Sinodalità come costruzione di un mondo vitale
Non tutti i discorsi che si fanno sugli esseri umani nelle loro
relazioni soprannaturali sono teologia. Quest’ultima ha essenzialmente funzioni
politiche e quindi di solito mira a cambiare come la gente è. Ha imparato a ragionare
dalle scienze giuridiche, ma, a differenza di queste ultime, fa poco conto
sulla realtà sociale. Un giurista sa bene che il diritto è una produzione
sociale, un teologo pensa di solito che scenda dal Cielo. Un giurista sa
distinguere il suo lavoro da quello di un legislatore, un teologo no. Un
giurista cerca il diritto nella
società, un teologo vuole imporglielo. Tutto ciò determina che il teologo di
solito non sa parlare alla società in modo coinvolgente e la sua antropologia
appare un po’ campata in aria, mentre quella che si pratica come disciplina
propriamente scientifica ragiona su osservazioni sul campo. Questo appare
evidente quando i teologi pretendono di insegnare a noi, popolo, la sinodalità.
La sinodalità immaginata dai teologi non è
praticabile, così come molta parte dell’etica da loro elaborata. Parte
dall’assioma secondo il quale noi, per realizzare la giusta sinodalità,
dovremmo compenetrarci gli uni gli altri sull’esempio di ciò che accade nelle
dinamiche trinitarie. Per cercare di rendere un’idea di queste ultima parlano
di pericorèsi, dal greco antico περιχώρησις che si legge pericòresis
e che richiama l’idea del ruotare intorno. Nella sinodalità dovremmo
realizzare una pericoresi che non è nelle nostre possibilità attuare, anche
con l’assistenza dello Spirito, che liturgicamente si invoca nelle occasioni
sinodali. Ciò risulta dall’esperienza storica e può facilmente essere
riscontrato da chi cerchi di fare pratica di sinodalità. Così la sinodalità che
riusciamo a impersonare di solito scontenta i teologi, i quali dal canto loro
mi sembrano ben poco capaci dei pericoresi, del resto secondo i costumi
degli ambienti universitari. Naturalmente se la prendono a male se glielo si
dice. E questa teologia poco pratica di umanità si mette di mezzo tra noi e il
clero, perché quest’ultimo è abituato, per specifica formazione, a servirsene
nel suo ministero. Del resto il diritto canonico, che sotto certi aspetti, in
particolare dal nostro punto di vista di persone laiche, possiamo considerare
una micidiale mistura di teologia, autocrazia e gergo giuridico, strutturata
per dare sempre ragione a chi nella gerarchia sta più in alto, pare
indispensabile per metterci in riga in ogni campo, compreso quello della
sinodalità. Il risultato è una certa disumanità che si percepisce quando ci si fanno certi
discorsi. Noi persone laiche, però, non dovremmo lasciarceli fare. Se spesso
non reagiamo è perché, in definitiva, basta passare il limite del sagrato per
uscirne fuori anche ideologicamente: all’esterno le regole sono diverse, si
torna nella realtà. Un tempo non era
così e, se non si aveva l’accortezza di una certa ipocrisia, si veniva
duramente colpiti dallo stigma sociale.
Bisogna
essere chiari: praticando veramente la sinodalità non si riuscirà mai ad essere totalmente d’accordo. Ma di più: non
riusciremo nemmeno a volerci, tutti, bene, in particolare come
fratelli. Questo perché di mezzo ci sono le emozioni e sono esse a
determinarci, non gli argomenti ragionevoli. Anche ciò che definiamo spiritualità
è fatta di emozioni. Non ci possiamo fare nulla, perché per natura siamo fatti così, e lo siamo da circa
duecentomila anni: ne dovrebbero passare altrettanti per essere veramente
diversi.
Del
resto, come osservano psicologi e sociologi, lo spirito di fraternità divide,
isola. La fraternità universale non è alla nostra portata. La fraternità può
essere solo particolare: di solito si nasce fratelli, talvolta si cerca
di diventarlo, ma il risultato è sempre quello di un gruppo di fratelli
che si separa dal resto della gente, così come accade che un gruppo familiare
si distanzia dagli altri. La fraternità è caratterizzata da relazioni interpersonali
molto più forti e noi, per nostri limiti
cognitivi, non siamo capace di intrattenerle se non in un gruppi limitati, tra
le persone che sono in grado di chiamarsi per nome. L’antropologo
Robin Dunbar, sulla base dell’osservazione condotta su specifici test, ha
fissato in più o meno 150 il numero di persone con le quali siamo in grado di
sviluppare relazioni che definiamo fraterne.
οὐκέτι ⸂λέγω ὑμᾶς⸃ δούλους, ὅτι ὁ δοῦλος οὐκ οἶδεν τί ποιεῖ αὐτοῦ ὁ κύριος· ὑμᾶς δὲ εἴρηκα φίλους, ὅτι πάντα ἃ ἤκουσα παρὰ τοῦ πατρός μου ἐγνώρισα ὑμῖν. – ukèti lego
umàs dùlus, oti o dàlos uk òiden ti poièi autù o kùrios: umàs de èireka fìlus,
oti panta a èkusa parà tu patròs mu evnàrisa umin - Io non vi chiamo più
schiavi, perché lo schiavo non sa che cosa fa il suo padrone. Vi ho chiamati amici,
perché vi ho fatto sapere tutto quel che ho udito dal Padre mio. [dal Vangelo
secondo Giovanni, capitolo 15, versetto 15 – Gv 15,15 – testo in greco antico –
translitterazione in italiano del greco antico – traduzione TILC – Traduzione
interconfessionale in lingua corrente].
Questo brano
evangelico è molto importante, perché definisce la nostra condizione in
religione, che non è quella di schiavi, in particolare anche nei confronti
della gerarchia del clero. Non lo siamo nei confronti del Maestro e, maggior ragione, non lo,siamo, e non dobbiamo esserlo, davanti a chi da lui ci è stato mandato per servire. Realizzare l’agàpe evangelica da amici consente di
costruire reti più vaste di benevolenza e solidarietà rispetto a quelle in cui
si vorrebbe farlo da fratelli. Qui è però sempre questione di reciprocità:
per essere fratelli e amici
non basta volerlo essere, è necessario anche essere riconosciuti come tali dalle persone con le quali si cerca
di instaurare queste relazioni più forti e intense. Ma nell’amicizia occorre
impegnare un po’ meno di noi che nella fratellanza. Abbiamo quindi spazio più per amici che per fratello. Comunque rimane che ogni persona ha un
limite in ciò che di sé può impegnare in questi legami più forti. In questo siamo una risorsa scarsa. Ciò deriva
da come siamo fatti, dal nostro organismo e quindi da sono come la mente e le
emozioni ne derivano. Un teologo può astrarre disinvoltamente da questo,
perché, fondamentalmente, ragiona su concetti, su astrazioni, e non su esseri
umani così come realmente sono. Ma nel cercare di praticare la sinodalità ne dobbiamo invece tener conto,
altrimenti la costruzione sociale non ci riesce.
Non potremmo mai
arrivare ad essere amici delle
circa ottomila persone che fanno riferimento alla nostra parrocchia nella loro
vita di fede, anche se ci vengono poco o anche quasi mai. Però potremmo
assumere un atteggiamento amichevole verso tutte loro, proponendoci di migliorare
queste relazioni conoscendoci meglio. Qui allora diventa questione di metodo.
Non è diverso da quando cerchiamo di familiarizzare con degli sconosciuti. Condividere
le narrazioni della fede, permeate da un’intensa spiritualità e dunque da
potenti emozioni di relazione, può rendere la cosa più semplice, sempre che si
utilizzi la spiritualità adeguata. Perché c’è anche una spiritualità di
esclusione secondo la quale le altre persone vengono demonizzate, nel vero senso della parola, se, ad esempio, non decidono di sottomettersi.
Ragionandoci sopra si può capire che questo è in contrasto con la spiritualità
del “vi ho chiamato amici”, ma dobbiamo essere
consapevoli che questo non è stato, e ancora talvolta non è, un ostacolo per
alcuni gruppi cristiani nel demonizzare.
Di solito in
parrocchia non mi pare che si dia molta importanza al metodo, alle procedure,
pensando che basti colorare gli incontri con una certa spiritualità per
risolvere i problemi. Errore. L’esperienza insegna che non è sufficiente.
Sotto questo punto di
vista il metodo che abbiamo seguito nella recente assemblea sinodale andrebbe
corretto. E’ molto evidente che ci si è incontrati, ma che, congedandosi gli
uni dagli altri, non abbiamo creato i presupposti per approfondire l’amicizia,
figuriamoci la fratellanza. A parte le persone che conoscevamo di vista, o anche più
approfonditamente, già prima, probabilmente ci è rimasta una vaga immagine di
chi c’era nell’assemblea plenaria, ma anche nell’incontro successivo per gruppi
(ne abbiamo costituiti tre, ciascuno con circa 12 persone). Ecco una
raccomandazione molto importante: lasciandoci dopo essersi incontrati occorre
scambiarsi i dati di contatto. E poi anche creare i presupposti per
ulteriori incontro, stabilendo un programma. La via migliore per riuscirci, e
parlo facendo riferimento alla mia antica militanza da scout, è quella di
assegnare a ciascuna persona una mansione, al servizio del gruppo, per la volta
successiva. E nominare più persone (mai non
una sola!) perché facciano da coordinatrici. Le coordinatrici dovrebbero
variare periodicamente, ma con quelle persone si può costituire l’embrione di
un’organizzazione sinodale, vale a dire un comitato di coordinamento. La parola comitato ci giunge
da latino comes, che significa compagno di viaggio. In effetti, con
il metodo che ho indicato la funzione crea l’amicizia. Così si esce dal
vago sentimentalismo, si impara a contare gli uni sugli altri.
Incidentalmente, noto
che nel mio gruppo sinodale era
presente uno dei nostri preti che, invitato a dire la propria (poi l’ha detta),
all’inizio ha detto di essere lì solo per osservare. Naturalmente è
apprezzabile che il prete non voglia comandare in un gruppo sinodale, ma chiamarsi fuori del
tutto significa anche separarsi dal popolo lì riunito e così, anche inconsapevolmente, si
ricade nel clericalismo, che significa proprio separare clero e popolo per poi porre il clero gerarchicamente
sopra il popolo, riducendolo così,
sostanzialmente, a schiavo, perché privo di qualsiasi possibilità di reale
partecipazione nel decidere. È schiavo chi è totalmente in mani altrui. Il prete è parte di ciò che, nel gergo teologico,
chiamiamo Popolo di Dio.
Sognarsi
teologicamente fratelli e amici è molto semplice, ma, finché non si creano le
giuste procedure, si tratta solo di fantasticherie. Volete sognare o praticare la sinodalità?
Alla fine,
proseguendo sulla via della sinodalità, si può arrivare anche a sperimentare
una certa fraternità. Questo accade quando, nel bisogno, si riceve dalle altre
persone la solidarietà che ci si aspetta da un fratello, o anche solo da un
buon amico. E’ un’esperienza psicologicamente molto forte e ne riferirono
spesso quelli che si trovarono in situazioni di guerra combattendo, come si
dice, spalla a spalla. La guerra è un’esperienza terrificante, va detto,
ma quel fatto di constatare di poter contare sugli altri, a costo della vita, lega moltissimo e storicamente è stato alla base
del reducismo, e anche della spiritualità
laica di chi ha solo militato, anche in tempo di pace, in certe
unità militari, come gli Alpini. A quel punto si crea quello che mio zio
Achille, nel suo libro Crisi di governabilità e mondi vitali, del 1980,
definì mondo vitale, vale a dire il gruppo di prossimità nel quale ogni
persona trova il senso della vita.
Alla radice della
disaffezione all’esperienza sociale in parrocchia vi è appunto il fatto che
essa non è più, per tante persone di fede, una realtà di mondo vitale.
La pratica assidua ed efficace della sinodalità potrebbe contribuire a
ripristinarla come tale.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma,
Monte Sacro, Valli.