociali di prossimità,
cercando di conquistare progressivamente ai fedeli spazi di governo molto più
partecipato, iniziando ad esempio dalla programmazione delle attività
collettive. La materia è tutta da
sperimentare, perché di un lavoro simile in genere non si fa né formazione né
tirocinio ecclesiali, salvo che in realtà come la nostra Azione Cattolica, che in
questo indica la via. In particolare occorrerebbe elevare i laici a
quella dimensione. Ora, in particolare, i laici non contano nulla, se non, a
volte e precariamente, come semplici consiglieri, in un’organizzazione burocratica
diretta dal clero.
Mi pare di constatare che il principale istituto di potenziale
partecipazione organizzato nei decenni scorsi, il Consiglio pastorale, funzioni poco nelle realtà di base, perché i
suoi membri sono in gran parte espressione dei gruppi organizzati o di un
mandato ricevuto dal clero, e non si organizzano spesso le elezioni per
sceglierne di quelli effettivamente rappresentativi dei fedeli.
Del resto, anche individuare il corpo elettorale, facendo della
popolazione parrocchiale un popolo, come
ha dimostrato l’esperienza elettorale dove è stata realizzata, è
difficile.
La parrocchia, ad esempio, è di chi ci vive o di chi ci va? Questo dilemma è cruciale in una
parrocchia come la nostra, nella quale negli anni passati, almeno fino all’inizio
del nuovo corso nel 2015, la gente che ci viveva aveva preso a non andarci,
mentre gente che non ci viveva aveva preso a frequentarla.
Ricordo che, in uno dei nostri incontri del
gruppo di AC, l’assistente di allora disse che la parrocchia è di chi ci va,
e io gli obiettai che, in tal modo, la si snaturava, trasformandola in altra
cosa.
Naturalmente, organizzando elezioni, è sempre possibile introdurre un
correttivo, come si fa in quelle politiche per gli italiani residenti all’estero:
una quota minoritaria degli eletti potrebbe essere riservata alla scelta di chi
in parrocchia non vive ma ci va. Tuttavia una quota maggioritaria degli eletti
dovrebbe derivare da chi nella parrocchia vive. Ciò perché la parrocchia è
istituita come ente territoriale. Il rischio, in caso contrario, è di colpire l’armonia
tra la parrocchia e il quartiere.
Partecipare
a un qualsiasi collegio deliberante, anche solo consultivo come in
genere accade ai laici, richiede una formazione democratica, quindi ad una
partecipazione attiva in cui si cerchi di produrre l’armonia sociale tenendo
conto degli altri, senza limitarsi a ribadire le proprie posizioni ed interessi
(ciò che rende spesso un inferno le assemblee condominiali).
In questo è molto importante che ad ogni presa di posizione corrisponda
un impegno congruo: in genere infatti ci si sente pronti a fare il direttore del coro, ma molto
meno a impersonare coristi od
orchestrali. Ho sperimentato che, quando si richiede un impegno di questo tipo,
le persone si ritraggono. Sono state formate essenzialmente per assistere e per recitare
una parte secondo copione, leggendo il foglietto durante le liturgie.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli