La sinodalitá come vita
cristiana
Una nuova impostazione nel modo di considerare
il valore dei laici arrivò con il concilio Vaticano 2º (1962-1965). Il concilio
fu annunziato da Giovanni 23º senza che il Papa indicasse le tematiche che
dovevano essere trattate. Furono, invece, i vescovi ad essere interrogati per
sapere quali problemi ritenessero più importanti per un rinnovamento pastorale della
chiesa. Le risposte dei vescovi andarono a toccare le questioni più diverse. I
vescovi tedeschi complessivamente seguirono da vicino il votum molto
elaborato del cardinal Döpfner, allora vescovo di Berlino, presentato nel
novembre del 1959. Döpfner propose che compito del concilio fosse «annunciare
davanti a tutto il mondo la dignità dell’essere umano», presentare «una specie
di “carta” dei diritti umani». I fedeli sono membri della chiesa ai quali Dio
dona la sua grazia, per questo i laici non dovrebbero esser considerati a
partire dai chierici, ma positivamente a partire dal battesimo e dalla cresima.
All’accenno messo sulla struttura gerarchica deve seguire ora il riconoscimento
della chiesa come popolo santo di Dio, il quale, in base alla sua natura di «sacramento
primordiale» deve svolgere una «funzione sacerdotale» nei confronti del mondo».
[da Peter NEUNER, Per
una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]
Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo
scorso, in Europa Occidentale, era molto vivo tra le persone laiche lo scandalo
della loro emarginazione nella Chiesa cattolica, mentre, al contrario, il loro
ruolo nelle nuove democrazie costruite nel secondo dopoguerra e nelle altre Chiese
cristiane era diventato sempre più importante, anche nel campo etico, tanto che
poi sfociò nell’edificazione dell’unità continentale, sul fondamento dei diritti
universali dell’uomo.
Ai tempi nostri la situazione, almeno in
Europa occidentale, è molto diversa e questo per la marcata desacralizzazione dell’autorità
del clero cattolico, e in particolare di quella del Papa, che paradossalmente
si è manifestata insieme a una sensibile desecolarizzazione delle concezioni
comuni in società. Specchio di quest’ultimo fenomeno, avvertibile ormai in
tutto il mondo, può essere considerato l’ampio spazio che, in Italia, quotidiani che furono storicamente fortemente
anticlericali riservano oggi ai detti e
agli scritti di Papa e vescovi. Due giorni fa era l’anniversario della presa di
Roma da parte dell’esercito italiano, con l’abbattimento dello Stato Pontificio
e il completamento dell’unità nazionale, occasione in cui tradizionalmente si
rinfocolavano le polemiche anticlericali, e su media non se ne è praticamente
trattato. Ma è significativo anche l’accento che si dà ai diritti civili fondamentali,
quindi non condizionati dai rapporti di forza o sociali del momento, e, in
questo senso, non negoziabili. Questo clima culturale è favorevole alla proposta di una sinodalità
come espressione comune della vita cristiana che ci è venuta. Molto condivisibilmente
si è però posto il tema dell’agente collettivo in grado di sorreggere in
società questo programma di riforma. Infatti, proprio per le caratteristiche
dei tempi, il clero non può bastare. Esso, di fronte ai temi della fede, non
appare più distinto dalle persone laiche: ha gli stessi problemi, le stesse
ansie, ma anche gli stessi aneliti. Parlo, naturalmente, cercando di
sintetizzare una linea di tendenza, ma so che nel clero e tra le persone laiche
ci sono anche quelli che vivono la fede come negli anni Cinquanta, e non mi
interessa criticarli né pretendere che cambino. Accetto pienamente il
pluralismo, anche se ovviamente contrasto vivamente quelli che del passato
vorrebbero mantenere o per meglio dire riesumare il totalitarismo religioso, e
quindi coartarmi.
Non è
più tanto questione di bilanciamento di poteri tra clero e laici (i religiosi
si sono via via clericalizzati, come storicamente in precedenza il clero aveva
assunto costumi dei religiosi), ma più in generale di come essere cristiani nella società in cui
viviamo.
La questione va contestualizzata nell’Europa
occidentale di oggi, perché altrove i problemi sono diversi, e anche molto
diversi. Certamente nel Sinodo universale che è stato convocato, che non
riguarda solo i vescovi del mondo ma tutte le persone che si riconoscono
nell’espressione popolo di Dio, difficilmente si troverà un modo solo
per dare concretezza alla sinodalitá. Ad esempio, nelle Chiese africane mi pare
ancora sensibile la sacralizzazione del potere gerarchico.
Döpfner, nel ’59, scriveva di battezzati e
cresimati come connotazione essenziale dei membri del Popolo di Dio, ma,
se affrontiamo con spirito pratico il tema della sinodalitá come
espressione comunitaria della vita cristiana, quello potrebbe non
bastare. Bisognerebbe prendere in considerazione il caso, che in una persona
chiamata alla sinodalitá, pur battezzata e cresimata, manchi il consenso ad
essa. A questa persona potrebbero bastare la partecipazione alla vita liturgica
animata da clero e religiosi, le tradizionali opere di carità e di
misericordia, e un’accettazione di principio dei doveri etici fondamentali. Del
resto così a lungo l’accento fu posto sulle virtù dell’obbedienza e della docilità…
Il problema ha aspetti pratici di non poco
conto, che si sono posti ad esempio nelle parrocchie che hanno sperimentato la
convocazione di propri sinodi. Quando ci si aggrega bisogna stabilire criteri
di riconoscimento e di attribuzione di facoltà e poteri. Altrimenti diventa
impossibile procedere ordinatamente e questo anche nelle realtà di base, come
le parrocchie. Insomma, procedendo nella sinodalitá diffusa, che significa
co-decisione e co-responsabilità occorre
acquisire il consenso e e l’impegno delle persone coinvolte.
Se si volesse iniziare un processo sinodale
in una parrocchia come la nostra, ci dovremmo confrontare con i circa 1000 –
1500 praticanti abituali, tra giovani, adulti e anziani, per circa il 70%
ultracinquantenni, con la necessità, per poter lavorare utilmente, e anzitutto
per potersi riunire, di suddividerli in una decina di assemblee minori, e di
progettare un programma complesso di formazione, conoscenza e poi istituzioni
di co-decisione. Che accadrebbe se, al dunque, in una fase avanzata di
aggregazione si presentasse a partecipare tanta più gente? D’altra parte, con
criteri troppo restrittivi, si finirebbe per creare i problemi che hanno avuto
i gruppi con disciplina settaria, che riservano quello che intendiamo ora per
sinodalità a cerchie ristrette di iniziati.
Fermo restando che l’accesso alla pastorale
(liturgie, sacramenti, formazione) deve essere universale, non si può
procedere sulla via della vera sinodalitá senza strutturare percorsi che consentano di riconoscere il
consenso di chi è coinvolto, in modo che quest’ultimo abbia per noi un volto.
Oggi si frequenta la parrocchia con uno
spirito che è una via di mezzo tra chi va ad un santuario, chi va ad un
ambulatorio ASL e chi va a teatro. Si rimane sostanzialmente estranei gli uni
agli altri. D’altra parte non sempre si ha voglia di avvicinarsi più di tanto e,
quando si è forzati a farlo, ci si sente soffocare e come rinchiusi. Hanno un
bell’argomentare i teologi sul loro soprannaturale! Nella costruzione sociale,
e quando si parla di sinodalitá diffusa è questo che si fa, i problemi sono
proprio questi.
Mario Ardigó – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli