Ascoltare
L’ascolto è il primo passo, ma richiede di
avere mente e cuore aperti, senza pregiudizi. Verso chi la nostra Chiesa
particolare è “in debito di ascolto”? Come vengono ascoltati i Laici, in
particolare giovani e donne? Come integriamo il contributo di Consacrate e
Consacrati? Che spazio ha la voce delle minoranze, degli scartati e degli
esclusi? Riusciamo a identificare pregiudizi e stereotipi che ostacolano il
nostro ascolto? Come ascoltiamo il contesto sociale e culturale in cui viviamo?
Noi
persone laiche non siamo mai ascoltate. Quello che diciamo non conta nulla. Noi
non contiamo nulla. Dovunque ci è sbarrata la strada. Ci siamo abituati.
Lasciamo fare. Tutto sommato è anche più comodo. Fin da piccoli siamo abituati
così. Da grandi siamo trattati come se fossimo sempre piccoli.
Sono i
nostri vescovi che ci chiedono se veniamo ascoltati. Non lo sanno che nessuno
ci ascolta? O immaginano di vivere in un mondo diverso, immaginano di
ascoltarci?
Noi
persone laiche siamo scartate ed escluse,
vittime di pregiudizi e stereotipi, di un immaginifica tradizione teologica che
vieta di ascoltarci e ci riduce a semplice gregge.
Le Consacrate
forse stanno ancora peggio. I Consacrati no, se sono preti, perché allora
sono inquadrati in quelli che comandano per diritto divino, quelli che quindi
hanno anche il diritto di essere ascoltati da noi.
Questa è
la realtà.
Che cosa
volevate che dicessimo? Volevate che vi ripetessimo le vostre fantasie di comunione?
La
Chiesa sta forse finendo? E’ possibile. Sopravviverà dove saprà cambiare. Le
istituzioni che abbiamo ricevuto dalla tradizione sono invece condannate. Non
sono riformabili.
La
scelta di indurre un processo sinodale, non solo di celebrare un Sinodo di vescovi, è stata lungimirante. E’
stata preceduta da sperimentazioni, scrivono gli esperti: il Sinodo
dell’Amazzonia, quello sulla famiglia, quello sui giovani. E’ il metodo giusto
di procedere, per sperimentazioni.
Questa
volta non si tratta di fiancheggiare il Sinodo dei vescovi, che si terrà nel 2023,
ma di essere noi Sinodo, a partire da una realtà di prossimità come la
nostra parrocchia.
Si è
aperto uno spazio per noi, ma certamente non siamo stati preparati a questo.
Ogni strada ci era sbarrata. E ancora fatichiamo a farci largo nella teologia
di corte che ha cercato di dare una giustificazione razionale alla nostra
umiliazione.
Per
quella via si è perso molto del vangelo. Molte persone vi hanno perso
dimestichezza, da troppo tempo si sono allontanate. Questa è una grave
situazione di deprivazione. L’istituzione che ha resistito alla riforma ne è
stata l’artefice, non lo spirito dei tempi. Ora non sappiamo nemmeno più da
dove cominciare. Non osiamo nemmeno prendere l’iniziativa di occasioni di
incontro in parrocchia per discutere delle domande che i nostri vescovi ci
fanno. Chi risponderà? Chi ha risposto le altre volte? Quanti di voi hanno
potuto parlare? Ma, come è stato giustamente osservato, non basta aprire
la bocca e tirar fuori le cose che una persona ha in testa. Bisogna rispondere
come comunità, quindi dopo averne parlato. Non è qualcosa come un sondaggio.
Sono domande che vogliono suscitare una discussione. Discutere richiede di
avvicinarsi e di conoscersi. Di dare ordine al dibattito. Quel fare ordine per
poter discutere sarebbe già l’embrione del nuovo.
E’ bene
chiarirlo. Qui non c’è una maggioranza che esclude una minoranza, ma una
minoranza che silenzia una maggioranza. Finora la gerarchia, che come un
tempo pensa di poter fare Chiesa anche senza di noi, non ha voluto veramente
ascoltarci, perché quello che veniva fuori da noi non la soddisfaceva. Noi
possiamo parlare solo leggendo la nostra parte sul foglietto preparato da altri. Quando ci consultano, non
sono obbligati a farlo, e possono fare sempre come pare loro, anche contro il
nostro parere. Quanti siamo, di persone di fede a Roma? Centinaia di migliaia
certamente, ma non contiamo quanto le poche decine di persone che compongono la
gerarchia locale. E non solo sulle sofisticate questioni di teologia, ma su
ogni altra cosa, anche, ad esempio, sugli arredi delle chiese parrocchiali.
Criticano chi apprezza certe aperture recenti dicendo che fa
sociologia e che vuole ridurci come un parlamento. Ma la sociologia, a
differenza della teologia, cerca di conoscere veramente le società che
studia e organizzasi in parlamento non è un ridursi, ma un elevarsi,
in dignità, in libertà. Nel parlamento si ha voce. Nella nostra Chiesa non
viene mai il tempo, per noi persone laiche, di parlare con franchezza. Se lo si
fa, poi si viene emarginati. Non c’è più la violenza brutale di un tempo, ma ce
n’è una più subdola, che si ammanta di mitezza.
Non è
così? Non è più così?
Vorrei
veramente che non fosse più così. Allora il nostro Consiglio pastorale
parrocchiale potrebbe deliberare un programma per crescere nel processo sinodale, per poterci incontrare
sistematicamente, per potere imparare che cosa è sinodalità. La sinodalità
non è innata, appunto si impara. A volte si tira fuori il sensus fidei
di noi, Popolo di Dio, e questo significa che noi avremmo una specie di intuito
che ci porta verso la verità. Io certamente non me lo sento dentro, e
voi? Storicamente ciò che si è voluto affermare come verità è costato molta violenza,
non c’è quasi mai stato quella specie di spontaneo convergere di cui
parla la teologia. E meno male che non sono un teologo, perché allora avrei un
bel problema a far quadrare i conti. Convergere pacificamente richiede
fatica e pazienza e il risultato non è
mai assicurato, ma già discutere in pace è, in fondo, un grosso risultato.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli