Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 5,
versetti da 1 a 12 – Mt 5, 1-12 [versione in italiano da
TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente]
Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio [οἱ πτωχοὶ τῷ πνεύματι -ptocòi to pnèumati]:
Dio
dona loro il suo regno.
Beati
quelli che sono nella tristezza:
Dio
li consolerà.
Beati
quelli che non sono violenti:
Dio
darà loro la terra promessa.
Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia:
Dio
esaudirà i loro desideri.
Beati
quelli che hanno compassione degli altri:
Dio
avrà compassione di loro.
Beati
quelli che sono puri di cuore:
essi
vedranno Dio.
Beati
quelli che diffondono la pace:
Dio
li accoglierà come suoi figli.
Beati
quelli che sono perseguitati perché fanno la volontà di Dio:
Dio
dona loro il suo regno.
Beati siete voi quando vi insultano e vi
perseguitano, quando dicono falsità e calunnie contro di voi perché avete
creduto in me. Siate lieti e contenti, perché Dio vi ha preparato in cielo
una grande ricompensa: infatti, prima di voi, anche i profeti furono
perseguitati.
Dal
Vangelo secondo Luca, capitolo 6, versetti da 20 a 26 – Lc 6, 20-26 [versione
in italiano da TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente]:
Beati
voi, poveri:
Dio
vi dona il suo regno.
Beati
voi che ora avete fame:
Dio
vi sazierà.
Beati
voi che ora piangete:
Dio
vi darà gioia.
Beati voi quando gli altri vi odieranno, quando
parleranno male di voi e vi disprezzeranno come gente malvagia perché avete
creduto nel Figlio dell’uomo. Quando vi accadranno queste cose
siate lieti e gioite, perché Dio vi ha preparato in cielo una grande
ricompensa: infatti i padri di questa gente hanno trattato allo stesso modo gli
antichi profeti.
Ma,
guai a voi, ricchi,
perché
avete già la vostra consolazione.
Guai
a voi che ora siete sazi,
perché
un giorno avrete fame.
Guai
a voi che ora ridete,
perché
sarete tristi e piangerete.
Dai miei appunti dalla conferenza del
prof. Giuseppe Pulcinelli, biblista presso l’Università Lateranense di Roma,
sul tema Le Beatitudini, svolta nel
quadro del ciclo di incontri del gruppo romano Uniroma Sapienza del MEIC - Movimento Ecclesiale di Impegno
Culturale sul Regno di Dio nella Cappella Universitaria dell’Università
Sapienza di Roma, dalle ore 18 del 13 novembre 2019 – Mario Ardigò
Prima Beatitudine
Nella prima Beatitudine, nel testo del Vangelo secondo Matteo, sono i
“ptocòi to pnèumati” cioè i poveri
nello spirito: si dice che di essi è il Regno
dei Cieli. Deve intendersi è o sarà?
L’unico significato accettabile è appunto “è”,
perché il macarismo è un riconoscimento di una realtà. Il destinatario della Beatitudine è già beato.
Dal greco antico ptocòs deriva
la parola italiana pitocco, che
significa mendicante, accattone, un povero in senso materiale. Il termine greco
traduceva quello ebraico anawìm che
aveva un senso più esteso, e si riferiva anche ai deprivati, ai deprivati, agli oppressi
sociali, che non contano nulla. Descrive anche una persona curva davanti a
Dio, il povero di Dio. L’oppresso
innocente e giusto che si aspetta solo da Dio la salvezza. Nel Vangelo secondo
Luca non c’è l’espressione in spirito e dunque ci si riferisce ai poveri in senso
materiale. Il to pnèuma - in spirito del
Vangelo secondo Luca indica una disposizione interiore: uno spirito
contrassegnato dalla povertà, un atteggiamento interiore che è opera dello
Spirito Santo e che porta a riconoscersi poveri davanti a Dio. Può vedersi un
parallelo con l’elogio di Gesù dei bambini, che si riconoscono dipendenti dagli
altri, vi si vede una virtù, quella dell’umiltà.
Allora
gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i
discepoli li rimproverarono. Gesù
però disse: "Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è
come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli". E,
dopo avere imposto loro le mani, andò via di là. [Vangelo secondo Matteo 19,13-15]
Coloro che si riconoscono umili davanti a Dio sono nella giusta disposizione
per ottenere da lui un dono: riconoscono la sovranità di Dio e allora Dio si
mette dalla loro parte.
Probabilmente la versione della prima Beatitudine data da Gesù fu
più vicina a quella narrata nel Vangelo secondo Luca, Matteo l’arricchisce
teologicamente.
Si può vedere un parallelo in questo brano di
Paolo nella prima lettera ai Corinzi [1Cor 1,26-31]:
Considerate
infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal
punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma
quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti;
quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello
che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto
per ridurre al nulla le cose che sono, perché
nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie
a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera
di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché,
come sta scritto, chi si vanta,
si vanti nel Signore.
Dio ha fatto una scelta preferenziale -
non esclusiva: sta dalla parte delle vittime e il cristiano deve scegliere ciò
che Dio ha scelto. Si può osservare che certamente Dio non è politically correct.
Per informarsi sul WEB sui cammini sinodali
Sito del Sinodo 2021-2023 (generale)
Siti del cammino sinodale delle Chiese italiane
Sinodalità
e il prendersi cura
Dall’enciclica Fratelli tutti, 2020:
17. Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa
prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che
abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno
bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente
sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono
solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo producendo, vuota,
protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di
fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario
favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni» [citazione
dall’enciclica Laudato sì, 2015]
Dall’enciclica Laudato si’, 2015:
228. La cura per la natura è parte di uno stile di vita che
implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che
abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore
fraterno può solo essere gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che
un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è
possibile amare i nemici. Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il
vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per
questo possiamo parlare di una fraternità universale.
229. Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli
altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che
vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel
degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede,
dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra
superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della
vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri
interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce
lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.
230. L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci invita alla pratica
della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola
gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia.
Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali
spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo.
Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il mondo del
maltrattamento della vita in ogni sua forma.
231. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche
civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire
un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono
una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli
individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici,
politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una
«civiltà dell’amore». L’amore sociale è la chiave di un autentico
sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre
rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico,
culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire». In questo
quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci
spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado
ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni
tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire
insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa
parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo
matura e si santifica.
232. Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera diretta nella
politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di
associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente
naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un
edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per
proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a
loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale
locale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol
dire anche coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si
trasmette. In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita
dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo
consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni
comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in
intense esperienze spirituali.
*************************************
Nel magistero di papa Francesco ricorre spesso
l’idea del prendersi cura, riferita anche alle società, non solo
all’ambiente naturale.
Un società, ad esempio la
nostra parrocchia, può essere considerata uno strumento o un ostacolo, a secondo se vi traiamo
qualche utilità o ci si mette di traverso per impedirci di ottenere quella a
cui in un certo momento puntiamo. Nell’industria dell’allevamento ci si prende
cura di un gruppo di animali per trarne una qualche utilità: in questo senso è
un’attività economica. Nell’allegoria evangelica del Buon Pastore questo scopo manca del tutto: è irrealistica,
certo, se la si considera riferita alla pastorizia che si esercita sulle
greggi, ma coglie nel segno se la interpretiamo come metafora del prendersi
cura di una società umana. Indica
una modalità di relazionarsi con essa, in cui il risultato, lo scopo, è
puramente e semplicemente il prendersi cura.
Il Papa ne ha parlato ad
esempio, nel discorso del 2019 tenuto nella Diocesi di Roma ai partecipanti ad
un convegno:
Il secondo tratto necessario – il primo è
l’umiltà: per ascoltare, tu devi abbassarti – il secondo tratto necessario per
ascoltare il grido è il disinteresse. Viene espresso nel brano
evangelico della parabola del pastore che va in cerca della pecora che si è
smarrita. Non ha nessun interesse personale da difendere, questo buon pastore:
l’unica preoccupazione è che nessuno si perda. Abbiamo interessi personali, noi
che siamo questa sera? Ognuno ci può pensare: qual è il mio interesse nascosto,
personale, che ho nella mia attività ecclesiale? La vanità? Non so… ognuno ha
il proprio. Siamo preoccupati delle nostre strutture parrocchiali?, del futuro
del nostro istituto?, del consenso sociale?, di quello che la gente dirà se ci
occupiamo dei poveri, dei migranti, dei rom? O siamo attaccati a quel po’ di
potere che esercitiamo ancora sulle persone della nostra comunità o del nostro
quartiere? Tutti noi abbiamo visto parrocchie che hanno fatto scelte sul serio,
sotto l’ispirazione dello Spirito, e tanti fedeli che andavano lì si sono
allontanati perché “ah, questo parroco è troppo esigente, anche un po’
comunista”, e la gente se ne va. E quando non arrivano le lamentele al vescovo…
E se il vescovo non è coraggioso, se non è un uomo che ha umiltà, un uomo
disinteressato, chiama il prete e gli dice: “Non esagerare, sai, un po’ di
equilibrio…”. Ma lo Spirito Santo non capisce l’equilibrio, non lo capisce.
Capisce la […]. Il disinteresse per sé stessi è la condizione necessaria per
poter essere pieni di interesse per Dio e per gli altri, per poterli ascoltare
davvero. C’è il “peccato dello specchio”. E noi, preti, suore, laici con la
vocazione di lavorare, cadiamo tante volte in questo peccato dello specchio: si
chiama narcisismo e autoreferenzialità, i peccati dello specchio
che ci soffocano. Il Signore ha ascoltato il grido degli uomini che ha
incontrato e si è fatto loro vicino, perché non aveva nulla da
difendere e nulla da perdere, non aveva “lo specchio”: aveva la coscienza
in preghiera, in contemplazione con il Padre e unta dallo Spirito Santo. Questo
è il suo segreto, e per questo è andato avanti. Lascia le novantanove al sicuro
e si mette a cercare chi si è smarrito. Noi, invece, come ho detto altre volte,
siamo spesso ossessionati per le poche pecore che sono rimaste nel recinto. E
tanti smettono di essere pastori di pecore per diventare “pettinatori” di
pecore squisite. E passano tutto il tempo a pettinarle. Tante? No. Dieci…,
piccola cosa… E’ brutto. Non troviamo mai il coraggio di cercare le altre,
quelle che si sono perse, che vanno per sentieri che non abbiamo mai
battuto. Per favore, convinciamoci che tutto merita di essere lasciato e
sacrificato per il bene della missione. Lasciare l’orgoglio, essere umili,
lasciare questo benessere, questo interesse per sé stessi. Mosè, di fronte alla
missione, ha avuto paura, ha fatto mille resistenze e obiezioni; ha cercato di
convincere Dio a rivolgersi a qualcun altro; ma alla fine, è sceso con Dio in
mezzo al suo popolo e si è messo ad ascoltare. Che il Signore ci riempia il
cuore dell’audacia e della libertà di chi non è legato da interessi e vuole
mettersi con empatia e simpatia in mezzo alle vite degli altri.
In quel contesto si rivolse a
clero, religiosi e dirigenti di gruppi ecclesiali riuniti a convegno, ma, in
realtà, il discorso ha una portata molto più ampia, che non sempre viene
intesa, e, in particolare è implicata nella sinodalità della quale si vorrebbe spingerci a fare
apprendistato, tirocinio.
Quando,
molto di rado, capita che ci chiedono come ci troviamo in chiesa, di solito
accade, vedrete che accadrà anche nell’assemblea sinodale parrocchiale di oggi
pomeriggio, che ci mettiamo a dare consigli, o
a proporre pretese, su come gli altri, in particolare i preti,
dovrebbero organizzare la nostra partecipazione alle attività ecclesiali, ad
esempio, suggeriamo di essere più accoglienti e di parlarci di questo o
di quell’altro, e via dicendo. Del resto, venendo in chiesa, i nostri punti di
riferimento sono proprio i preti, a volte i catechisti, gli esponenti più
attivi di associazioni, movimenti, confraternite e altri gruppi, e pochi altri.
Le altre persone, la maggior parte dei fedeli, non le conosciamo e nemmeno ci
interessano molto. E’ anche ciò che accade fuori della chiesa, dove abbiamo giri
di conoscenze e frequentazioni più
strette, che compongono il nostro mondo vitale, e tutte le altre persone
compongono una massa indistinta della quale abbiamo un’idea sommaria.
Se poi
studiamo la storia dei sinodi dell’antichità, e su quelli dei primi due secoli
sappiamo poco o nulla, notiamo che, quando presero a stabilizzarsi come prassi
regolare coinvolgevano clero, religiosi, talvolta esperti e, almeno fino al
Quattrocento esponenti del potere civile sacralizzato, quindi esponenti dei centri
di potere che potenzialmente
confliggevano nel governo ecclesiale e che, dunque, si cercava di far incontrare
per arrivare a una mediazione, essenzialmente basata sui rispettivi interessi.
Di solito però le situazione di contrasto si trasferivano semplicemente
nell’assemblea sinodale e raramente vi venivano risolte, lasciando strascichi e
recriminazioni, per cui le controversie si riaccendevano. E’ quello che
successe dopo il primo Concilio riconosciuto come ecumenico, celebrato a Nicea,
in Anatolia, nel 325, e anche dopo l’ultimo Concilio, il Vaticano 2°, celebrato
a Roma, tra il 1962 e il 1965. Nel 381,
quando a Costantinopoli, in Tracia, si tenne il secondo Concilio ecumenico, non
si era ancora del tutto stabilizzato il consenso sulla cristologia deliberata
dal precedente concilio, tenuto oltre cinquant’anni prima. Lo stesso può dirsi
di molti dei principi deliberati nel corso dell’ultimo Concilio, al cui centro
fu la Chiesa. Le controversie in merito sono ancora vivissime, in particolare
tra reazionari, che vorrebbero cancellarli, conciliari, che
vorrebbero applicarli nella massima estensione, e riformatori, che
vorrebbero svilupparli, ritenendo che negli anni Sessanta, a causa del clima
accesissimo nel quale si volse la discussione su alcuni temi, si siano
deliberate formule di compromesso che hanno cercato di tenere insieme vecchio e
nuovo, con risultati che, nella fase applicativa, hanno creato problemi. In
particolare è ancora piuttosto vivace il contrasto di posizioni sul ruolo delle
persone laiche nella Chiesa e sulla stessa congruità del termine laico,
come sinonimo di chi non è né chierico né religioso, per descrivere la dignità
battesimale del fedele cristiano. Come spiegato ripetutamente dal papa
Francesco, i cammini sinodali che sono stati aperti sono volti ad una riforma.
Lo ha fatto, ad esempio nel discorso tenuto l’anno scorso alla Curia Vaticano
il 21 dicembre:
8. Sotto
ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento: è un passo avanti.
Ma se vogliamo davvero un aggiornamento, dobbiamo avere il coraggio di una
disponibilità a tutto tondo; si deve smettere di pensare alla riforma della
Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una
nuova Costituzione Apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa.
Non si tratta di “rattoppare un abito”,
perché la Chiesa non è un semplice “vestito” di Cristo, bensì è il suo corpo
che abbraccia tutta la storia (cfr 1 Cor 12,27). Noi non siamo
chiamati a cambiare o riformare il Corpo di Cristo – «Gesù Cristo è lo stesso
ieri, oggi e per sempre!» (Eb 13,8) – ma siamo chiamati a rivestire
con un vestito nuovo quel medesimo Corpo, affinché appaia chiaramente che la
Grazia posseduta non viene da noi ma da Dio: infatti, «noi abbiamo questo
tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza
appartiene a Dio, e non viene da noi» (2 Cor 4,7). La Chiesa è
sempre un vaso di creta, prezioso per ciò che contiene e non per ciò che a
volte mostra di sé. Alla fine, avrò il piacere di donarvi un libro, dono di
Padre Ardura, dove si mostra la vita di un vaso di creta, che ha fatto risplendere
la grandezza di Dio e le riforme della Chiesa. Questo è un tempo in cui sembra
evidente che la creta di cui siamo impastati è scheggiata, incrinata, spaccata.
Dobbiamo sforzarci affinché la nostra fragilità non diventi ostacolo
all’annuncio del Vangelo, ma luogo in cui si manifesta il grande amore con il
quale Dio, ricco di misericordia, ci ha amati e ci ama (cfr Ef 2,4).
Se noi tagliassimo Dio, ricco di misericordia, dalla nostra vita, la nostra
vita sarebbe una bugia, una menzogna.
Durante il periodo della crisi, Gesù ci mette
in guardia da alcuni tentativi per uscirne fuori che sono destinati fin
dall’inizio ad essere fallimentari, come colui che «strappa un pezzo da un
vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio»; il risultato è prevedibile: si
strapperà il nuovo, perché «al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo».
Analogamente «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo
spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo
bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 5,36-38).
Il comportamento giusto invece è quello dello
«scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli», il quale «è simile a un
padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
In questa concezione, tutti noi siamo chiamati
a indossare un vestito nuovo, vale a dire a essere e fare Chiesa in un modo nuovo, che ci
metta in grado di fronteggiare l’evidente crisi nella quale, non solo la nostra
Chiesa, ma tutta l’Europa di oggi si trova, in definitiva come il mondo intero.
Questo abito nuovo è appunto,
secondo il Papa, la mentalità del prendersi cura. Da un punto
evangelico, non è cosa che possa essere ai voti: è semplicemente la nostra
fede, la base di tutto. Dobbiamo solo capire come praticarlo e, in primo luogo, capire che
spetta a tutti noi farlo, non solo a coloro che hanno il titolo di pastori.
Ad esempio nel partecipare al dialogo nell’incontro sinodale di domani.
Se partiamo dal proporre progetti tenendo presente solo ciò che direttamente ci
coinvolge, e in particolare le nostre esigenze, ci muoviamo ancora nell’ottica
dello sfruttamento della società.
Se li proponiamo con il proposito di togliere di mezzo quelli che ci ostacolano in parrocchia,
ragioniamo sulla società vista come un impedimento al conseguimento di ciò che
riteniamo esserci utile. Al fondo di questi atteggiamenti ci sono le nostre emozioni,
e di solito li decidiamo ancor prima di
capire perché farlo; talvolta preferiamo non pensarci tanto sopra perché
capiamo che approfondendo ci risulterebbe chiaro che sono solo questioni di
interessi. Puntiamo essenzialmente a renderci più comoda la vita.
Se vogliamo impegnarci, tutti, ed è la
prima volta nella storia della Chiesa che si è chiamati, in tutto il mondo,
a una cosa simile, nel lavoro di riforma per la via indicata dal Papa, allora dovremmo
partecipare all’assemblea sinodale parrocchiale e, soprattutto, agli incontri
dei gruppi di lavoro in cui verosimilmente ci si dividerà dopo il primo momento
liturgico iniziale, con lo spirito del prenderci cura, chiedendoci di
che cosa le altre persone che partecipano e, idealmente, tutte le altre persone
della parrocchia, anche quelle che conosciamo solo di vista o nemmeno in quel
modo superficiale, benché sappiamo che ci sono,
hanno bisogno per vivere a pieno la loro fede. La prima cosa da
fare, se si decide per quel metodo, è di ascoltare, per avere un’idea
più precisa degli altri. L’obiettivo è di riuscire a tenere insieme tutte
le persone, secondo la missione che ci è stata affidata.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli