INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Questo blog è un'iniziativa di laici aderenti all'Azione Cattolica della parrocchia di San Clemente papa e manifesta idee ed opinioni espresse sotto la personale responsabilità di chi scrive. Esso non è un organo informativo della parrocchia né dell'Azione Cattolica e, in particolare, non è espressione delle opinioni del parroco e dei sacerdoti suoi collaboratori, anche se i laici di Azione Cattolica che lo animano le tengono in grande considerazione.

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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sabato 31 ottobre 2020

Problemi di costruzione ecclesiale

 

Problemi di costruzione ecclesiale

 

  Ogni generazione, e dunque anche quelle viventi oggi in Italia, ha avuto il problema di costruire una propria religiosità, a partire dalla tradizione ricevuta dal passato. Nessuna persona è capace di inventare una fede e una corrispondente religione: questo perché la religione è un fatto culturale, e dunque sociale. Non si parte mai dal nulla. E, tuttavia, ciò che si è ricevuto, lo si modifica e quello che si tramanda alle nuove generazioni non è mai uguale a quello che si è ricevuto. Studiando la storia delle religioni ce se ne può convincere abbastanza presto. Dunque, l’immagine di un deposito di fede  che deve passare intatto di generazione in generazione è fuorviante, anche se esprime la realtà del carattere culturale della religiosità e dunque del collegamento  con quella appresa e, in tal modo, ricevuta.

   A lungo i cristiani furono ossessionati dalla pretesa di mantenere l’identità del deposito di fede, mentre ora si parla piuttosto di  integrità. Si è infatti accettata l’idea  che in religione vi siano elementi culturali legati a certe epoche storiche e altri che, anche se espressi in modi che variano, rimangono caratteristici e quindi non mutano. La concezione del cambiamento come peccato contro la divinità costituisce un retaggio culturale dell’antico ebraismo, dal quale i cristianesimi presero a separarsi nel corso del Primo secolo. Se fosse stata meno forte nelle questioni ecclesiali, probabilmente la storia dei cristianesimi sarebbe stata meno cruenta. Sebbene si cerchi sempre di collegarsi alle origini, è un bene che ai tempi nostri la si pensi diversamente: questa è la base del processo ecumenico, che ebbe una forte espansione durante il Novecento, in particolare, nella Chiesa cattolica, negli scorsi anni ’50.

  Ora che in molti sentiamo l’esigenza di una  riforma ecclesiale  e ci sentiamo anche impegnati a parteciparvi e a impersonarla, la questione dell’integrità  nella fede ricevuta, e quindi dell’individuazione di ciò che può cambiare senza lederla, è di grande attualità.

  La nostra Chiesa è organizzata secondo strutture che, nei principi fondamentali che le reggono, non sono molto cambiate dall’Undicesimo secolo. La nostra è ancora, in fondo, la Chiesa del Secondo Millennio: quella del Primo Millennio fu molto diversa. Nel Primo millennio, poi, bisogna distinguere le Chiese delle origini, vale a dire quelle del Primo secolo, da quelle dei successivi tre secoli e poi quelle dei rimanenti secoli del Millennio, quando il cristianesimo divenne la base di una nuova ideologia politica dell’Impero romano. La necessità di una riforma fu avvertita ed espressa con molta chiarezza e forza in particolare dal papa Karol Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo 2°, dal 1978 al 2005. Dopo il regno del papa Joseph Ratzinger, Benedetto 16°, dal 2005 al 2013, nel quale si fu più attenti al rinnovamento spirituale come base per dinamiche ecclesiali più virtuose, il tema è ora al centro del magistero di papa Francesco, ma in un modo nuovo, per cui i processi di riforma dovrebbero partire dalle esperienze delle comunità periferiche, non dall’alto, né dalle singole persone, secondo l’esperienza fatta nelle Chiese Latino-americane a partire dagli anni Cinquanta.

  La sua lunga storia istituzionale pesa sulla Chiesa cattolica, così come la necessità di amministrare ingenti patrimoni accumulati nei secoli e addirittura una specie di stato su uno dei colli di Roma, la cui proprietà e condizione giuridica fu negoziata con Benito Mussolini come parte del prezzo per deporre l’ostinato astio derivato dal compimento dell’unità nazionale italiana, con la conquista di Roma nel 1870. Benché il diritto canonico e la teologia ci si provino, è piuttosto arduo convincersi che tutto ciò rientri veramente in ciò che è necessario mantenere per l’integrità  del deposito di fede. Ma, al tempo stesso, tutto ciò si è talmente fuso con quello che realmente la costituisce che appare complicato scindere i lasciti culturali inessenziali da ciò che invece non lo è, così come in un bel castello di carte da gioco è difficile estrarre una delle carte che lo compongono senza demolire tutto, e questo anche se si capisce che, costruendolo, si è andati un bel po’ avanti rispetto all’originaria struttura composta da due carte appoggiate l’uno all’altra, a formare una casetta stilizzata, l’essenziale.


   E non è detto che in questo lavoro aiuti la grande cultura. E’  stato scritto che il fatto di essere stata promossa da un professore di teologia non ha fatto tanto bene alla grande Riforma religiosa avviata nel Cinquecento. Un matematico come il gesuita Matteo Ricci, più o meno nella stessa epoca, ci riuscì meglio, ma, bisogna dire, con risultati meno duraturi. Nella costruzione sociale occorre molto pragmatismo e una certa capacità di aderenza alla realtà. Nella matematica e nelle scienze che ne fanno applicazione nello studio della realtà naturale e per la progettazione su di essa, l’immaginazione che c’è nella matematica viene messa alla prova della vera realtà e questo aiuta. Nella filosofia, e ancor più nella teologia, questo può a volte essere trascurato, con conseguenze spiacevoli quando si cerca di forzare certe concezioni dentro il mondo come veramente è, società e natura.

  Dunque, anche avviare processi di riforma in una realtà sociale tutto sommato piccola come una parrocchia può risultare macchinoso, perché, innanzi tutto, c’è di mezzo il diritto, e quindi l’istituzione, le cellule di quell’obsoleta organizzazione feudale che ordina chi comanda e chi non, poi c’è l’ordinaria amministrazione di proprietà immobiliare e di denaro che entra, che, come sempre in materia di ricchezza, può far gola agli ambiziosi, c’è una certa mitologia immaginata per dare l’idea del raccordo tra Cielo e Terra secondo la rappresentazione bucolica del Pastore con le sue greggi, e in base ad essa queste ultime non avrebbero titolo ad aver voce in capitolo, e infine ci sono diversi modi di immaginare l’essere Chiesa diffusi tra la gente, per cui ognuno si sente a suo agio nel proprio, diffida di quelli altrui, tutti diffidano del nuovo, e, insomma, ci si guarda tutti piuttosto sospettosi e critici. Mia madre, a lungo molto addentro alla vita della nostra parrocchia, mi diceva che piccoli cambiamento potevano suscitare risentimenti inestinguibili, ad esempio, mi raccontava, il fatto che una persona e non l’altra fosse incaricata da un certo momento in poi della raccolta della offerte a messa.  

 Ogni volta che si sperimenta qualcosa di nuovo, c’è un flusso di persone che va a lamentarsi dal parroco: se non trovano ascolta scrivono al vescovo, il cui ufficio è inondato costantemente da questa sciocca spazzatura generalmente a sfondo calunnioso, che difficilmente i suoi collaboratori riescono a fronteggiare, e mai a far cessare.

  In questa situazione, come cominciare?

  Beh, direi, innanzi tutto, armandosi di molta pazienza.

  Il suocero di mio fratello, un alto magistrato molto colto, nel tempo libero costruiva dei modelli di vascelli, addirittura in una bottiglia. Un lavoro che richiede una pazienza estrema, una costante e pervicace applicazione, la capacità di non demordere mai di fronte all’insuccesso. Ma che mirabili risultati! Un esercizio che torna utile, come tirocinio,  nella prassi giuridica, in cui, trovandosi ad operare sulla realtà sociale per scoprirvi la normazione che la pervade e mettere un po’ d’ordine tra i rissanti, bisogna praticare le medesime virtù.

  Penso che non sia male prendere esempio dalla prima comunità raccolta intorno al Maestro, nella quale, di fronte ad antiche istituzioni religiose ricevute dal passato, si iniziò un processo di riforma partendo da una delle periferie dell’epoca, la Galilea delle genti. Per approfondire il tema, l’ex assistente ecclesiastico del mio gruppo della FUCI, gli universitari cattolici, qualche anno fa mi consigliò di leggere di Gerhard Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità - la Chiesa quale dovrebbe essere, Edizioni San Paolo, tuttora in commercio nella riedizione del 2015 ad €13,78.

 

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

Monitoraggio settimanale Covid-19 - report 19-25 ottobre 2020 - del Ministero della salute - Covid-19 weekly monitoring - report 19-25 October 2020 - of the Ministry of Health - Una proposta - - A proposal

 

Una proposta - a proposal

 Riprendiamo a trasmettere in diretta YouTube le messe domenicali dalla parrocchia. Le persone morte per Covid 19 avevano in grande maggioranza più di cinquant'anni. Potrebbero partecipare in sicurezza alla messa. L'estremismo liturgico non è evangelico.

Let's continue to broadcast live Sunday masses from the parish on YouTube. The overwhelming majority of people who died from Covid 19 were over fifty years old. They could safely participate in mass. Liturgical extremism is not evangelical.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

Mario Ardigò - Catholic Action in Saint Clemente Pope - Rome, Monte Sacro, Valli district

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da:

http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=5146

Monitoraggio settimanale Covid-19 - report 19-25 ottobre 2020 - del Ministero della salute

  • la situazione descritta in questo report evidenzia forti criticità dei servizi territoriali e l’approssimarsi delle soglie critiche di occupazione dei servizi ospedalieri.

  • L’aumento rapido dell’incidenza è coerente con l’aumento dell’Rt nazionale che attualmente si colloca a 1.7 nel suo valore medio e a 1.49 nel sul intervallo di confidenza minore, indicando un avvicinamento allo scenario 4. Si conferma una situazione complessivamente critica sul territorio nazionale con impatto importante in numerose Regioni/PA italiane.

  • Si osserva una rapida crescita dell’incidenza, impossibilità sempre più frequente di tenere traccia di tutte le catene di trasmissione e rapido aumento del carico sui servizi assistenziali con aumento dei tassi di occupazione dei posti letto ospedalieri sia in area critica che non critica che sta limitando la fruibilità dei servizi assistenziali non legati a COVID-­19.

  • Si evidenza una forte difficoltà nel tracciare in modo completo le catene di trasmissione ed aumento in proporzione dei casi evidenziati per sintomi.

  • Si conferma che è necessaria una drastica riduzione delle interazioni fisiche tra le persone in modo da alleggerire la pressione sui servizi sanitari. È fondamentale che la popolazione eviti tutte le occasioni di contatto con persone al di fuori del proprio nucleo abitativo che non siano strettamente necessarie e di rimanere a casa il più possibile. Si ricorda che è obbligatorio adottare comportamenti individuali rigorosi e rispettare le misure igienico-sanitarie predisposte relative a distanziamento e uso corretto delle mascherine. Si ribadisce la necessità di rispettare le misure raccomandate dalle autorità sanitarie compresi i provvedimenti quarantenari dei contatti stretti dei casi accertati e di isolamento dei casi stessi.

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from:

http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioNotizieNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=5146

 

Covid-19 weekly monitoring - report 19-25 October 2020 - of the Ministry of Health

• the situation described in this report highlights strong criticalities of local services and the approaching critical occupancy thresholds of hospital services.

 

• The rapid increase in the incidence is consistent with the increase in national RT which currently stands at 1.7 in its average value and at 1.49 in the lower confidence interval, indicating an approach to scenario 4. An overall critical situation is confirmed on the national territory with an important impact in numerous Italian Regions / PAs.

 

• There is a rapid increase in the incidence, an increasingly frequent impossibility of keeping track of all the transmission chains and a rapid increase in the load on welfare services with an increase in the occupancy rates of hospital beds in both critical and non-critical areas limiting the usability of care services not related to COVID- 19.

 

• There is a strong difficulty in fully tracing the chains of transmission and increase in proportion of cases highlighted by symptoms.

 

• It is confirmed that a drastic reduction in physical interactions between people is needed in order to ease the pressure on health services. It is essential that the population avoid all occasions of contact with people outside their own home that are not strictly necessary and to stay at home as much as possible. We remind you that it is mandatory to adopt rigorous individual behaviors and to respect the hygienic-¬ sanitary measures established regarding the distance and correct use of the masks. The need to comply with the measures recommended by the health authorities is reiterated, including the quarantine measures of close contacts in established cases and the isolation of the cases themselves.

venerdì 30 ottobre 2020

Unità di popolo come ricerca e costruzione dell’armonia

 

Unità di popolo come ricerca e costruzione dell’armonia

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A questo link YouTube trovate un video le istruzioni dettagliate per partecipare alle nostre riunioni in Meet

https://www.youtube.com/watch?v=GorIYoaHGjk

 E' stata spedita per posta, ai soci che non erano presenti all'ultima riunione del gruppo, la Lettera ai soci  distribuita in quell'occasione

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1.  Il popolo   è la società nel suo aspetto politico, in particolare nella sua unità politica. Lo può essere in quanto popolazione sottomessa ad un qualche sistema di potere che lo governa o come sistema di potere, quindi di governo, molto partecipato, pertanto strutturato secondo un complesso di  norme con limiti all’arbitrio di potere che prevenga la caduta nell’autocrazia dispotica. Quel complesso di norme è lo statuto  di una società democratica e organizza la partecipazione del popolo in modo che ciascuno possa avervi voce.  Il potere autocratico rifiuterà confini  e quindi  si limiterà a imporre  la sua legge.

  Un sistema di potere è autocratico quando non ritiene di aver bisogno di una legittimazione da parte del popolo che ha sottomesso, e quindi non la ricerca né la promuove. In ogni autocrazia vi è sempre una fase di presa del potere in cui con la violenza si sottomette un popolo e gli si impongono precetti normativi.  L’autocrazia risponde alla legge di natura dei viventi sociali, per la quale comanda chi riesce a prevaricare con la forza, e finché mantiene la capacità di farlo.

  Anche il passaggio da una autocrazia ad un governo di popolo, quindi più partecipato e con limiti ad ogni centro di potere, di solito avviene nel corso di una fase violenta.

  Ogni sistema di potere, tuttavia, una volta affermatosi al governo di una società, cerca, per uscire dalla violenza politica che rende instabili le società, una propria giustificazione che, dall’antichità, viene solitamente costruita su una qualche ministerialità dell’autorità pubblica, nel senso che chi comanda pretende che gli si riconosca che lo fa per il bene  dei governati. Storicamente si è in genere osservato il passaggio a questa condizione, salvo che in poteri che mantengono una certa primitività di concezione, e allora essi basano la sottomissione dei governati essenzialmente sulla paura dello sterminio.

  Su questo passaggio alla ministerialità  del governo si basano sempre  le forme di potere pubblico più partecipate.

   A lungo questa ministerialità venne configurata come un mandato, un incarico quindi,  ricevuto da divinità: pertanto come un potere fondato su un mandato soprannaturale. Il potere pubblico in tal modo sacralizzato viene imposto come sovrano, nel senso che pretende di non avere altro sopra di sé che la divinità da cui il mandato di governo deriva.

 A quel  punto, si  regna per Grazia di Dio. Questa formula, o altre analoghe, come “In nome di Dio”, veniva premessa agli atti deliberati dai monarchi del passato, generati da dinastie delle quali si affermava il potere e la legittimazione sacrale.

  Accadde anche nella  monarchia sabauda, da cui derivò l’unità nazionale, nel 1861, nel Regno d’Italia. In quel sistema politico, nel passaggio un sistema politico democratico, nel 1848, venne adottata la diversa formula “Per grazia di Dio e volontà della nazione, Re d’Italia”.  

 Il Trattato Lateranense concluso l’11 febbraio 1929 tra il Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano e la Santa Sede, regnante il papa Pio 11° - Achille Ratti, ha la premessa “In nome della santissima Trinità, quindi un preambolo di natura sacrale. Il Papato, nel governo della Città del Vaticano (entità politica distinta da quella della Chiesa cattolica) è, con le monarchie islamiche del Vicino Oriente,  uno degli ultimi poteri pubblici  veramente autocratici, sovrani, sacrali, assoluti, essendo previsto nella Legge fondamentale  dello Stato [termine non contemplato, ed evidentemente accuratamente evitato, nel Trattato Lateranense da cui quell’entità politica deriva] della Città del Vaticano che «Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Quella legge fondamentale, infatti, fu deliberata con Motu proprio, quindi d’iniziativa e d’autorità del solo Pontefice il 26 novembre 2000. Sostituì quella deliberata in analogo modo il 7 giugno 1929 dal papa Pio 11°, che ebbe la responsabilità personale, storica, etica, politica,  diretta ed esclusiva di aver impegnato la Chiesa cattolica nel trattato di cui sopra, sottoscritto per il Regno d’Italia dal Capo del Governo di allora, Benito Mussolini, e per la Santa Sede dal cardinale Segretario di Stato, Pietro Gasparri.  

  Il principale problema che oggi si ha nei propositi di riforma della nostra organizzazione ecclesiale è quello di costruirvi un potere pubblico più partecipato dai fedeli, laici, chierici e religiosi, conformemente allo spirito dei tempi e, in fondo, di quello delle comunità delle prime origini, piuttosto effervescenti e pluralistiche. Cosa praticamente impossibile, invece, nella Città del Vaticano, che non dispone di un vero e proprio popolo, ma solo di uno stuolo di dipendenti,  in  servizio a vario titolo nelle sue varie articolazioni e in quelle centrali della Chiesa cattolica, con i loro famigliari.

 La riscoperta di una teologia del popolo  nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ha realizzato le basi ideologiche per quella svolta, che tuttora, però, è solo, ancora, alle fasi iniziali, e questo a tutti i livelli, anche in quello di base delle parrocchie.

  Qual è lo scopo di unificare  politicamente una popolazione per farne un popolo? E’ quello di rendere possibile le articolate organizzazioni sociali e istituzionali indispensabili per far vivere società molto complesse, caratterizzate da una marcata divisione del lavoro, nelle quali, quindi, nessuno, senza la collaborazione altrui riesce ad ottenere ciò che gli necessita.

  Una delle più importanti istituzioni delle società non primitive è il mercato, dove, appunto, si attua quella collaborazione mediante un sofisticato sistema di scambi. Alle origini delle democrazie occidentali vi è proprio l’istituzione del mercato, che può esistere solo se a tutti gli operatori vengono  riconosciute sicurezza e pari dignità.  Se questi requisiti non sono assicurati, il mercato muore, e rimane solo l’esercizio della reciproca rapina, quindi della violenza per sottrarre agli altri ciò che loro hanno e che invece non si ha.

  La società, quindi, rimane in un certo grado pluralistica anche se dominata da autocrazie.

  Finora nessun despota si è mai proposto di realizzare un effettivo totalitarismo, perché, in fondo non  è indispensabile, e nemmeno funzionale, ad un potere di quel tipo. Il despota si propone di ottenere obbedienza ai suoi comandi, mantenendo quel livello di pluralismo che consenta le dinamiche sociali dalle quali deriva la ricchezza pubblica, ma anche il suo potere di riservarsi una parte privilegiata della sua distribuzione.

   Nelle forme democratiche di potere, essa si fa, invece, tendenzialmente  nell’interesse generale e cercando di diffonderla anche alle classi che contano meno in società: questo richiede una specifica organizzazione politica che istituisca un certo pluralismo nelle strutture istituzionali di comando mediante un sistema di limiti ad ogni potere pubblico o privato.

  In ogni caso, finita la fase, in genere violenta, della presa del potere da parte di una struttura di comando, si cerca di organizzare una convivenza sociale pacifica, in modo da armonizzare il pluralismo sociale, impedendo i suoi esiti distruttivi, ma nello stesso tempo mantenendolo vivo quel tanto che consenta la produzione della ricchezza pubblica e un sistema efficiente di scambi, vale a dire il mercato.

  L’idea di armonia  richiama il canto corale o la musica sinfonica, nei quali ognuno fa la sua parte, ma il risultato piacevole è di tutti e non può essere conseguito individualmente: richiede una direzione che si distingua, per posizione e funzione, dagli altri operatori, i quali né individualmente né collettivamente riuscirebbero ad produrre quel coordinamento necessario a realizzarlo.

2. Le società umane sono sempre in movimento: cambiano nel tempo e nello spazio. L’armonia deve quindi  essere sempre riconquistata e questo richiede costanti processi di riforma, per realizzarla in nuove condizioni sociali. Fu detto che la Chiesa necessita sempre di riforma.

  L’idea di congelare  le società in un determinato assetto è irrealistica. Questo vale anche per quel particolare tipo di società che sono le Chiese cristiane, e la storia lo dimostra.

  In religione si sono molto mitizzati le Chiese e i loro popoli, del resto sulla base di esempi che troviamo nelle Scritture. Si cerca così di rendere l’idea di una armonia sacralizzata,  realizzata e garantita dal Cielo, nonostante le dinamiche pluralistiche, anche di scontro, che ci sono state storicamente. Questi miti sono utili  - gli esseri umani non possono farne a meno - in quanto idealizzano l’armonia sociale  e ne fanno un fine anche religioso. L’agàpe, l’ideale cristiano di convivenza sociale, è il principale di questi miti, che fonda quelli di Chiesa  e di popolo.

 Per millenni, tuttavia, nella ricerca della realizzazione dell’unità religiosa si sono impiegate dosi impressionanti di violenza, in particolare, su larghissima scala, dal Cinquecento. Dove c’è violenza non c’è armonia e il sistema sociale funziona come una macchina di cui le persone sono semplici ingranaggi. L’evangelizzazione delle Americhe ne fu tragicamente pervasa. Questo perché, dal Quarto secolo, l’espansione della nostra fede fu sorretta religiosamente da autocrazie sacralizzate.

  Il recente affermarsi delle democrazie moderne, dalla fine del Settecento, ha gradualmente prodotto diverse concezioni sui modi per costruire e mantenere l’unità, sia politica che religiosa.

  In particolare, la nostra Chiesa, nel corso del Novecento, maturò la convinzione che la pace sia un valore politico che richiede anche un impegno religioso. In passato i metodi delle autocrazie religiose, non solo cattoliche, non differivano dalle autocrazie politiche. Però la nostra Chiesa, dal punto di vista politico, è pur sempre una autocrazia e addirittura, nel governo della Città del Vaticano, un’autocrazia assolutistica territoriale, dotata quindi di tutte le istituzioni degli stati, come esercito, polizia, tribunali e via dicendo. Difficilmente il passato potrà essere superato senza una sua riforma. Da decenni se ne parla, ma i risultati sono stati veramente scarsi: ora il tema è tornato di grande attualità perché rientra nelle proposte di riorganizzazione ecclesiali di papa Francesco.

  Date le dimensioni attuali globali della Chiesa cattolica, il millenari residuo ideologico autocratico e gli ingenti patrimoni e flussi finanziari controllati dal Papato, dagli episcopati e dagli ordini religiosi, difficilmente la riforma  potrà veramente essere coordinata dall’alto. In questo lo stesso Papa regnante sembra in realtà prigioniero nei suoi palazzi, che effettivamente ha preso ad abitare come un ospite,  risiedendo   nell’albergo per chierici e religiosi che vi si trova.

  La riforma dovrebbe cominciare dalle realtà sociali di prossimità, cercando di conquistare progressivamente ai fedeli spazi di governo molto più partecipato, iniziando ad esempio dalla programmazione delle attività collettive. La materia  è tutta da sperimentare, perché di un lavoro simile in genere non si fa né formazione né tirocinio ecclesiali, salvo che in realtà come la nostra Azione Cattolica, che in  questo indica la via. In particolare occorrerebbe elevare i laici a quella dimensione. Ora, in particolare, i laici non contano nulla, se non, a volte e precariamente, come semplici consiglieri, in un’organizzazione burocratica diretta dal clero.

  Mi pare di constatare che il principale istituto di potenziale partecipazione organizzato nei decenni scorsi, il Consiglio pastorale, funzioni poco nelle realtà di base, perché i suoi membri sono in gran parte espressione dei gruppi organizzati  o di un mandato ricevuto dal clero, e non si organizzano spesso le elezioni per sceglierne di quelli effettivamente rappresentativi dei fedeli.

  Del resto, anche individuare il corpo elettorale, facendo della popolazione parrocchiale un popolo,  come ha dimostrato l’esperienza elettorale dove è stata realizzata, è difficile. 

  La parrocchia, ad esempio, è di chi  ci vive  o di chi  ci va? Questo dilemma è cruciale in una parrocchia come la nostra, nella quale negli anni passati, almeno fino all’inizio del nuovo corso nel 2015, la gente che ci viveva aveva preso a non andarci, mentre gente che non ci viveva aveva preso a frequentarla.

 Ricordo che, in uno dei nostri incontri del gruppo di AC, l’assistente di allora disse che la parrocchia  è di chi ci va, e io gli obiettai che, in tal modo, la si snaturava, trasformandola in altra cosa.

  Naturalmente, organizzando elezioni, è sempre possibile introdurre un correttivo, come si fa in quelle politiche per gli italiani residenti all’estero: una quota minoritaria degli eletti potrebbe essere riservata alla scelta di chi in parrocchia non vive ma ci va. Tuttavia una quota maggioritaria degli eletti dovrebbe derivare da chi nella parrocchia vive. Ciò perché la parrocchia è istituita come ente territoriale. Il rischio, in caso contrario, è di colpire l’armonia tra la parrocchia e il quartiere.

 Partecipare  a un qualsiasi collegio deliberante, anche solo consultivo come in genere accade ai laici, richiede una formazione democratica, quindi ad una partecipazione attiva in cui si cerchi di produrre l’armonia sociale tenendo conto degli altri, senza limitarsi a ribadire le proprie posizioni ed interessi (ciò che rende spesso un inferno le assemblee condominiali).

  In questo è molto importante che ad ogni presa di posizione corrisponda un impegno congruo: in genere infatti ci si sente pronti  a fare il direttore del coro, ma molto meno  a impersonare coristi od orchestrali. Ho sperimentato che, quando si richiede un impegno di questo tipo, le persone si ritraggono. Sono state formate essenzialmente per assistere  e per recitare una parte secondo copione, leggendo il foglietto durante le liturgie.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

giovedì 29 ottobre 2020

estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202

 

estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202

 

«O se siete voi stessi a dirmi sempre come mi disse quel gesuita: “Parli troppo alto per il tuo popolo. Il popolo non è capace di distinguere né di ragionare e così la tua parola porta più confusione che chiarezza”.

 Un’affermazione che potrà anche essere vera, ma io rifiuto di adattarmi alla mentalità che l’ha generata. Una mentalità di resa, di accettazione passiva di uno stato di fatto che ognuno ha compreso, ma che ha ormai archiviato come cosa di ordinaria amministrazione: il popolo è inferiore, il popolo è infante, per parlargli bisogna abbassarsi a lui, scaldargli la pappina perché non ha denti per il Pane. A un popolo che è cristiano da 20 secoli volete parlare come S.Paolo a città evangelizzate da pochi giorni? e volete evangelizzarlo stando al piano di sopra? e vi meravigliate se poi il popolo non accetta questa degnazione?

 Ma state tranquilli, non sarò io a consigliarvi di scendere a lui. Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo.

 Ma prima di entrare sull’argomento sentite ancora quel che mi scrive un prete di montagna:

 “…i cittadini li spregiano e hanno quasi ragione perché sono spregevoli perfino a me che sono il loro prete e li amo solo perché me la prendo col mondo e non con loro se sono così.

 Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come di amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m’è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori.

 A vivere nella solitudine, senza il contrappeso della cultura o del pensiero o di un’intensa spiritualità, sono diventati davvero animali inferiori.

 E se anche questa parola pare una bestemmia al nostro esser tutti figlioli di uno stesso Padre, lo dico per esprimere quanto l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che no sono né divine né umane.

 Io non te li posso neanche descrivere perché sono indescrivibili e perché li amo troppo.

 Dovresti vederli lì impalati sul sagrato della chiesa, tutti ripicchiati nei vestiti nuovi, tutti impensieriti per la piega dei calzoni e dei capelli tutti intenti a studiare i gesti degli altri per non farne uno di più o uno di meno.

‘Perché siete venuti stasera?’.

‘Non ci vuole a vespro?’.

‘Ma perché proprio stasera?’.

 Lo sanno, ma non rispondono. Son venuti perché oggi è il titolare e tutti vengono dunque bisogna venire.

‘Ma che vu gli fate a Dio, voi che mancate sempre alla Messa? Venite a un vespro solo perché vengon tutti? Ma  decidetevi una volta per sempre! Siete giovani!  Vorreste diventare anche voi come i vostri babbi, come i nonni, come da mill’anni fanno i vostri nonni; quel che fanno gli altri e basta, non un capello di più non uno di meno. Siete cristiani o non siete?’

‘O non siamo cristiani? Che siamo? Ebrei?’

 E’ una risposta buttata lì che non è una risposta, è un rifiuto di ragionare, di scendere da quella piattaforma ormai intoccabile. Posso parlare per ore, posso dire cose appassionate da far venire i bordoni giù per la schiena.

 I volti gelidi mi dicono che le mie parole non passano neanche la soglia delle orecchie.

 C’è di mezzo un rifiuto preconcetto all’ascolto, al ragionamento, alle decisioni.

 Non sono uomini e non vogliono esserlo.

 Alla loro età i giovani operai sono capaci di aprirsi a tutto, ma soprattutto al pentimento dei propri peccati oppure ai problemi sociali.

 In montagna il muro.

 E’ cosa che tra i preti si sente lamentare da per tutto.

 Tutti sanno che se un prete di città si trovasse in una qualsiasi chiesa di montagna a confessare i giovani e facesse loro la più pudica domanda oltre il terzo Comandamento, guai a lui.

 A lui i giovani risponderanno di no, che tutto va bene, che hanno già detto tutto, fingeranno  perfino di non capire cosa voglia dire, lo faranno passare da imbecille, da patologicamente curioso.

 A caso poi lo bolleranno: ‘Da quel prete non mi confesso più, vuol saper troppe cose’. Ma a lui così non diranno mai e a confessarsi torneranno egualmente.  E seguiteranno a fissarlo coi loro occhi gelidi, impenetrabili come se lo giudicassero. Occhi che non s’abbassano, occhi senza pudore, senza dolore, senza esame di coscienza, occhi a muraglia.

 E se il prete sarà costretto a battere in ritirata, a vergognarsi d’aver osato, a domandarsi se forse non possa esser vero, se forse la montagna non sia un’isola di purezza in un mondo impuro, per poi venire a sapere il giorno dopo le più turpi cose dalle chiacchiere dei bambini, dagli incidenti estremi, dalle chiacchiere di chi vuol vendicarsi di un vicino. Tutta la rosa dei peccati è rappresentata sui monti, dai più patologici ai più normali, in tutte le età, in tutte le famiglie.

 E il prete lì in quella bara che è un confessionale dove non palpita la vita vera di nessun peccatore. Dove ognuno che viene dice solo: ‘Ho mandato quale ‘resia, ho perso qualche Messa’ ed è lo stesso come se venisse a gridargli in faccia:‘Non credo in Dio, non credo in questo Sacramento, non me ne importa di esser perdonato, non penso di aver nulla da farmi perdonare, non mi fido di te, ti confesso le bestemmie perché le bestemmie sono cosa insignificante, ma non ti confesserò nulla che sia vita mia vera di quella che mi preme e che non deve interessare né a te né a Dio, vengo perché son sempre venuto, vengo perché a Pasqua bisogna venire, vengo blindato, impenetrabile, non mi scoscenderai neanche con le mine’.

 Ah sapessero almeno fare questo discorso crudele. Sapessero  farlo almeno dentro di sé, ma non sanno. Son muti anche con sé stessi. Infelici!

 E noi bisogna insaccare il capo e tacere, bisogna rincantucciarsi nella preghiera, nell’esame di coscienza nostro, ripetere al Signore la nostra fede nella libertà dell’uomo, nella libertà della Grazia di Dio, nella nostra incapacità a comprendere il mistero della salvezza individuale in cui Dio solo legge.

 Bisogna stare in confessionale come sta un certosino nella sua cella, a esercitarvi l’identico lavoro di distacco dalle cose terrene, dalla pretesa di intervenire  terrenamente  nelle cose terrene, dalla pretesa di conoscere qualcosa, oppure di pensar qualcosa o di decidere qualcosa o di fare qualcosa.

 Sì, così facciamo perché siamo buoni, ma possibile che Dio ci chieda questo solo? Possibile che ci vesta da parroci per poi volerci trappisti? Che ci metta in mano dei mezzi solo perché si rinunzi a usarli?

  Non c’eri te quel giorno del Corpus Domini alla Messa delle 11 quando col cuore ormai colmo di sofferenza e di affetto parlai al mio popolo.

 Dissi parole che i loro bambini intendevano a una a una e nel loro insieme. Non parlai un linguaggio da intellettuale o indecifrabile. Mi credi tanto stupido e tanto letterato da non sapere (dopo anni che vivo tra loro) allineare solo parole facili, aperte, senza segreti, senza pretese. Parole che non suppongono altra cultura precedente. Parole identiche a quelle che essi si scambiano tra loro tutti i giorni per parlar di vacche, del campo e della casa. Alcuni mi hanno inteso infatti e m’hanno odiato. Altri non potevano neanche intendermi, poveretti. Intendevano le singole parole e le singole proposizioni. Ma concatenarle in mente, seguire un filo di pensiero, questo è un’altra cosa.

- ‘Prendete e mangiate’ vuol dire far la Comunione.

‘Fate questo per ricordo di me’ vuol dire Messa.

Messa e Comunione le due cose che voi lasciate sempre, o quasi, le ha comandate il Signore chiaro chiaro.

 Della Processione il Signore non ha parlato. E’ un’invenzione d’uomini. Una piccolissima cosa. Non  è necessaria. Non è nulla a petto di quell’altre due. Ecco voi ora volte ancora una volta venire  in massa alla Processione. Volete parteciparvi in cappa, portare i segni e il baldacchino, volete far atti di onore al Signore, a quel Signore che vi rifiutato poi di obbedire nelle più semplici e serie cose.

‘Prendete e mangiate’. ‘No’.

‘Chi non mangia il mio Corpo non avrà la Vita Eterna’. ‘Non ce ne importa’.

‘Fate questo  in ricordo della mia morte per voi’.

‘No, non ci s’ha usanza, si passerebbe per strani. Noi si vien la sera in cappa a reggere lo stendardo e gli altri segni’.

 Ma figlioli, io n on vi chiedo poi tanto. Non  vi chiedo di venire a confessarvi, non vi chiedo di fare la Comunione, non vi chiedo di venire a Messa.

 Siete adulti, se queste cose non vi vanno, se non le intendete, girate al largo.

 A me col venirci, finché non le intendete, non fate piacere certo. Al Signore nemmeno, io credo.

 E dunque fatemi solo questo di non venire neanche a turbarmi la pace della Processione. Lasciatemici andare coi vostri bambini che son fratelli miei davvero e m’intendono.

 Lo stendardo se non lo porterete lo lasceremo lì al muro. Domani quando i vostri bambini saranno più grandi e lo potranno, lo porteranno loro.

 Per ora lasciateci girare così per questi boschi senza stendardo e senza baldacchino, soli, pochi, piccini, ma cristiani.

 Io e loro che amiamo il Signore, e che osserviamo per quanto possiamo i suoi grossi comandamenti. O per lo meno: che desideriamo osservarli, e ci pentiamo quando non ci riesce e si cerca nei Sacramenti il suo perdono. Lasciateci in pace a compiere con gioia anche questa cosa che il Signore non ci aveva chiesta, ma che noi gli regaliamo in più  come segno d’affetto-.

 Mi rispondono con l’unica parola che sanno dire: il broncio.

 Un broncio, cieco sordo e muto.

 E poi con quell’altra arma segreta di chi non sa parlare: il fatto compiuto. Preparare ogni cosa, anche le cose più semplici, nell’ombra del segreto e poi farla di sorpresa e attendere che tu la sappia da altri o che tu la veda da te quando ormai non c’è più nulla da farci e le lagnanze e le parole che tu potrai dirci sopra con la tua arte infernale batteranno in un muro solido come l’acciaio: è tardi. Il fatto compiuto. L’arma del gatto. L’arma degli infelici.

 Per esempio quella sera, dopo un discorso così chiaro e così offensivo, quando ti saresti atteso un deserto in processione, invece erano lì, s’erano spartiti le cariche come sempre, s’erano messe le cappe. Non ne mancava uno. Non ce ne fu uno che stesse a casa anche solo a mostrarmi che la mia parola, di bene o di male che fosse, avesse mosso o cambiato qualche cosa. Guai se la parola avesse questo potere! Dove mai s’andrebbe a finire?

 Ma fosse tutto qui il male, fossero chiusi solo al pensiero e avessero un cuore traboccante d’amore.

 Ma non hanno neanche questo. Son chiusi in sé stessi, nell’egoismo più elementare. L’egoismo dell’infante e della belva. L’egoismo che giunge all’amore per i figlioli. Ci giunge per istinto come nel bruto. Non conosce l’amore per altri. Neanche per i genitori.  Perché in questo l’istinto vale poco (e difatti c’è occorso un comandamento, mentre sull’amore materno un comandamento sarebbe parso superfluo anche a un’elefantessa).

 Questo egoismo da giungla è tutto ciò che si può trovare in un uomo quando non l’ha raggiunto l’influsso vivificatore della parola, cioè del mezzo per ricevere l’apporto dei suoi simili e soprattutto quello dei suoi simili migliori di lui e più ancora quello di Un suo Simile che è Parola e che s’è fatto Carne cioè Parola Incarnata per essere Parola più convincente. E che poi ha posto un Libro come fondamento della nostra elevazione e un Magistero per l’interpretazione di quel Libro e poi dei Sacramenti che sono in sé stessi più che quel Libro e più che quel Magistero, ma che pure non si possono affrontare neanche loro senza l’anticamera della Parola (e del catechismo).

 Da tutto questo son tagliati fuori questi infelici e non solo per il loro non posseder la parola abbastanza (insisto però su questo concetto, perché son sicuro che proprio manca loro materialmente un possesso sufficiente della parola), ma soprattutto per non volerla possedere, per non volerle dar luogo nella vita, per non aver conosciuto la sua dignità vivificatrice, la sua capacità di piegare, di trasformare, di costruire.

 Forse nel subcosciente ognuno di loro sa cos’è la parola e la ragione e forse ha indovinato anche troppo ciò che la ragione può far nascere in lui.

 Forse ha già capito che se le aprisse l’anima, se la lasciasse penetrare fino a quel recondito regno dell’io dove si prendono le decisioni di vita, allora dal primo giorno in poi gli toccherebbe  differenziarsi dai suo vicini, per esempio mutare atteggiamento di fronte ai Sacramenti, oppure di fronte ai divertimenti o alla politica, fare, dire, pensare qualcosa che gli altri nel popolo non pensano, non dicono, non fanno.

 E questo gli fa paura. Perché sa che per differenziarsi occorre poi posseder la parola in modo da potersi difendere. Non sarà più come ora che fa come tutti e quindi vive proprio bene anche muto e bendato.

 Tra loro, per aver osato parlare, son guardato come un intruso. Uomo senza tatto, né gusto, né discernimento, né educazione. Un uomo che vuol parlare, un uomo che pretende che le parole corrispondano al pensiero, che costruiscano cose, che trasformino situazioni, persone, idee, usanze, turbino equilibri secolari.

Mi sopportano solo per la passione che hanno perché i loro figli vengano a scuola. Passione che è l’unico aspetto ancora umano in loro e che non cade solo perché è abbarbicata in quell’altra passione, superiore a ogn’altra, del voler scappare dai monti e rifarsi una parità sociale.

 In una famiglia modello, l’unica del popolo in cui si dica ogni sera la Corona, dove c’è una vecchietta che va a Messa ogni giorno e c’è santi a tutte le pareti (specialmente nella stalla), dove si sa storie di preti e di uffizi e si conosce i priori e i poderi di decine di chiese, dove però la Comunione è ridotta ferramente alla Pasqua e la confessione s’intende solo per quella; in questa diabolica famiglia mi provai a far notare garbatamente qualcosa.

 Mi risposero con freddezza aggressiva:

‘La nostra famiglia è rammentata da per tutto per cristiana. Lei vada da tutti i preti che ci hanno conosciuto nel Firenzuolino e da per tutto dove siamo stati. E le diranno chi siamo noi e chi erano i nostri nonni. Tutti cristiani dei primi in tutte le chiese. Ma in tant’anni che frequento la chiesa io un’osservazione da un prete non l’avevo avuta mai’.

 Vorrebbero ridurti a un funzionario.  non sopportano che tu sia uomo, non sopportano che tu voglia intervenire nel tran tran della vita, che tu voglia smuovere le cose ferme. sovvertire un ordine che si son dati e che di cristiano non ha più nulla.

 Si, insisto. Nulla. Perché cosa ci può essere  di cristiano là dove si rifiuta al prete questo diritto di avvertire, di parlare, di scuotere? Ma che dico al prete. Là dove si rifiuta alla Parola di penetrare. E al pensiero, alla ragione. Dove  si rifiuta alla Religione stessa d’entrare nei fatti della vita.

 Cos’ha di cristiano una fede che osserva il rito (e non tutto) e poi fuori di quello non vuol essere turbata in nulla? Non è questa la fede degli egiziani e dei romani? Fede in Dio senza addentellati in nessun comandamento di vita, ma solo in comandamenti di rito.

 Hanno votato per il comunismo. E i preti sono cascati dalle nuvole. E’ parso loro un mostro improvviso, imprevedibile, inspiegabile. Han pensato che certo deve essere venuto da fuori con diaboliche arti.

 Macché! Macché da fuori. Macché nuovo. Era da secoli che il loro cuore si rifiutava a qualsiasi intervento del Cristo e della Chiesa nella loro vita e ora ci meraviglieremo per questa pisciatela che è un voto?

 Fosse tutto lì il male. E invece non è che un campanello che ci avverte di cose che bastava aprir gli occhi per vederle già da tanto tempo nude e crudeli distese quotidianamente dinanzi ai nostri occhi.

 Quando un uomo viene a ‘confessarsi’ e si rifiuta di confessarsi. Quando questo rifiuto è così profondo che non c’è neanche da provarsi a interrogare perché sappiamo benissimo che non solo non confesserà i suoi peccati, ma che non si sentirà in colpa, neanche avrà quel tono umile di chi sa di aver sbagliato due volte una volta nel peccato e la seconda nel negarlo. Quando sappiamo invece che si sentirà interiormente sicuro di sé, giudice del pretino ficcanaso, parte offesa da questa curiosità ingiusta su cose che appartengono al regno intoccabile dei ‘fatti suoi’ dei fatti che non deve conoscere nessuno all’infuori di eventuali complici. Quando manca ancora anche il primo gradino del pentimento cioè il concetto di peccato (il sentirsi creatura di Un Altro che ha diritto di pórci legge e potere di punirci), quando manca interiormente anche il senso del dovere d’arrendersi a chi ci ha creati, d’umiliarsi a una volontà che è diversa, anzi spesso in contrasto, con l’usanza d’altri. Quando s’è interiormente giurato di non umiliarsi a nessuna altra legge che che quella che pone l’usanza del prossimo e che  è l’unica legge che non è ‘strana’ perché  è la legge di tutti. Quando un uomo incolto sa per sua esperienza (o crede di sapere) che tutti i diciottenne vanno in determinati luoghi, che tutti i fidanzati fanno determinate azioni, che tutti gli sposi fanno altre determinate azioni, che tutti i commercianti  dicono determinate bugie, che tutti gli uomini agiscono solo per un determinato loro interesse, allora chiama legge tutto questo  e stranezza una legge che con tutto questo contrastasse.  Allora penserà che il prete predica  quest’altra strana legge solo per dovere professionale, ma senza la minima convinzione, perché è un uomo  di mondo anche lui e sa bene che il mondo non è al quel modo. Quando un uomo ‘ragiona’ così, cioè non ragiona e non si vede spiragli per cui farlo salire a un’atmosfera più respirabile per noi, allora non bisogna confessarlo, né chiamarlo a una predica, né dargli in nessun modo la tessera di cristiano, né illuderlo in nessun modo che tra lui e la Chiesa, tra lui e Dio  ci sia possibilità di accomodamento. Perché accomodamento non di sarà se non nel miracolo.

Ma quando parroci, cioè corresponsabili terreni di questo groviglio di irrazionalità ci presenteremo a Dio a chiedergli il miracolo della conversione dei contadini, non ci sentiremo forse rispondere che il miracolo verrà per i contadini innocenti perché bestioni, perché incapaci di rendersi conto di qualcosa, ma non verrà per il prete che ha avuto inestimabili doni di intelligenza e di parola e di cultura e non li ha usati per farne parte ai bestioni né per correggere il proprio agire pastorale?

 Concludendo: io non sono fratello di gente che si fa un’etica della bugia, della chiusura, del rifiuto del ragionamento, dell’abbassarsi metodico alle usanze, all’eguaglianza col prossimo. Di gente che vive nel terrore dei vicini, di gente che non sa, non dico fare, ma neanche seguire un ragionamento filato e perciò ignora ogni principio fuorché quell’unico principio di far come gli altri. Di gente per cui in predica io non posso neanche usare l’aulica formula cappuccinesca: ‘Fratelli,  i nostri peccati…’. Quali? Io non ho peccati in comune col mio popolo. I miei peccati e i suoi non sono neanche parenti. I suoi atti non sono né bene né male. Non sono nulla.

 Tra una gente senza dolore dei propri peccati, anzi peggio tra una gente senza peccati e me non c’è nulla in comune e ci manca anche il linguaggio  col quale qualcosa di comune se non c’è si crea.

 Ora, se questo qualcosa di comune si dovrà creare, io mi rifiuto di crearlo al loro livello.

 Son loro che devono diventare miei simili e miei pari.

 Ecco perché per ora non faccio con convinzione altro che scuola.

 Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti.

 E’ che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intenderli. Dopo poi potranno fare il diavolo se vorranno: buttarli dalla finestra o mettersi nel cuore, s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro.

 Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno suola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale.

 Domani poi, tra questi sordomuti ritornati alla luce della parola, ci saranno santi e dannati. E quel giorno la responsabilità della salvezza ricadrà su ognuno di loro come è nell’economia normale della Salvezza. Ma se invece mi rifiuto di creare questo ponte, allora per loro non ci sarebbe che il Limbo dei bambini e per me il castigo di chi non ha fatto il suo dovere.

 Lo stesso avviene quassù in montagna: con la scuola non li potrò fare cristiani, ma li potrò fare uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 1000, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare ed io non me la sento di dirgli che ho predicato quando ho la certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare.

 Anche i miei predecessori lo sapevano e han seguitato ugualmente a parlare al muro che si vedevano intorno. Hanno sperato di potersi presentare al Signore con titolo legale: ’Ho predicato a dei battezzati, non mi hanno ascoltato’.

 Mi dispiace di aver dovuto toccare questo tasto delicato e crudele, ma bisogna ben chiarire le cose con freddezza di chirurgo. Auguro loro che Dio li accolga nella sua infinita misericordia e si contenti. Ma non mi contenterò io, dinanzi a lui, ormai che ho inteso, di un gioco di parole e di legalità osservate di cui la mia coscienza d’uomo, di cristiano e di sacerdote non si appaga.

 Dopo queste premesse mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che non sia la parola per i missionari dell’istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina.

 Domani invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un rettorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti.

 Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso  di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nella scuola (Nota :Ho detto hic et nunc e nulla più. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i problemi si presentano in modi diversi mi lascino dire. Ciò che dico servirà per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a questa).

  E credi, non è più solo un progetto o una speranza. Ho già visto qualcosa. In questi pochi anni da che son qui, la scuola ai giovanotti ancora brancola nel buio di una distanza secolare di civiltà diverse. Ma coi bambini è un’altra cosa.

 Con loro parlo ormai davvero come a miei pari. E non c’è cosa ch’io voglia dir loro  alta o bella o nuova e ch’io non riesca a far giungere alle loro menti. E non c’è cosa che abbiano in mente e che non riescano a spiegarmi.

 Tre anni di grammatica e di lingua con loro mi son bastati. E ora vibrano a tutto quel che pare a me, alla cultura, al pensiero, alla fede.

 E già guardano i loro genitori con una pietà accorata di giudici e di superiori. Si sono affacciati ormai al mio mondo, sono ormai di quelli che la tua ispettrice chiama ‘spostati’. Sì, spostati ormai per tutta la vita, non torneranno più indietro”.»