Sinodalità in chiave natalizia
1. Quest’anno celebriamo il Natale nel corso dei cammini sinodali e questo influisce sui discorsi che si vanno facendo di questi tempi in materia di sinodalità.
Benché il Natale sia stato storicamente costruito come una grande festa, clero e religiosi di solito ci rampognano che non lo festeggiamo bene. Siamo troppo chiassosi, spendaccioni, ci mettiamo poca spiritualità. I predicatori, allora, entrano in modalità monacale: il giusto modo di celebrare sarebbe quello di monaci e frati. Soprattutto piacerebbe loro vederci compunti e silenziosi, ritenendo questo un atteggiamento spirituale. L’altro giorno ho partecipato a un ritiro natalizio nel corso del quale uno dei partecipanti, dopo aver ascoltato una predicazione svolta su quel registro, ha osservato richiamando il detto misogino di Paolo in 1Cor 14,34
Come in tutte le comunità di credenti, alle donne non è permesso parlare durante l’assemblea. Facciano silenzio e stiano sottomesse, come dice anche la legge di Mosè. Se vogliono spiegazioni le chiedano ai loro mariti, a casa, perché non sta bene che una donna parli durante l’assemblea.
che noi persone laiche siamo ridotti in una condizione muliebre perché nella nostra Chiesa non è ben visto quando parliamo, appunto non sta bene. Spesso il nostro parlare è anche diffamato come un chiacchierare. Mantenendosi su questo registro ci vuol poco a passare all’esortare ad una sinodalità silenziosa (per parte nostra). Così il modo giusto per tenere un’assemblea sinodale sarebbe allora quello in cui tutti tacciono, per ascoltare una voce dall’alto si dice. Così ci si manterrebbe nello spirito del Natale.
Naturalmente una sinodalità in cui tutti tacciono è una sinodalità fallita, dal punto di vista sociale.
Vi dico francamente, poi, che la spiritualità del silenzio non mi ha mai granché convinto. Non dico che non abbia un effetto interiore, ma dubito che esso possa essere considerato qualcosa di soprannaturale. Questo perché tecniche di meditazione interiore basate sulla concentrazione in sé funzionano benissimo anche senza coloritura religiosa. Vengono correntemente utilizzate nella psicologia clinica.
Infine, la spiritualità monacale ha un suo fascino, non lo nego, ma storicamente monaci e frati non hanno avuto per quella via la grandissima influenza, anche piuttosto negativa per la verità, che hanno esercitato nelle nostre Chiese e nelle società in generale. Ad esempio, la struttura dell’organizzazione ecclesiale che oggi ci si propone di riformare per la via della sinodalità totale è in massima parte una loro invenzione e ha richiesto dure lotte sociali per affermarsi nel Secondo millennio, lotte nelle quali gli ordini religiosi furono attivi protagonisti.
2. Trattando del Natale, come di ogni altro argomento della nostra religione, dobbiamo prendere consapevolezza di questo: qualunque pensiero esprimiamo è stato in genere già pensato da altri prima di noi, e in questo senso non è nuovo. Si diventa teologi quando si ha riconosciuta la competenza nella consapevolezza di ciò e nel ricostruire razionalmente il corso di quei filoni di pensiero. Non basta il proporre vie nuove rispetto al presente, anche se le si presenta in modo ragionevole. Ma non occorre certamente essere teologi per rendere ragione della propria fede, che è compito di tutti noi persone di fede. In questo ambito si parte dalla propria vita, che per la grande maggioranza della gente non trascorre in condizione monacale, e si cercano nella Scrittura e nella Tradizione, ma in genere anche dalla semplice tradizione, ciò che si sa essere stato creduto prima di noi anche senza che sia stato riconosciuto come normativo, dei modelli per fronteggiare ciò che si vive. Tuttavia, così facendo, si influisce nell’interpretazione delle fonti, vale a dire proprio di ciò che si vorrebbe prendere a modello. È un fatto ben noto nel metodo dei giuristi. In questo la teologia universitaria, sviluppatasi dall’inizio del Secondo millennio, li ha seguiti. I giuristi per quella via non solo applicano il diritto, ma lo costruiscono, e, poiché ammettono che esso è una produzione sociale descrivono questo procedimento come un ricercare e scoprire la norma sociale, una invenzione nel senso etimologico di questa parola, che viene dal latino invenire, vale a dire appunto trovare.
I teologi utilizzano la Scrittura, ad esempio la narrazione degli eventi natalizi che troviamo nel Vangelo secondo Luca, al modo in cui i giuristi si servono delle raccolte di norme formali, che oggi predominano, o di usi e consuetudini, che predominarono fino all’epoca delle grandi codificazioni, nell’Ottocento, e di un altro elemento molto importante che è costituito da ciò che viene chiamato diritto vivente, e che è null’altro che la tradizione interpretativa, e non solo delle Corti di grado più elevato, ma anche degli studiosi universitari e, i genere di tutta la società.
Dunque ecco che abbiamo nella Scrittura [dal Vangelo secondo Luca, capitolo 2, versetto da 1 a 20 – Lc 2,1-20]:
La nascita di Gesù
In quel tempo l’imperatore Augusto con un decreto ordinò il censimento di tutti gli abitanti dell’impero romano. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.P. Tutti andavano a far scrivere il loro nome nei registri, ciascuno nel proprio luogo d’origine.
Anche Giuseppe partì da Nàzaret, in Galilea, e salì a Betlemme, la città del re Davide, in Giudea. Andò là perché era un discendente diretto del re Davide, e Maria sua sposa, che era incinta, andò con lui.
Mentre si trovavano a Betlemme, giunse per Maria il tempo di partorire, ed essa diede alla luce un figlio, il suo primogenito. Lo avvolse in fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia di una stalla, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
Gli angeli portano l’annunzio ai pastori
In quella stessa regione c’erano anche alcuni pastori. Essi passavano la notte all’aperto per fare la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce, ed essi ebbero una grande paura L’angelo disse: «Non temete! Io vi porto una bella notizia che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: oggi per voi, nella Città di Davide, è nato il Salvatore, il Cristo, il Signore. Lo riconoscerete così: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia».
Subì apparvero con lui molti altri angeli. Essi lodavano Dio con questo canto:
«Gloria a Dio in cielo
e sulla terra pace per quelli che egli ama».
Poi gli angeli si allontanarono dai pastori e se ne tornarono in cielo.
Intanto i pastori dicevano gli uni agli altri: «Andiamo fino a Betlemme per vedere quel che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere». Vinsero in fretta a Betlemme e là trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che giaceva nella mangiatoia. Dopo averlo visto, fecero sapere ciò che avevano sentito di questo bambino. Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono di quello che essi raccontavano. Maria, da parte sua, custodiva il ricordo di tutti questi fatti e li meditava dentro di sé. I pastori, sulla via del ritorno, lodavano Dio e lo ringraziavano per quel che avevano sentito e visto, perché tutto era avvenuto come l’angelo aveva loro detto.
[versione italiana interconfessionale TILC]
Ci sono due modi per ragionare su questo testo. Lo si può fare per scoprirvi la verità, intesa come ciò che deve essere creduto per poter essere riconosciuti come parte di una Chiesa, o per ricavarvi criteri per potersi orientare nella vita per adempiere alla missione che riteniamo di aver ricevuto in base alla nostra fede. Quest’ultima, in genere, non è vissuta semplicemente come cura dell’anima, al fine di raggiungere un certo benessere personale, come si può fare anche mediante varie tecniche di meditazione basate sull’interiorità, ma fondamentalmente per diffondere e praticare il vangelo, che sostanzialmente è un modo benevolo, solidale è misericordioso di vivere la società nell’attesa di una sua radicale trasformazione, il cui compimento non è alla nostra portata, ma è atteso dall’alto e sperato confidando nella benevolenza, solidarietà e misericordia del Fondamento di tutto, manifestateci in colui che nacque come narrato in quel racconto biblico del Vangelo secondo Luca, il quale vinse, morendo crocifisso e risorgendo nell’Ottavo giorno, ciò che nella storia umana si era guastato.
Nello stringato racconto evangelico certo ci sono poche chiacchiere, ma pensare che i suoi protagonisti si siano limitati a tacere estatici mi pare un po’ irrealistico. È una storia di un parto avvenuto in mezzo a tanta gente. Certo, tutto fu molto diverso da come accadeva e ancora a lungo accadde, ed anzi ancora accade, per i nuovi nati in dinastie sovrane, dove tutto avviene in mezzo a molta pompa, perché l’evento ha anche grande rilievo istituzionale. È stata anche sottolineata la povertà del contesto, anche se della famiglia di Gesù non è scritto che fosse povera. L’evento ci viene presentato come accaduto durante un viaggio in Giudea, dal nord, dalla Galilea, dove si narra che Maria e Giuseppe abitavano. I due non trovarono posto non perché non fossero in grado di pagare, ma perché posto non c’era, né presso locande né evidentemente presso conoscenti e parenti, nonostante che Giuseppe ci venga presentato come originario di quelle parti. Non sembra che il parto che abbia coinvolto le tante persone che stavano intorno (tanto che non c’era posto), salvo che dei pastori, ai quali il Natale venne annunciato con parole molto esplicite (altrimenti non li avrebbe granché coinvolti): «oggi per voi, nella Città di Davide, è nato il Salvatore, il Cristo, il Signore».
Su questa base della narrazione evangelica si è poi ragionato molto nei due millenni cristiani, costruendo varie teologie del Natale, tra le quali quelle di impronta monacale, molto centrate su silenzio e povertà, ma anche quelle trionfalistiche basate sull’idea di sovranità universale del Cristo nato a Betlemme e manifestato come tale fin dai suoi primi momenti, le prime a volte in polemica con le seconde e, in questo, portate a vedere nella povertà apparente di quella nascita un indirizzo per realizzare, nella sequela evangelica, un nuovo tipo di sovranità. Anche da qui si è tratto argomento per una Chiesa povera, vale a dire non offuscata nei suoi costumi dall’imitazione degli altri poteri sovrani che si manifestano in società. Un potere è sovrano quando non ne riconosce altri sopra di sé: naturalmente la sovranità è pretesa dei ceti dominanti in società, che, per quel loro dominare, si arricchiscono. Le nostre Chiese dal Secondo secolo, e in particolare dal Quarto, corrisposero sempre meno a quell’ideale evangelico di potere pubblico, e certamente la nostra Chiesa non è povera, nel complesso, e in Italia è anzi uno dei più grandi proprietari immobiliari, possedendo anche un simulacro di stato qui a Roma. Quindi poi la povertà viene proposta anche come via di riforma ecclesiale:
Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione.
[dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti, del Concilio Vaticano 2º]
In epoca di sinodalità, riprenderei quelle interpretazioni degli eventi del Natale che mettono in evidenza che si trattò di una nascita in mezzo alla gente e che fu accompagnata da un annuncio gioioso. Lo stare insieme è fonte di gioia, così come l’arrivo di un nuovo nato tra noi. In questo la dimensione della festa, che traspare in un altro episodio evangelico, su cui la grande teologia ha molto ragionato, quello delle nozze di Cana.
Il far festa è un elemento culturale, di solito comprende, oltre allo stare insieme, il mangiare e bere insieme, il lieto convito che ritroviamo nella liturgia eucaristica, la musica, il cantare e anche il danzare, ma anche, ad esempio, il teatro. Nel far festa si può cercare anche lo stordimento, che si consegue portando all’eccesso tutto ciò che può dare piacere, e anche il piacere ha importanti elementi culturali, non è solo fisiologia. Nella Bibbia vi sono descrizioni di stati di esaltazione religiosa per i quali chi li manifestava venne scambiato per un ubriaco (e magari lo era veramente)
Allora Pietro si alzò insieme con gli altri undici apostoli. A voce alta parlò così: «Uomini di Giudea e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme: ascoltate attentamente le mie parole e saprete che cosa sta accadendo. Questi uomini non sono affatto ubriachi, come voi pensate, — tra l’altro è presto: sono solo le nove del mattino.
[dagli Atti degli apostoli, capitolo 2, versetto 15 e 16 – At 2,15-16]
Nei millenni cristiani si è sviluppata una tradizione virtuosa del far festa, senza negarsi la festa, come sembra vorrebbero certi predicatori rigoristi.
E la stessa sinodalità , che è pur sempre uno stare insieme nel nome del Cristo, fonte della nostra gioia, può essere considerata una festa. Una grande gioia venne riferita da coloro che negli anni Sessanta parteciparono a quel grande evento sinodale che fu il Concilio Vaticano 2º, dove pure non mancarono contrasti anche aspri, che tuttavia poi, almeno in quel grande congresso di pastori assistiti da valenti studiosi, si risolsero in un consenso molto ampio sui documenti approvati.
Dunque, in questo Natale, prendendo congedo da voi per qualche tempo per esperienze emozionanti in campo sanitario, voglio di cuore augurarvi una sinodalità non silenziosa, ma gioiosa e molto parlata: che vi sia consentito unirvi a quel coro angelico, a quel
«Gloria a Dio in cielo
e sulla terra pace per quelli che egli ama»
che risuonò allora e che radunò i poveri intorno al nuovo nato, a fargli festa.
Così sia. Amen