estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze
pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202
«O se siete voi stessi a dirmi
sempre come mi disse quel gesuita: “Parli troppo alto per il tuo popolo. Il
popolo non è capace di distinguere né di ragionare e così la tua parola porta
più confusione che chiarezza”.
Un’affermazione che potrà anche essere vera,
ma io rifiuto di adattarmi alla mentalità che l’ha generata. Una mentalità di resa,
di accettazione passiva di uno stato di fatto che ognuno ha compreso, ma che ha
ormai archiviato come cosa di ordinaria amministrazione: il popolo è inferiore,
il popolo è infante, per parlargli bisogna abbassarsi a lui, scaldargli la
pappina perché non ha denti per il Pane. A un popolo che è cristiano da 20
secoli volete parlare come S.Paolo a città evangelizzate da pochi giorni? e
volete evangelizzarlo stando al piano di sopra? e vi meravigliate se poi il
popolo non accetta questa degnazione?
Ma state tranquilli, non sarò io a
consigliarvi di scendere a lui. Chi sa volare non deve buttar via le ali per
solidarietà con pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo.
Ma prima di entrare sull’argomento sentite
ancora quel che mi scrive un prete di montagna:
“…i cittadini li spregiano e hanno quasi
ragione perché sono spregevoli perfino a me che sono il loro prete e li amo
solo perché me la prendo col mondo e non con loro se sono così.
Me la prendo con la storia, coi secoli, col
dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a
perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come di amano dei poveri malatini,
degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano.
Come si ama un animale domestico. Sì, m’è scappato detto ormai e lo ripeto:
come animali inferiori.
A vivere nella solitudine, senza il
contrappeso della cultura o del pensiero o di un’intensa spiritualità, sono
diventati davvero animali inferiori.
E se anche questa parola pare una bestemmia al
nostro esser tutti figlioli di uno stesso Padre, lo dico per esprimere quanto
l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che
no sono né divine né umane.
Io non te li posso neanche descrivere perché
sono indescrivibili e perché li amo troppo.
Dovresti vederli lì impalati sul sagrato della
chiesa, tutti ripicchiati nei vestiti nuovi, tutti impensieriti per la piega
dei calzoni e dei capelli tutti intenti a studiare i gesti degli altri per non
farne uno di più o uno di meno.
‘Perché siete venuti stasera?’.
‘Non ci vuole a vespro?’.
‘Ma perché proprio stasera?’.
Lo sanno, ma non rispondono. Son venuti perché
oggi è il titolare e tutti vengono dunque bisogna venire.
‘Ma che vu gli fate a Dio, voi
che mancate sempre alla Messa? Venite a un vespro solo perché vengon tutti?
Ma decidetevi una volta per sempre!
Siete giovani! Vorreste diventare anche
voi come i vostri babbi, come i nonni, come da mill’anni fanno i vostri nonni;
quel che fanno gli altri e basta, non un capello di più non uno di meno. Siete
cristiani o non siete?’
‘O non siamo cristiani? Che
siamo? Ebrei?’
E’ una risposta buttata lì che non è una
risposta, è un rifiuto di ragionare, di scendere da quella piattaforma ormai
intoccabile. Posso parlare per ore, posso dire cose appassionate da far venire
i bordoni giù per la schiena.
I volti gelidi mi dicono che le mie parole non
passano neanche la soglia delle orecchie.
C’è di mezzo un rifiuto preconcetto
all’ascolto, al ragionamento, alle decisioni.
Non sono uomini e non vogliono esserlo.
Alla loro età i giovani operai sono capaci di
aprirsi a tutto, ma soprattutto al pentimento dei propri peccati oppure ai
problemi sociali.
In montagna il muro.
E’ cosa che tra i preti si sente lamentare da
per tutto.
Tutti sanno che se un prete di città si
trovasse in una qualsiasi chiesa di montagna a confessare i giovani e facesse
loro la più pudica domanda oltre il terzo Comandamento, guai a lui.
A lui i giovani risponderanno di no, che tutto
va bene, che hanno già detto tutto, fingeranno
perfino di non capire cosa voglia dire, lo faranno passare da imbecille,
da patologicamente curioso.
A caso poi lo bolleranno: ‘Da quel prete non
mi confesso più, vuol saper troppe cose’. Ma a lui così non diranno mai e a
confessarsi torneranno egualmente. E
seguiteranno a fissarlo coi loro occhi gelidi, impenetrabili come se lo
giudicassero. Occhi che non s’abbassano, occhi senza pudore, senza dolore,
senza esame di coscienza, occhi a muraglia.
E se il prete sarà costretto a battere in
ritirata, a vergognarsi d’aver osato, a domandarsi se forse non possa esser
vero, se forse la montagna non sia un’isola di purezza in un mondo impuro, per
poi venire a sapere il giorno dopo le più turpi cose dalle chiacchiere dei
bambini, dagli incidenti estremi, dalle chiacchiere di chi vuol vendicarsi di
un vicino. Tutta la rosa dei peccati è rappresentata sui monti, dai più
patologici ai più normali, in tutte le età, in tutte le famiglie.
E il prete lì in quella bara che è un
confessionale dove non palpita la vita vera di nessun peccatore. Dove ognuno
che viene dice solo: ‘Ho mandato quale ‘resia, ho perso qualche Messa’ ed è lo
stesso come se venisse a gridargli in faccia:‘Non credo in Dio, non credo in
questo Sacramento, non me ne importa di esser perdonato, non penso di aver
nulla da farmi perdonare, non mi fido di te, ti confesso le bestemmie perché le
bestemmie sono cosa insignificante, ma non ti confesserò nulla che sia vita mia
vera di quella che mi preme e che non deve interessare né a te né a Dio, vengo
perché son sempre venuto, vengo perché a Pasqua bisogna venire, vengo blindato,
impenetrabile, non mi scoscenderai neanche con le mine’.
Ah sapessero almeno fare questo discorso
crudele. Sapessero farlo almeno dentro
di sé, ma non sanno. Son muti anche con sé stessi. Infelici!
E noi bisogna insaccare il capo e tacere,
bisogna rincantucciarsi nella preghiera, nell’esame di coscienza nostro,
ripetere al Signore la nostra fede nella libertà dell’uomo, nella libertà della
Grazia di Dio, nella nostra incapacità a comprendere il mistero della salvezza
individuale in cui Dio solo legge.
Bisogna stare in confessionale come sta un
certosino nella sua cella, a esercitarvi l’identico lavoro di distacco dalle
cose terrene, dalla pretesa di intervenire
terrenamente nelle cose terrene,
dalla pretesa di conoscere qualcosa, oppure di pensar qualcosa o di decidere
qualcosa o di fare qualcosa.
Sì, così facciamo perché siamo buoni, ma
possibile che Dio ci chieda questo solo? Possibile che ci vesta da parroci per
poi volerci trappisti? Che ci metta in mano dei mezzi solo perché si rinunzi a
usarli?
Non
c’eri te quel giorno del Corpus Domini alla Messa delle 11 quando col cuore
ormai colmo di sofferenza e di affetto parlai al mio popolo.
Dissi parole che i loro bambini intendevano a
una a una e nel loro insieme. Non parlai un linguaggio da intellettuale o
indecifrabile. Mi credi tanto stupido e tanto letterato da non sapere (dopo
anni che vivo tra loro) allineare solo parole facili, aperte, senza segreti,
senza pretese. Parole che non suppongono altra cultura precedente. Parole
identiche a quelle che essi si scambiano tra loro tutti i giorni per parlar di
vacche, del campo e della casa. Alcuni mi hanno inteso infatti e m’hanno
odiato. Altri non potevano neanche intendermi, poveretti. Intendevano le
singole parole e le singole proposizioni. Ma concatenarle in mente, seguire un
filo di pensiero, questo è un’altra cosa.
- ‘Prendete e mangiate’ vuol
dire far la Comunione.
‘Fate questo per ricordo di
me’ vuol dire Messa.
Messa e Comunione le due cose
che voi lasciate sempre, o quasi, le ha comandate il Signore chiaro chiaro.
Della Processione il Signore non ha parlato.
E’ un’invenzione d’uomini. Una piccolissima cosa. Non è necessaria. Non è nulla a petto di
quell’altre due. Ecco voi ora volte ancora una volta venire in massa alla Processione. Volete
parteciparvi in cappa, portare i segni e il baldacchino, volete far atti di
onore al Signore, a quel Signore che vi rifiutato poi di obbedire nelle più
semplici e serie cose.
‘Prendete e mangiate’. ‘No’.
‘Chi non mangia il mio Corpo
non avrà la Vita Eterna’. ‘Non ce ne importa’.
‘Fate questo in ricordo della mia morte per voi’.
‘No, non ci s’ha usanza, si
passerebbe per strani. Noi si vien la sera in cappa a reggere lo stendardo e
gli altri segni’.
Ma figlioli, io n on vi chiedo poi tanto.
Non vi chiedo di venire a confessarvi, non
vi chiedo di fare la Comunione, non vi chiedo di venire a Messa.
Siete adulti, se queste cose non vi vanno, se
non le intendete, girate al largo.
A me col venirci, finché non le intendete, non
fate piacere certo. Al Signore nemmeno, io credo.
E dunque fatemi solo questo di non venire
neanche a turbarmi la pace della Processione. Lasciatemici andare coi vostri
bambini che son fratelli miei davvero e m’intendono.
Lo stendardo se non lo porterete lo lasceremo
lì al muro. Domani quando i vostri bambini saranno più grandi e lo potranno, lo
porteranno loro.
Per ora lasciateci girare così per questi
boschi senza stendardo e senza baldacchino, soli, pochi, piccini, ma cristiani.
Io e loro che amiamo il Signore, e che
osserviamo per quanto possiamo i suoi grossi comandamenti. O per lo meno: che
desideriamo osservarli, e ci pentiamo quando non ci riesce e si cerca nei
Sacramenti il suo perdono. Lasciateci in pace a compiere con gioia anche questa
cosa che il Signore non ci aveva chiesta, ma che noi gli regaliamo in più come segno d’affetto-.
Mi rispondono con l’unica parola che sanno
dire: il broncio.
Un broncio, cieco sordo e muto.
E poi con quell’altra arma segreta di chi non
sa parlare: il fatto compiuto. Preparare ogni cosa, anche le cose più semplici,
nell’ombra del segreto e poi farla di sorpresa e attendere che tu la sappia da
altri o che tu la veda da te quando ormai non c’è più nulla da farci e le
lagnanze e le parole che tu potrai dirci sopra con la tua arte infernale
batteranno in un muro solido come l’acciaio: è tardi. Il fatto compiuto. L’arma
del gatto. L’arma degli infelici.
Per esempio quella sera, dopo un discorso così
chiaro e così offensivo, quando ti saresti atteso un deserto in processione,
invece erano lì, s’erano spartiti le cariche come sempre, s’erano messe le
cappe. Non ne mancava uno. Non ce ne fu uno che stesse a casa anche solo a
mostrarmi che la mia parola, di bene o di male che fosse, avesse mosso o
cambiato qualche cosa. Guai se la parola avesse questo potere! Dove mai s’andrebbe
a finire?
Ma fosse tutto qui il male, fossero chiusi
solo al pensiero e avessero un cuore traboccante d’amore.
Ma non hanno neanche questo. Son chiusi in sé
stessi, nell’egoismo più elementare. L’egoismo dell’infante e della belva. L’egoismo
che giunge all’amore per i figlioli. Ci giunge per istinto come nel bruto. Non
conosce l’amore per altri. Neanche per i genitori. Perché in questo l’istinto vale poco (e
difatti c’è occorso un comandamento, mentre sull’amore materno un comandamento
sarebbe parso superfluo anche a un’elefantessa).
Questo egoismo da giungla è tutto ciò che si
può trovare in un uomo quando non l’ha raggiunto l’influsso vivificatore della
parola, cioè del mezzo per ricevere l’apporto dei suoi simili e soprattutto
quello dei suoi simili migliori di lui e più ancora quello di Un suo Simile che
è Parola e che s’è fatto Carne cioè Parola Incarnata per essere Parola più
convincente. E che poi ha posto un Libro come fondamento della nostra
elevazione e un Magistero per l’interpretazione di quel Libro e poi dei
Sacramenti che sono in sé stessi più che quel Libro e più che quel Magistero,
ma che pure non si possono affrontare neanche loro senza l’anticamera della
Parola (e del catechismo).
Da tutto questo son tagliati fuori questi
infelici e non solo per il loro non posseder la parola abbastanza (insisto però
su questo concetto, perché son sicuro che proprio manca loro materialmente un
possesso sufficiente della parola), ma soprattutto per non volerla possedere,
per non volerle dar luogo nella vita, per non aver conosciuto la sua dignità
vivificatrice, la sua capacità di piegare, di trasformare, di costruire.
Forse nel subcosciente ognuno di loro sa cos’è
la parola e la ragione e forse ha indovinato anche troppo ciò che la ragione
può far nascere in lui.
Forse ha già capito che se le aprisse l’anima,
se la lasciasse penetrare fino a quel recondito regno dell’io dove si prendono
le decisioni di vita, allora dal primo giorno in poi gli toccherebbe differenziarsi dai suo vicini, per esempio
mutare atteggiamento di fronte ai Sacramenti, oppure di fronte ai divertimenti
o alla politica, fare, dire, pensare qualcosa che gli altri nel popolo non
pensano, non dicono, non fanno.
E questo gli fa paura. Perché sa che per
differenziarsi occorre poi posseder la parola in modo da potersi difendere. Non
sarà più come ora che fa come tutti e quindi vive proprio bene anche muto e
bendato.
Tra loro, per aver osato parlare, son guardato
come un intruso. Uomo senza tatto, né gusto, né discernimento, né educazione.
Un uomo che vuol parlare, un uomo che pretende che le parole corrispondano al
pensiero, che costruiscano cose, che trasformino situazioni, persone, idee,
usanze, turbino equilibri secolari.
Mi sopportano solo per la
passione che hanno perché i loro figli vengano a scuola. Passione che è l’unico
aspetto ancora umano in loro e che non cade solo perché è abbarbicata in
quell’altra passione, superiore a ogn’altra, del voler scappare dai monti e
rifarsi una parità sociale.
In una famiglia modello, l’unica del popolo in
cui si dica ogni sera la Corona, dove c’è una vecchietta che va a Messa ogni
giorno e c’è santi a tutte le pareti (specialmente nella stalla), dove si sa
storie di preti e di uffizi e si conosce i priori e i poderi di decine di chiese,
dove però la Comunione è ridotta ferramente alla Pasqua e la confessione
s’intende solo per quella; in questa diabolica famiglia mi provai a far notare
garbatamente qualcosa.
Mi risposero con freddezza aggressiva:
‘La nostra famiglia è
rammentata da per tutto per cristiana. Lei vada da tutti i preti che ci hanno
conosciuto nel Firenzuolino e da per tutto dove siamo stati. E le diranno chi
siamo noi e chi erano i nostri nonni. Tutti cristiani dei primi in tutte le
chiese. Ma in tant’anni che frequento la chiesa io un’osservazione da un prete
non l’avevo avuta mai’.
Vorrebbero ridurti a un funzionario. non sopportano che tu sia uomo, non
sopportano che tu voglia intervenire nel tran tran della vita, che tu voglia
smuovere le cose ferme. sovvertire un ordine che si son dati e che di cristiano
non ha più nulla.
Si, insisto. Nulla. Perché cosa ci può
essere di cristiano là dove si rifiuta
al prete questo diritto di avvertire, di parlare, di scuotere? Ma che dico al
prete. Là dove si rifiuta alla Parola di penetrare. E al pensiero, alla
ragione. Dove si rifiuta alla Religione
stessa d’entrare nei fatti della vita.
Cos’ha di cristiano una fede che osserva il
rito (e non tutto) e poi fuori di quello non vuol essere turbata in nulla? Non
è questa la fede degli egiziani e dei romani? Fede in Dio senza addentellati in
nessun comandamento di vita, ma solo in comandamenti di rito.
Hanno votato per il comunismo. E i preti sono
cascati dalle nuvole. E’ parso loro un mostro improvviso, imprevedibile,
inspiegabile. Han pensato che certo deve essere venuto da fuori con diaboliche
arti.
Macché! Macché da fuori. Macché nuovo. Era da
secoli che il loro cuore si rifiutava a qualsiasi intervento del Cristo e della
Chiesa nella loro vita e ora ci meraviglieremo per questa pisciatela che è un
voto?
Fosse tutto lì il male. E invece non è che un
campanello che ci avverte di cose che bastava aprir gli occhi per vederle già
da tanto tempo nude e crudeli distese quotidianamente dinanzi ai nostri occhi.
Quando un uomo viene a ‘confessarsi’ e si
rifiuta di confessarsi. Quando questo rifiuto è così profondo che non c’è
neanche da provarsi a interrogare perché sappiamo benissimo che non solo non
confesserà i suoi peccati, ma che non si sentirà in colpa, neanche avrà quel
tono umile di chi sa di aver sbagliato due volte una volta nel peccato e la
seconda nel negarlo. Quando sappiamo invece che si sentirà interiormente sicuro
di sé, giudice del pretino ficcanaso, parte offesa da questa curiosità ingiusta
su cose che appartengono al regno intoccabile dei ‘fatti suoi’ dei fatti che
non deve conoscere nessuno all’infuori di eventuali complici. Quando manca
ancora anche il primo gradino del pentimento cioè il concetto di peccato (il
sentirsi creatura di Un Altro che ha diritto di pórci legge e potere di
punirci), quando manca interiormente anche il senso del dovere d’arrendersi a
chi ci ha creati, d’umiliarsi a una volontà che è diversa, anzi spesso in
contrasto, con l’usanza d’altri. Quando s’è interiormente giurato di non
umiliarsi a nessuna altra legge che che quella che pone l’usanza del prossimo e
che è l’unica legge che non è ‘strana’
perché è la legge di tutti. Quando un
uomo incolto sa per sua esperienza (o crede di sapere) che tutti i diciottenne
vanno in determinati luoghi, che tutti i fidanzati fanno determinate azioni,
che tutti gli sposi fanno altre determinate azioni, che tutti i
commercianti dicono determinate bugie,
che tutti gli uomini agiscono solo per un determinato loro interesse, allora
chiama legge tutto questo e stranezza
una legge che con tutto questo contrastasse.
Allora penserà che il prete predica
quest’altra strana legge solo per dovere professionale, ma senza la
minima convinzione, perché è un uomo di
mondo anche lui e sa bene che il mondo non è al quel modo. Quando un uomo ‘ragiona’
così, cioè non ragiona e non si vede spiragli per cui farlo salire a
un’atmosfera più respirabile per noi, allora non bisogna confessarlo, né
chiamarlo a una predica, né dargli in nessun modo la tessera di cristiano, né
illuderlo in nessun modo che tra lui e la Chiesa, tra lui e Dio ci sia possibilità di accomodamento. Perché
accomodamento non di sarà se non nel miracolo.
Ma quando parroci, cioè
corresponsabili terreni di questo groviglio di irrazionalità ci presenteremo a Dio
a chiedergli il miracolo della conversione dei contadini, non ci sentiremo
forse rispondere che il miracolo verrà per i contadini innocenti perché
bestioni, perché incapaci di rendersi conto di qualcosa, ma non verrà per il
prete che ha avuto inestimabili doni di intelligenza e di parola e di cultura e
non li ha usati per farne parte ai bestioni né per correggere il proprio agire
pastorale?
Concludendo: io non sono fratello di gente che
si fa un’etica della bugia, della chiusura, del rifiuto del ragionamento,
dell’abbassarsi metodico alle usanze, all’eguaglianza col prossimo. Di gente
che vive nel terrore dei vicini, di gente che non sa, non dico fare, ma neanche
seguire un ragionamento filato e perciò ignora ogni principio fuorché
quell’unico principio di far come gli altri. Di gente per cui in predica io non
posso neanche usare l’aulica formula cappuccinesca: ‘Fratelli, i nostri peccati…’. Quali? Io non ho peccati
in comune col mio popolo. I miei peccati e i suoi non sono neanche parenti. I
suoi atti non sono né bene né male. Non sono nulla.
Tra una gente senza dolore dei propri peccati,
anzi peggio tra una gente senza peccati e me non c’è nulla in comune e ci manca
anche il linguaggio col quale qualcosa
di comune se non c’è si crea.
Ora, se questo qualcosa di comune si dovrà
creare, io mi rifiuto di crearlo al loro livello.
Son loro che devono diventare miei simili e
miei pari.
Ecco perché per ora non faccio con convinzione
altro che scuola.
Non che io abbia della cultura una fiducia
magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori
universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso
assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi
monti.
E’ che i professori se vogliono possono
prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intenderli. Dopo poi
potranno fare il diavolo se vorranno: buttarli dalla finestra o mettersi nel
cuore, s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro.
Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi
trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se
pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola? I
missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno suola della parola per anni e
poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente
sacerdotale.
Domani poi, tra questi sordomuti ritornati
alla luce della parola, ci saranno santi e dannati. E quel giorno la
responsabilità della salvezza ricadrà su ognuno di loro come è nell’economia
normale della Salvezza. Ma se invece mi rifiuto di creare questo ponte, allora
per loro non ci sarebbe che il Limbo dei bambini e per me il castigo di chi non
ha fatto il suo dovere.
Lo stesso avviene quassù in montagna: con la
scuola non li potrò fare cristiani, ma li potrò fare uomini; a uomini potrò
spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi
tutti e 1000, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà
ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli
evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare
ed io non me la sento di dirgli che ho predicato quando ho la certezza che per
ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili,
parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare.
Anche i miei predecessori lo sapevano e han
seguitato ugualmente a parlare al muro che si vedevano intorno. Hanno sperato
di potersi presentare al Signore con titolo legale: ’Ho predicato a dei
battezzati, non mi hanno ascoltato’.
Mi dispiace di aver dovuto toccare questo
tasto delicato e crudele, ma bisogna ben chiarire le cose con freddezza di
chirurgo. Auguro loro che Dio li accolga nella sua infinita misericordia e si
contenti. Ma non mi contenterò io, dinanzi a lui, ormai che ho inteso, di un
gioco di parole e di legalità osservate di cui la mia coscienza d’uomo, di
cristiano e di sacerdote non si appaga.
Dopo queste premesse mi pare di poter dire che
la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi
possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che
non sia la parola per i missionari dell’istituto Gualandi o la lingua per i
missionari in Cina.
Domani invece, quando la scuola avrà riportato
alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto
secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un rettorico
senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di
linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e
Sacramenti.
Per ora questa attività direttamente
sacerdotale mi è preclusa dall’abisso di
dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nella scuola (Nota :Ho detto
hic et nunc e nulla più. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i
problemi si presentano in modi diversi mi lascino dire. Ciò che dico servirà
per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a questa).
E credi, non è più solo un progetto o una
speranza. Ho già visto qualcosa. In questi pochi anni da che son qui, la scuola
ai giovanotti ancora brancola nel buio di una distanza secolare di civiltà
diverse. Ma coi bambini è un’altra cosa.
Con loro parlo ormai davvero come a miei pari.
E non c’è cosa ch’io voglia dir loro
alta o bella o nuova e ch’io non riesca a far giungere alle loro menti.
E non c’è cosa che abbiano in mente e che non riescano a spiegarmi.
Tre anni di grammatica e di lingua con loro mi
son bastati. E ora vibrano a tutto quel che pare a me, alla cultura, al
pensiero, alla fede.
E già guardano i loro genitori con una pietà
accorata di giudici e di superiori. Si sono affacciati ormai al mio mondo, sono
ormai di quelli che la tua ispettrice chiama ‘spostati’. Sì, spostati ormai per
tutta la vita, non torneranno più indietro”.»