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Gradualità
Quanto ai processi sinodali avviati lo scorso ottobre
se ne parla come di una riforma incipiente, di carattere sperimentale. Si
vorrebbe iniziare a cambiare strada facendo, per poi trarre le prime conclusioni dopo
qualche anno, in base a quello che sarà successo. Esse però non chiuderanno il movimento, ne saranno solo
un’altra tappa. Questa la profonda diversità da ciò che si è fatto in
altre epoche storiche, in particolare da quelle
nelle quali il cambiamento è stato disposto nel corso di un concilio.
Nei documenti statutari dei processi di
riforma si è mantenuta una certa ambiguità di prospettive, per la quale chi
pensa a ciò che si va facendo come ad una specie di sondaggio della
gente può avere argomenti. Ma se consideriamo come questa sinodalità ci viene proposta dal Papa, il quale le ha dato avvio, si comprende
bene che è molto di più.
Cominciamo con il dire che, proprio alla
base, dove tutto si vuol far cominciare, vi sono notevoli spazi di auto-organizzazione:
questo è già la realizzazione pratica di
una riforma. Si vuole che si parli liberamente, senza doversi adeguare ad una
specie di copione da mettere in scena. Questo metodo in genere non viene mai
seguito in ambito ecclesiale, salvo che in movimenti come la nostra Azione
Cattolica che, dagli scorsi anni Sessanta, ne fa un proprio tratto
caratterizzante.
L’effettiva realizzazione di questa forma di
libertà richiede una organizzazione di tipo francamente democratico, nella
quale, quindi, appunto, vi sia libertà di parola, con l’obbligo però di
argomentare e di discutere con le altre persone i ragionamenti proposti. Il
presupposto è il riconoscimento della pari dignità delle persone dialoganti.
Essa si basa, ci dicono i teologi, sulla comune dignità battesimale. È chiaro
però che fino ad epoca recente quest’ultima non comportò la libertà di parola nella
Chiesa. E ciò perché si riteneva che la Chiesa, mediante la propria gerarchia,
organizzata intorno al clero, alla teologia ufficiale e agli ordini religiosi,
avesse la prerogativa di definire e proclamare la verità, vale a dire
ciò che si deve pensare e dire se si vuole essere riconosciuti come cristiani,
e che quindi il resto dei persuasi in Cristo non avesse null’altro da fare che mettere
in pratica e diffondere. Ora invece si chiede loro di esprimersi, e
di farlo con libertà, e addirittura audacia, senza temere di essere
accusati di fare confusione, senza l’obbligo di limitarsi a ripetere,
e da questa esperienza si vorrebbero trarre argomenti per poi progettare il
cambiamento.
Quando si insegna la democrazia si parte,
come in genere fanno le persone colte, dal chiarire l’etimologia della parola,
la quale, come molte altre delle culture europee, viene dal greco antico, e
comprende due altre parole di quella lingua che significano popolo e potere,
entrambe con un connotato politico, nel senso che riguardano il governo della
società. Si afferma quindi che democrazia sarebbe il potere del
popolo.
Ora, bisogna capire che quando ai tempi
nostri, in Occidente, si parla di democrazia non si vuole intendere
primariamente un sistema di potere, ma un sistema di valori. Un valore
è un orientamento preminente e stabile di una persona o di un gruppo di persone nel
senso che li caratterizza e si vorrebbe sottratto alla variabilità contingente
delle opzioni, regolate in base alle opportunità, alla convenienza, ed anche
gli equilibri sociali del momento.
Nella democrazia come oggi la si
intende il valore fondamentale non è il potere del popolo, ma il fatto
che in società ogni potere sia limitato, compreso quello stesso del popolo. Gli altri valori non sono che
specificazioni di questa idea base. Nella costruzione del governo democratico segue
la definizione di procedure per adottare validamente decisioni che vengano
riconosciute come proprie della collettività di riferimento. Anche la procedura
è un sistema di limiti, formali questa volta, o, altrimenti detto, rituali.
In questo quadro emerge il principio secondo il quale la decisione
collettiva attuata secondo procedure democratiche, che viene per questo
definita deliberazione del gruppo di riferimento, deve riscuotere
un consenso maggioritario. Questa regola limita il potere delle
oligarchie sociali, ad esempio quello di potenti minoranze basato sulla disponibilità giuridica di
maggiori mezzi economici, e, in particolare, del potere di decisione nelle
aziende. Ma, e questo è molto importante, i valori sono sottratti al
potere di deliberazione delle maggioranze, in quanto principi di sistema. Un
sistema di governo, e in questo senso politico, non può dirsi democratico
se non pone limiti anche al dispotismo delle maggioranze, vale a dire ad un
potere politico che pretenda, sulla base della sola forza delle masse, di
disporre arbitrariamente dei valori. Per questo, ad esempio, secondo il nostro
sistema costituzionale, che è espressione del costituzionalismo europeo
contemporaneo, una larghissima maggioranza della popolazione non può imporre
a minoranze anche molto ristrette costumi religiosi di qualunque tipo. Per
questo vi sono norme specifiche che, su basi costituzionali, prevedono la libertà
religiosa anche di gruppi molto piccoli e, addirittura, della singola
persona, senza che possano validamente essere rovesciate da una qualche
maggioranza politica.
Il fondamento della democrazia politica come oggi
la si intende, che si basa su un sistema di valori non disponibile da parte
delle maggioranze, non è in genere compreso dal Magistero cattolico, che quindi
è portato a diffamare la democrazia contemporanea solo come un sistema di procedure
che rendono, considerando solo la conta
dei voti, i valori disponibili arbitrariamente da parte di maggioranze e a
preferirle l’oligarchia gerarchica. Tuttavia può essere facilmente
dimostrato ricordando realisticamente la nostra storia che i valori non sono
stati assolutamente al sicuro nelle mani di quel tipo di oligarchia, e, in
particolare, quelli evangelici. Le efferate e vaste brutalità riferibili alla
politica della gerarchia ecclesiale furono storicamente determinate dalla
volontà di annientare ogni dissenso, diffamandolo come eresia, quindi
come colpevole lacerazione del Corpo, a prescindere da questioni di valori
evangelici, in particolare anticipando arbitrariamente, contro il
comando evangelico, la resa dei conti con ciò che veniva considerato zizzania
sociale.
Una conseguenza del principio democratico del
limite ad ogni potere sociale è il principio di gradualitá dei
processi di riforma sociale, che significa sforzarsi di estenderne il consenso
nella base sociale non facendone solo oggetto di imposizione dall’alto,
in particolare prevedendo fasi di sperimentazione che ne consentano una messa a
punto secondo le particolarità delle società di riferimento.
Ma, si potrebbe obiettare, se si è
individuata una soluzione organizzativa valida, perché si dovrebbe tener conto
delle resistenze sociali, trattenendosi dal sovrastarle con la forza? In altri
termini, se si è definita una verità, perché non imporla ai renitenti?
In effetti, fino ad epoca recente, nella nostra Chiesa si è agito appunto di
forza, stabilendo l’obbligo di adeguarsi a ciò che veniva disposto che fosse
creduto. In questa prospettiva, come ho osservato, verità era intesa
come ciò che doveva essere creduto per essere riconosciuti come
parte della Chiesa, in particolare come una certa definizione nominalistica
della fede formulata dalla gerarchia. Sotto questo profilo nella nostra Chiesa
ha imperato, e per certi versi tuttora impera, una tirannia della gerarchia.
Ma i processi sinodali che si sono da poco aperti non riguardano
questioni di definizione, ma vogliono sperimentare un nuovo sistema di
relazioni ed è per questo che non sono stati principalmente arruolati dei
teologi per guidarli e invece vi è stata applicata tutta la gente di
fede, vale a dire, quindi, quella che affida al Cristo la propria vita. La
gradualità di quei processi è connaturata a questo metodo, per il quale la
sinodalitá ecclesiale prima che definita va scoperta.
Mario
Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli