Un’umanità nuova
Non sempre la teologia
mostra chiara consapevolezza che siamo un’umanità veramente nuova.
Innanzi tutto siamo in tanti di più. Negli
anni ’70, quando frequentai le scuole superiori, si pensava con timore a quando
saremmo stati in otto miliardi, ed invece eccoci qua, andiamo avanti anche
così. Ma non solo: sempre più società hanno conquistato un certo benessere
diffuso: l’esempio più eclatante è quello della Cina continentale, dove il
raggiungimento di un moderato benessere per tutti è diventato uno
dei principali obiettivi del sistema di governo, e si è dichiarato di aver
raggiunto l’anno scorso una importante tappa intermedia, con l’eliminazione
delle sacche di povertà estrema. Riguarda quasi un miliardo e mezzo di persone.
Infine, la condizione di pace tra i sistemi politici, oltre che al loro
interno, è considerata ora come un obiettivo politico concreto non solo
desiderabile, ma anche conseguibile storicamente. Nel recente passato la guerra
venne invece considerata come un potente fattore di rigenerazione sociale. E
anche le confessioni cristiane sembravano aver poco da dire in merito. Addirittura,
in epoca medievale la guerra per
la riconquista della cosiddetta Terra santa fu considerata una via
penitenziale verso la santità personale, nonostante che essa non corrispondesse
assolutamente a nessun comando evangelico. In altre parole, il Maestro non ci
ordinò di conquistare né Gerusalemme né Roma, né Nazaret né Betlemme, né
nessun altro posto del mondo, ma
καθὼς ἠγάπησέν με ὁ πατήρ, κἀγὼ ⸂ὑμᾶς ἠγάπησα⸃, μείνατε ἐν τῇ ἀγάπῃ τῇ ἐμῇ - kathòs egàpesen me o
patèr, kagò umàs egàpesa, mèinate en te agàpe
te emè -Come
il Padre ha amato me, così io ho amato voi: rimanete nel mio amore
[…]
Αὕτη ἐστὶν ἡ ἐντολὴ ἡ ἐμὴ ἵνα ἀγαπᾶτε ἀλλήλους καθὼς ἠγάπησα ὑμᾶς· -
àute estìn e emè ìna agamáte allèlous kathòs egàpesa umàs - Il mio comandamento è questo: amatevi gli uni gli
altri come io ho amato voi.
[dal Vangelo secondo Giovanni,
capitolo 15, versetto 9 e 12 – testo in greco antico, translitterazione in
italiano, traduzione secondo TILC – Traduzione interconfessionale in
lingua corrente]
Dove agápe, che traduciamo in
italiano con amore, non significa tanto un sentimento, ma la pratica
della benevolenza, della solidarietà e della sollecitudine reciproche, dove si
cerca di anticipare le esigenze degli altri, come si fa con gli invitati ad un
lieto convito.
L’agàpe ci è stata
ordinata come fattore di trasformazione sociale, per essere, collettivamente, diversi.
La pace, come oggi la si teorizza e si cerca di costruire, è strettamente
collegata al comandamento dell’agápe e, quindi, alla presenza dei
cristiani nel mondo.
Negli anni ’70 si prevedeva che
un’umanitá di otto miliardi di persone sarebbe finita sconvolta da guerre
totali terminali, perché non si pensava che si potesse andare d’accordo in così
tanti, tutti così tanto attaccati ai propri egoismi collettivi e disposti a
tutto per soddisfarli. Possiamo facilmente constatare che i profeti di
sventura, come li definì papa Roncalli – Giovanni 23º, non videro giusto.
Eppure la possibilità che finisse molto male c’era sicuramente! Perché (ancora)
non è andata così? È che realmente si è stati diversi dal nostro
tremendo passato. Eppure trattando di sinodalità è proprio da quel
passato, inteso come fonte di una tradizione normativa, che si cerca di
trovare i principi per organizzare il nuovo. Questo è il metodo di una teologia
dogmatica che si è fatta insegnare il metodo di lavoro dalle scienze
giuridiche: ciò non risale alle origini, ma agli inizi del Secondo millennio,
quando teologia e diritto divennero insegnamenti universitari e, in Occidente,
adottarono come proprio gergo il latino delle scienze (lingua che rimase tale
fino ad inizio Ottocento), divenendo incomprensibili alla gran parte del
popolo. La liberazione della fede dal latino curiale fu ciò che consentì la
ripresa di un protagonismo popolare nella vita religiosa, ciò che nella nostra
Chiesa avvenne molto tardi, negli scorsi anni sessanta, dopo oltre secoli di
spietata repressione clericale.
Eppure, ecco che vedo alcuni ai quali, al
sentir pregare e cantare in latino, si inumidisce il ciglio. E questo anche se
non siamo proprio sicuri che il Maestro intendesse quella lingua. Non ci è
detto in che lingua parlò con Ponzio Pilato, quando gli fu messo davanti. Invece
nei Vangeli sono riferiti su parole in aramaico,lingua corrente nella Galilea e
Giudea di allora.
In merito, trascrivo un interessante articolo
di Rinaldo Fabris, pubblicato su Avvenire del 7 aprile 2020, con il
titolo “Aramaico,
ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?”
In che
lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua
morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi,
può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso
per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella
dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto
innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli
quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma
anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari
pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico,
parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei
che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era
invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio
babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un
po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano
lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il
napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle
comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di
dialetto.
Gesù parlava solo l'aramaico?
Tra
queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la
predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come
ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella
Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in
greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a
quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel
Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai
abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e
Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura
della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui
Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla
morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo
riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto
è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che
abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente
aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra
l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come
attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt
26,73) proprio a motivo di come parlava.
L'aramaico, scelta di incarnazione
Questo
fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale
per tutti gli aspetti della vita.Gesù si esprime in un idioma che tutti
possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi
proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”,
conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come
direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava
battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La
trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle
coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e
nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino
abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull'ebraico e il greco
Ciò che
resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno
l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un
simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel
2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un
incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico».
«Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò:
«Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di
là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio
così? Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli
non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse
leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella
sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può
essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della
Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il
frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù
è il Messia.
Tuttavia
questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista
e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti
che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo
cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la
situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con
capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche
tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come
interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato
in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al
greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato
che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode
Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i
mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così
come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più
possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione
romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo – afferma - avrebbe usato
il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion.
Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed
usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con
l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa
menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato
fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può
essere stata considerata superflua.
L'importanza del greco per l'evangelizzazione
Il greco
però sicuramente entra in scena – e pesantemente – dopo la risurrezione.
Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del
Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo
punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare
evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità
del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno
di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che
diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo
annuncio del Nazareno. A quel punto l'idioma originale parlato da da Gesù
diventa secondario, quasi ininfluente. "Siamo Parti, Medi, Elamìti e
abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e
dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia
vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li
udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio",
esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di
Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la
doppia regola dell'incarnazione e dell'universalizzazione del messaggio della
salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior
numero di lingue al mondo.
Tutti concentrati sulla ricostruzione a fini
di politica ecclesiale di una tradizione che a
volte appare un po’ fantasiosa, spesso siamo
distolti dal considerare quali rilevantissimi elementi di novità e di rottura
con preesistenti tradizioni religiose i cristianesimi delle origini
costituirono e, va aggiunto, come anche i successivi cristianesimi furono. Del
resto, in fondo al libro dell’Apocalisse non ci è stato promesso di far
nuove tutte le cose? Considerando realisticamente la storia dei
cristianesimi, e non con i paraocchi ideologici, proprio il costante
rinnovamento ci appare come l’elemento tradizionale più forte nella
nostra tradizione religiosa.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli