INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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domenica 5 dicembre 2021

 






Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 5, versetti da 1 a 12 – Mt 5, 1-12 [versione in italiano da TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente]

 

Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio [ο πτωχο τ πνεύματι -ptocòi to pnèumati]:

Dio dona loro il suo regno.

Beati quelli che sono nella tristezza:

Dio li consolerà.

Beati quelli che non sono violenti:

Dio darà loro la terra promessa.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia:

Dio esaudirà i loro desideri.

Beati quelli che hanno compassione degli altri:

Dio avrà compassione di loro.

Beati quelli che sono puri di cuore:

essi vedranno Dio.

Beati quelli che diffondono la pace:

Dio li accoglierà come suoi figli.

Beati quelli che sono perseguitati perché fanno la volontà di Dio:

Dio dona loro il suo regno.

Beati siete voi quando vi insultano e vi perseguitano, quando dicono falsità e calunnie contro di voi perché avete creduto in me. Siate lieti e contenti, perché Dio vi ha preparato in cielo una grande ricompensa: infatti, prima di voi, anche i profeti furono perseguitati.

 

Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 6, versetti da 20 a 26 – Lc 6, 20-26 [versione in italiano da TILC – Traduzione interconfessionale in lingua corrente]:

 

Beati voi, poveri:

Dio vi dona il suo regno.

Beati voi che ora avete fame:

Dio vi sazierà.

Beati voi che ora piangete:

Dio vi darà gioia.

Beati voi quando gli altri vi odieranno, quando parleranno male di voi e vi disprezzeranno come gente malvagia perché avete creduto nel Figlio dell’uomo. Quando vi accadranno queste cose siate lieti e gioite, perché Dio vi ha preparato in cielo una grande ricompensa: infatti i padri di questa gente hanno trattato allo stesso modo gli antichi profeti.

Ma, guai a voi, ricchi,

perché avete già la vostra consolazione.

Guai a voi che ora siete sazi,

perché un giorno avrete fame.

Guai a voi che ora ridete,

perché sarete tristi e piangerete.

Guai a voi quando tutti parleranno bene di voi: infatti i padri di questa gente hanno trattato allo stesso modo i falsi profeti.

Dai miei appunti dalla conferenza del prof. Giuseppe Pulcinelli, biblista presso l’Università Lateranense di Roma, sul tema Le Beatitudini, svolta nel quadro del ciclo di incontri del gruppo romano Uniroma Sapienza del  MEIC - Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale sul Regno di Dio nella Cappella Universitaria dell’Università Sapienza di Roma, dalle ore 18 del 13 novembre 2019 – Mario Ardigò

 

Prima Beatitudine

 

 Nella prima Beatitudine, nel testo del Vangelo secondo Matteo, sono  i “ptocòi to pnèumati” cioè i poveri nello spirito: si dice che di essi è  il Regno dei Cieli. Deve intendersi è o  sarà? L’unico significato accettabile è appunto “è”, perché il macarismo  è un riconoscimento di una realtà. Il destinatario della Beatitudine è già beato.

  Dal greco antico ptocòs deriva la parola italiana pitocco, che significa mendicante, accattone, un povero in senso materiale. Il termine greco traduceva quello ebraico anawìm che aveva un senso più esteso, e si riferiva anche ai deprivati, ai deprivati,  agli oppressi sociali, che non contano nulla. Descrive anche una persona curva davanti a Dio, il povero di Dio. L’oppresso innocente e giusto che si aspetta solo da Dio la salvezza. Nel Vangelo secondo Luca non c’è l’espressione  in spirito  e dunque ci si riferisce ai poveri in senso materiale.  Il to pnèuma - in spirito  del Vangelo secondo Luca indica una disposizione interiore: uno spirito contrassegnato dalla povertà, un atteggiamento interiore che è opera dello Spirito Santo e che porta a riconoscersi poveri davanti a Dio. Può vedersi un parallelo con l’elogio di Gesù dei bambini, che si riconoscono dipendenti dagli altri, vi si vede una virtù, quella dell’umiltà.

Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li rimproverarono.  Gesù però disse: "Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli". E, dopo avere imposto loro le mani, andò via di là. [Vangelo secondo Matteo 19,13-15]

   Coloro che si riconoscono umili  davanti a Dio sono nella giusta disposizione per ottenere da lui un dono: riconoscono la sovranità di Dio e allora Dio  si mette dalla loro parte.  Probabilmente la versione della prima Beatitudine  data da Gesù fu più vicina a quella narrata nel Vangelo secondo Luca, Matteo l’arricchisce teologicamente.

 Si può vedere un parallelo in questo brano di Paolo nella prima lettera ai Corinzi [1Cor 1,26-31]:

Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.  Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.

 Dio ha fatto una scelta preferenziale - non esclusiva: sta dalla parte delle vittime e il cristiano deve scegliere ciò che Dio ha scelto. Si può osservare che certamente Dio non è  politically  correct.

 

Per informarsi sul WEB sui cammini sinodali

 

Sito del Sinodo 2021-2023 (generale)

https://www.synod.va/it.html

Siti del cammino sinodale delle Chiese italiane

https://camminosinodale.chiesacattolica.it/

https://www.chiesacattolica.it/cammino-sinodale-delle-chiese-che-sono-in-italia-i-testi-approvati-dal-consiglio-permanente/


Sinodalità e il prendersi cura

 

 Dall’enciclica Fratelli tutti, 2020:

 

17. Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, «è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni» [citazione dall’enciclica Laudato sì, 2015]

 

 

Dall’enciclica Laudato si’, 2015:

 

228. La cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici. Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di una fraternità universale.

229. Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.

230. L’esempio di santa Teresa di Lisieux ci invita alla pratica della piccola via dell’amore, a non perdere l’opportunità di una parola gentile, di un sorriso, di qualsiasi piccolo gesto che semini pace e amicizia. Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo. Viceversa, il mondo del consumo esasperato è al tempo stesso il mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma.

231. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una «civiltà dell’amore». L’amore sociale è la chiave di un autentico sviluppo: «Per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello, politico, economico, culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire».  In questo quadro, insieme all’importanza dei piccoli gesti quotidiani, l’amore sociale ci spinge a pensare a grandi strategie che arrestino efficacemente il degrado ambientale e incoraggino una cultura della cura che impregni tutta la società. Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo matura e si santifica.

232. Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si trasmette. In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze spirituali.

 

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  Nel magistero di papa Francesco ricorre spesso l’idea del prendersi cura,  riferita anche alle società, non solo all’ambiente naturale.

  Un società, ad esempio la nostra parrocchia, può essere considerata uno strumento  o un ostacolo, a secondo se vi traiamo qualche utilità o ci si mette di traverso per impedirci di ottenere quella a cui in un certo momento puntiamo. Nell’industria dell’allevamento ci si prende cura di un gruppo di animali per trarne una qualche utilità: in questo senso è un’attività economica. Nell’allegoria evangelica del Buon Pastore  questo scopo manca del tutto: è irrealistica, certo, se la si considera riferita alla pastorizia che si esercita sulle greggi, ma coglie nel segno se la interpretiamo come metafora del prendersi cura  di una società umana. Indica una modalità di relazionarsi con essa, in cui il risultato, lo scopo, è puramente e semplicemente il prendersi cura.

 Il Papa ne ha parlato ad esempio, nel discorso del 2019 tenuto nella Diocesi di Roma ai partecipanti ad un convegno:

 

Il secondo tratto necessario – il primo è l’umiltà: per ascoltare, tu devi abbassarti – il secondo tratto necessario per ascoltare il grido è il disinteresse. Viene espresso nel brano evangelico della parabola del pastore che va in cerca della pecora che si è smarrita. Non ha nessun interesse personale da difendere, questo buon pastore: l’unica preoccupazione è che nessuno si perda. Abbiamo interessi personali, noi che siamo questa sera? Ognuno ci può pensare: qual è il mio interesse nascosto, personale, che ho nella mia attività ecclesiale? La vanità? Non so… ognuno ha il proprio. Siamo preoccupati delle nostre strutture parrocchiali?, del futuro del nostro istituto?, del consenso sociale?, di quello che la gente dirà se ci occupiamo dei poveri, dei migranti, dei rom? O siamo attaccati a quel po’ di potere che esercitiamo ancora sulle persone della nostra comunità o del nostro quartiere? Tutti noi abbiamo visto parrocchie che hanno fatto scelte sul serio, sotto l’ispirazione dello Spirito, e tanti fedeli che andavano lì si sono allontanati perché “ah, questo parroco è troppo esigente, anche un po’ comunista”, e la gente se ne va. E quando non arrivano le lamentele al vescovo… E se il vescovo non è coraggioso, se non è un uomo che ha umiltà, un uomo disinteressato, chiama il prete e gli dice: “Non esagerare, sai, un po’ di equilibrio…”. Ma lo Spirito Santo non capisce l’equilibrio, non lo capisce. Capisce la […]. Il disinteresse per sé stessi è la condizione necessaria per poter essere pieni di interesse per Dio e per gli altri, per poterli ascoltare davvero. C’è il “peccato dello specchio”. E noi, preti, suore, laici con la vocazione di lavorare, cadiamo tante volte in questo peccato dello specchio: si chiama narcisismo e autoreferenzialità, i peccati dello specchio che ci soffocano. Il Signore ha ascoltato il grido degli uomini che ha incontrato e si è fatto loro vicino, perché non aveva nulla da difendere e nulla da perdere, non aveva “lo specchio”: aveva la coscienza in preghiera, in contemplazione con il Padre e unta dallo Spirito Santo. Questo è il suo segreto, e per questo è andato avanti. Lascia le novantanove al sicuro e si mette a cercare chi si è smarrito. Noi, invece, come ho detto altre volte, siamo spesso ossessionati per le poche pecore che sono rimaste nel recinto. E tanti smettono di essere pastori di pecore per diventare “pettinatori” di pecore squisite. E passano tutto il tempo a pettinarle. Tante? No. Dieci…, piccola cosa… E’ brutto. Non troviamo mai il coraggio di cercare le altre, quelle che si sono perse, che vanno per sentieri che non abbiamo mai battuto. Per favore, convinciamoci che tutto merita di essere lasciato e sacrificato per il bene della missione. Lasciare l’orgoglio, essere umili, lasciare questo benessere, questo interesse per sé stessi. Mosè, di fronte alla missione, ha avuto paura, ha fatto mille resistenze e obiezioni; ha cercato di convincere Dio a rivolgersi a qualcun altro; ma alla fine, è sceso con Dio in mezzo al suo popolo e si è messo ad ascoltare. Che il Signore ci riempia il cuore dell’audacia e della libertà di chi non è legato da interessi e vuole mettersi con empatia e simpatia in mezzo alle vite degli altri.

 

  In quel contesto si rivolse a clero, religiosi e dirigenti di gruppi ecclesiali riuniti a convegno, ma, in realtà, il discorso ha una portata molto più ampia, che non sempre viene intesa, e, in particolare è implicata nella sinodalità  della quale si vorrebbe spingerci a fare apprendistato, tirocinio.

   Quando, molto di rado, capita che ci chiedono come  ci troviamo in chiesa, di solito accade, vedrete che accadrà anche nell’assemblea sinodale parrocchiale di oggi pomeriggio, che ci mettiamo a dare consigli, o  a proporre pretese, su come gli altri, in particolare i preti, dovrebbero organizzare la nostra  partecipazione alle attività ecclesiali, ad esempio, suggeriamo di essere più accoglienti e di parlarci di questo o di quell’altro, e via dicendo. Del resto, venendo in chiesa, i nostri punti di riferimento sono proprio i preti, a volte i catechisti, gli esponenti più attivi di associazioni, movimenti, confraternite e altri gruppi, e pochi altri. Le altre persone, la maggior parte dei fedeli, non le conosciamo e nemmeno ci interessano molto. E’ anche ciò che accade fuori della chiesa, dove abbiamo giri  di conoscenze e frequentazioni più strette, che compongono il nostro mondo vitale, e tutte le altre persone compongono una massa indistinta della quale abbiamo un’idea sommaria.

 Se poi studiamo la storia dei sinodi dell’antichità, e su quelli dei primi due secoli sappiamo poco o nulla, notiamo che, quando presero a stabilizzarsi come prassi regolare coinvolgevano clero, religiosi, talvolta esperti e, almeno fino al Quattrocento esponenti del potere civile sacralizzato, quindi esponenti dei centri di potere  che potenzialmente confliggevano nel governo ecclesiale e che, dunque, si cercava di far incontrare per arrivare a una mediazione, essenzialmente basata sui rispettivi interessi. Di solito però le situazione di contrasto si trasferivano semplicemente nell’assemblea sinodale e raramente vi venivano risolte, lasciando strascichi e recriminazioni, per cui le controversie si riaccendevano. E’ quello che successe dopo il primo Concilio riconosciuto come ecumenico, celebrato a Nicea, in Anatolia, nel 325, e anche dopo l’ultimo Concilio, il Vaticano 2°, celebrato a Roma, tra il 1962  e il 1965. Nel 381, quando a Costantinopoli, in Tracia, si tenne il secondo Concilio ecumenico, non si era ancora del tutto stabilizzato il consenso sulla cristologia deliberata dal precedente concilio, tenuto oltre cinquant’anni prima. Lo stesso può dirsi di molti dei principi deliberati nel corso dell’ultimo Concilio, al cui centro fu la Chiesa. Le controversie in merito sono ancora vivissime, in particolare tra reazionari, che vorrebbero cancellarli, conciliari, che vorrebbero applicarli nella massima estensione, e riformatori, che vorrebbero svilupparli, ritenendo che negli anni Sessanta, a causa del clima accesissimo nel quale si volse la discussione su alcuni temi, si siano deliberate formule di compromesso che hanno cercato di tenere insieme vecchio e nuovo, con risultati che, nella fase applicativa, hanno creato problemi. In particolare è ancora piuttosto vivace il contrasto di posizioni sul ruolo delle persone laiche nella Chiesa e sulla stessa congruità del termine laico, come sinonimo di chi non è né chierico né religioso, per descrivere la dignità battesimale del fedele cristiano. Come spiegato ripetutamente dal papa Francesco, i cammini sinodali che sono stati aperti sono volti ad una riforma. Lo ha fatto, ad esempio nel discorso tenuto l’anno scorso alla Curia Vaticano il 21 dicembre:

 

8. Sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento: è un passo avanti. Ma se vogliamo davvero un aggiornamento, dobbiamo avere il coraggio di una disponibilità a tutto tondo; si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una nuova Costituzione Apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa.

  Non si tratta di “rattoppare un abito”, perché la Chiesa non è un semplice “vestito” di Cristo, bensì è il suo corpo che abbraccia tutta la storia (cfr 1 Cor 12,27). Noi non siamo chiamati a cambiare o riformare il Corpo di Cristo – «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre!» (Eb 13,8) – ma siamo chiamati a rivestire con un vestito nuovo quel medesimo Corpo, affinché appaia chiaramente che la Grazia posseduta non viene da noi ma da Dio: infatti, «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2 Cor 4,7). La Chiesa è sempre un vaso di creta, prezioso per ciò che contiene e non per ciò che a volte mostra di sé. Alla fine, avrò il piacere di donarvi un libro, dono di Padre Ardura, dove si mostra la vita di un vaso di creta, che ha fatto risplendere la grandezza di Dio e le riforme della Chiesa. Questo è un tempo in cui sembra evidente che la creta di cui siamo impastati è scheggiata, incrinata, spaccata. Dobbiamo sforzarci affinché la nostra fragilità non diventi ostacolo all’annuncio del Vangelo, ma luogo in cui si manifesta il grande amore con il quale Dio, ricco di misericordia, ci ha amati e ci ama (cfr Ef 2,4). Se noi tagliassimo Dio, ricco di misericordia, dalla nostra vita, la nostra vita sarebbe una bugia, una menzogna.

  Durante il periodo della crisi, Gesù ci mette in guardia da alcuni tentativi per uscirne fuori che sono destinati fin dall’inizio ad essere fallimentari, come colui che «strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio»; il risultato è prevedibile: si strapperà il nuovo, perché «al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo». Analogamente «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 5,36-38).

  Il comportamento giusto invece è quello dello «scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli», il quale «è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

 

   In questa concezione, tutti noi siamo chiamati a indossare un vestito nuovo, vale a dire a essere  e fare Chiesa in un modo nuovo, che ci metta in grado di fronteggiare l’evidente crisi nella quale, non solo la nostra Chiesa, ma tutta l’Europa di oggi si trova, in definitiva come il mondo intero. Questo abito nuovo  è appunto, secondo il Papa, la mentalità del prendersi cura. Da un punto evangelico, non è cosa che possa essere ai voti: è semplicemente la nostra fede, la base di tutto. Dobbiamo solo capire come  praticarlo e, in primo luogo, capire che spetta a tutti noi farlo, non solo a coloro che hanno il titolo di pastori. Ad esempio nel partecipare al dialogo nell’incontro sinodale di domani.

  Se partiamo dal proporre progetti  tenendo presente solo ciò che direttamente ci coinvolge, e in particolare le nostre esigenze, ci muoviamo ancora nell’ottica dello sfruttamento  della società. Se li proponiamo con il proposito di togliere di mezzo  quelli che ci ostacolano in parrocchia, ragioniamo sulla società vista come un impedimento al conseguimento di ciò che riteniamo esserci utile. Al fondo di questi atteggiamenti ci sono le nostre emozioni, e  di solito li decidiamo ancor prima di capire perché farlo; talvolta preferiamo non pensarci tanto sopra perché capiamo che approfondendo ci risulterebbe chiaro che sono solo questioni di interessi. Puntiamo essenzialmente a renderci più comoda la vita.

  Se vogliamo impegnarci, tutti, ed è la prima volta nella storia della Chiesa che si è chiamati, in tutto il mondo, a una cosa simile, nel lavoro di riforma  per la via indicata dal Papa, allora dovremmo partecipare all’assemblea sinodale parrocchiale e, soprattutto, agli incontri dei gruppi di lavoro in cui verosimilmente ci si dividerà dopo il primo momento liturgico iniziale, con lo spirito del prenderci cura, chiedendoci di che cosa le altre persone che partecipano e, idealmente, tutte le altre persone della parrocchia, anche quelle che conosciamo solo di vista o nemmeno in quel modo superficiale, benché sappiamo che ci sono,  hanno bisogno per vivere a pieno la loro fede. La prima cosa da fare, se si decide per quel metodo, è di ascoltare, per avere un’idea più precisa degli altri. L’obiettivo è di riuscire a tenere insieme tutte le persone, secondo la missione che ci è stata affidata.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli