La trappola della
sinodalitá senza democrazia
Per chi, come me, ha vissuto consapevolmente
la rivoluzione sociale degli anni ’70 l’età contemporanea è sorprendente. La
storia è andata a finire in
un modo veramente inatteso.
Tra i cristiani italiani di cinquant’anni fa
prevaleva in genere la convinzione che la riforma delle Chiese, in particolare di
quella cattolica, largamente maggioritaria nella popolazione, avrebbe liberato
energie fino ad allora compresse e avrebbe quindi rinnovato la capacità di
influire sulla società in senso evangelico. Tra gli italiani non religiosi si
era invece convinti che, riforma o non riforma, la gente avrebbe abbandonato la
religione e la stessa fede e che, in definitiva, le Chiese cristiane avrebbero
finito per dissolversi tra la popolazione rimanendo solo gusci istituzionali
vuoti che, a quel punto, si sarebbe potuto demolire senza incontrare troppa
resistenza.
La posizione in merito dei vescovi italiani è stata
ambivalente e contraddittoria. Nei rapporti con la politica hanno fatto valere
la forza popolare della religione cattolica, presentata come maggioritaria tra
gli italiani; rivolgendosi a noi fedeli presentavano invece la Chiesa come
minoritaria e di ciò ci davano la colpa, perché eravamo indocili nell’etica
e piuttosto passivi nell’apostolato. Noi persone laiche replicavamo che,
poiché avevano sempre preteso di comandare solo loro, la colpa era solo loro.
Erano loro, in particolare, ad aver fatto abortire la riforma iniziata negli
anni Sessanta con il Concilio Vaticano 2º. E quest’ultima accusa è
sostanzialmente fondata, sul piano storico, anche se nel boicottaggio della
riforma conciliare l’episcopato italiano non è stato certamente compatto.
Le indagini sociologiche, come si dà conto in
The Oxford Handbook of Religion in Europe, a cura di Grace Davie e
Lucian N. Leustean, pubblicato da Oxford University Press, pag.880, €110,00,
del quale ho letto su La lettura del Corriere della sera dello scorso sabato 4
dicembre (vi ho inviato l’articolo sulla mailing list e su WA), segnalano che
la religione è ancora molto potente sul nostro continente, ma prevalentemente
nella sua dimensione istituzionale.
Nell’intervista a Marco Ventura al Corriere
della sera, nell’articolo che ho sopra citato, la Davie ha detto:
“Nature [un’importante rivista scientifica] ha dedicato un
editoriale all’enciclica Laudato si’ il giorno dell’uscita. Una delle
più prestigiose riviste scientifiche al mondo ha riconosciuto che la voce del
Papa ha la forza di trasformare il dibattito. Mai avrei pensato di vedere una
cosa simile in vita mia. La religione è potente perché l’80% della popolazione
si riconosce in una fede e perché la religione permea ogni sfera della vita.
In un certo senso, si è tornati però alla
religiosità che permeava l’antica fede politeistica soppiantata (violentemente)
dai cristiani nel Quarto secolo, che era centrata sulla dimensione pubblica e
molto meno su quella privata, personale. Ragione per la quale, ad esempio,
sacrificare all’imperatore come a una divinità non impegnava la propria interiorità,
come invece ritenevano gli antichi cristiani sulla scorta delle concezioni
giudaiche, disposti a perdere la vita in modo atroce pur di non compiere quella
che giuridicamente era solo una formalità,
un atto esteriore per il quale non era richiesto che chi lo compiva credesse.
Il rifiutarlo, per i cristiani, aveva motivazioni religiose con fortissimi
riflessi politici: significava che il renitente si arrogava il potere di
sindacare il vertice del potere politico e tutta la sottostante piramide
gerarchica sulla base di criteri di giustizia che non erano solo quelli dell’equità,
il cardine della tradizione giuridica romana, ma principalmente dell’agápe
evangelica la quale era fondato sulla concezione di un’unica divinità
amante, quindi fondamento di quell’agápe. Introdurre il principio
dell’agápe nell’ordinamento sociale significava trasformarlo
radicalmente.
La sacralizzazione del potere imperiale
avvenuta nel Quarto secolo, attuata anche mediante una nuova dogmatica, quindi
l’imposizione di veritá che dovevano essere credute, in
particolare riguardante la cristologia, con la costruzione di quel potere come
quello di un Vicario di Cristo, costituì il tentativo di integrare la
forza dell’interioritá cristiana a
sostegno di una nuova grandiosa costruzione politica. Quest’ultima ebbe lunghissima
vita, cominciando ad eclissarsi solo nel Seicento e poi venendo
progressivamente soppiantata dalla fine del Settecento, con le rivoluzioni
democratiche contemporanee. Tuttavia fu costantemente instabile per due
fondamentali fattori: la pretesa della gerarchia del clero di emanciparsi dal
potere delle dinastie sovrane europee e il costante emergere del dissenso su
basi evangeliche contro ogni tipo di gerarchia sacralizzata, sulla base del
principio che si deve ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini (espresso
in Atti degli apostoli, capitolo 5, versetto 29). Esso, nonostante le
apparenze, è il fondamento della secolarizzazione intesa come desacralizzazione
di ogni gerarchia, politica o religiosa (nel regime di sacralizzazione i poteri
politici pretendevano anche obbedienza religiosa e la critica del sovrano era trattata
come eresia). E quindi anche il fondamento della democrazia come oggi la
intendiamo, che si fonda sull’idea che qualsiasi potere politico sia
accettabile solo se rispetta un sistema di principi fondamentali,
sottratti alla regola maggioritaria, al vertice dei quali vi è quello che nessun
potere possa essere illimitato e insindacabile. Si tratta di principi che non
possono essere messi ai voti, sono regole di sistema, le quali, se
vengono meno, determinano la caduta del regime democratico. Precedono le
procedure democratiche e ne sono anche condizione e giustificazione. Di questo
i molti diffamatori della democrazia in ambienti ecclesiali non mostrano
consapevolezza.
Dunque la situazione sembra questa, in
Europa, e, in particolare in Italia: le persone non investono la propria
interiorità nella fede religiosa, ma vi investono il proprio consenso politico,
quindi sono disposte a sorreggerne le istituzioni, in quanto fattore identitario
di coesione sociale in funzione di difesa sociale. La sociologa francese Danièle
Hervieu-Lérger l’ha definita religione per procura. Si
legittimano le istituzioni religiose con il mandato di proteggere la
società da dissoluzione e minacce dall’interno e dall’esterno. Per questo non è
necessario sviluppare una particolare interiorità, una spiritualità. Si lascia
fare, e questo in ambiente cattolico significa lasciare fare al clero,
disposti a presenziare agli eventi da esso organizzati per dimostrare la
forza sociale della religione.
Naturalmente non è questo l’indirizzo che papa
Francesco e la parte dell’episcopato e del clero che lo segue ci esorta a
seguire. I processi sinodali che sono stati attivati sono intesi a metterci per
un’altra via. Essi non sono volti a conservare o a restaurare, ma
ad organizzare una riforma che ci consenta di essere agente collettivo
critico nei processi sociali, e anche politici, contemporanei, nel senso
indicato nell’enciclica Laudato si’.
Come ha osservato ripetutamente il Papa,
mancano però le strutture adatte a sviluppare questo tipo di
sinodalità, che infatti viene di solito
contrapposta alla democrazia come via per risolvere ogni controversia senza che
residui un dissenso. Quindi poi viene anche considerato sconveniente
manifestare diversità di opinioni, dalla quale sorgerebbe la necessità di negoziazioni
per cercare di risolverle, rimanendo tuttavia prevedibile che un certo
dissenso permanga, perché storicamente, e anche ad esempio durante il Concilio
Vaticano 2º che pure registrò consensi vastissimi tra i partecipanti, è sempre
andata così. In democrazia i dissenzienti sono tutelati e legittimati a
mantenersi tali: è un’applicazione del principio che nessun potere, anche
quello di maggioranze della popolazione, debba essere illimitato. Nella nostra
Chiesa storicamente si è sempre cercato invece di eliminare i dissenzienti,
addirittura nel corso di sinodi e concili.
Questo spirito spiega l’incredibile
indicazione metodologica data dalla nostra Diocesi per gli incontri sinodali
dedicati all’ascolto del Popolo di Dio di non consentire un dibattito
ma solo l’espressione di prospettive che dovrebbero rimanere accostate, senza
cercare di comporle in una visione collettiva. Questo sarebbe accettabile
se si trattasse di procedere ad un sondaggio, in cui interessa sentire
che ne pensano i singoli e poi sono gli specialisti a tirare le somme per
consigliare il loro committente su come cercare di influire sulla popolazione sondata.
Ma, il Papa lo ha spiegato chiaramente, non si tratta di un sondaggio. Si
ascolta la voce di un popolo e quindi una voce collettiva. Infatti
nella sinodalità è prescritto il dialogo, che significa discutere i rispettivi
argomenti per cercare una posizione condivisa, dovendo comunque darsi per
scontato che non si raggiungerà l’unanimità, per cui rimarranno dissenzienti,
che dovranno essere rispettati. In una parrocchia come la nostra attraversata
da una frattura radicale tra fondamentalisti, tra i quali molti di
quelli che frequentano la parrocchia senza risiedervi, conservatori, conciliari
e riformatori, probabilmente emergeranno queste quattro
posizioni collettive che rimarranno incomponibili e che, come tali, andranno
riferite in Diocesi. L’origine di questa situazione è ben nota in Diocesi, essa
è sicuramente un male, ma la cura non è semplicemente di ignorarla. Proseguendo nel dialogo e
soprattutto provando ad organizzare attività concrete di collaborazione, con
una nuova struttura partecipativa sinodale stabile, penso che progressivamente
le visioni e le abitudini, che ora paiono tanto distanti, potrebbero iniziare a
convergere, perché abbiamo a che fare con persone buone, e animate da
forti e sinceri sentimenti religiosi.
Se però si sceglie la strada della sinodalità
senza democrazia, vale a dire di una sinodalità ipocrita, nella quale non
si decide nulla insieme, ma si vuole solo rendere l’immagine di una unanimità
di facciata, allora questa sinodalità mi sembra come una trappola per
chi vi è coinvolto credendo veramente alla sinodalitá. Non si può
accettare che in spirito sinodale si debba subire un risultato già scritto o di
nascondere quello che appare sconveniente manifestare. La scelta per i
dissenzienti è di tirarsene fuori o di movimentare un po’ la sinodalità troppo
coartata. Quest’ultima è la via che recentemente il Papa ha indicato ai
giovani.
Non è necessario affannarsi nella sinodalità
se si pensa che la religione non debba cambiare nulla, ma solo difendere
la società così com’è. Se volessero limitarsi a questo lavoro i nostri vescovi
e i loro preti avrebbero ancora un
consenso politico molto forte tra la popolazione, le statistiche e le
analisi sociologiche lo dimostrano chiaramente.
Mario Ardigó – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli