La lettera del Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma al
direttore di La Repubblica in merito agli argomenti esposti dal Papa in
una catechesi del 25 agosto 2021, commentando un brano della Lettera a Galati, sull'osservanza dei precetti della Legge ebraica e ai commenti che ne sono seguiti
Caro
Direttore,
mentre le nostre preoccupazioni sono
concentrate sul Covid e i fatti afghani, sembrerebbe strano distrarci su una
piccola recente polemica interreligiosa. Ma l'argomento è di qualche interesse
e sono utili delle spiegazioni. La cosa nasce da un recente commento papale
alla lettera ai Galati di Paolo, in cui si parlava del ruolo della legge, la
Torah, rispetto alla fede [di seguito trascritto]; ne è seguita una
protesta. A difesa di Paolo e di chi l'ha citato è stato tirato in ballo anche
il Baal Shem Tov (m. nel 1760), il mitico fondatore del Chasidismo in Europa
Orientale, con una sua frase sul senso delle azioni; da lui si può cominciare
con un'altra sua frase. Ai tempi del Baal Shem Tov non c'erano trasporti
pubblici e bisognava affidarsi a cocchieri sconosciuti. Il Maestro, che
viaggiava molto, aveva una regola per decidere chi fosse affidabile. Se il
cocchiere, passando davanti a una Chiesa, si faceva il segno della croce, ci si
poteva fidare da lui. Per il Baal Shem Tov un semplice atto di fede, anche se
non ebraica, era una patente di credibilità. Tanto conta, per i grandi Maestri
dell'ebraismo, la fede. La religione ebraica è fatta di regole da osservare,
insieme a un sistema di credenze. Dalle lontane origini fino a oggi, si discute
nell'ebraismo sul valore che possa avere l'osservanza dei precetti senza
un'adeguata partecipazione spirituale, senza credere. I Maestri che prima e
dopo il Baal Shem Tov hanno sottolineato l'assoluta importanza della fede sono
tanti. Ma nessuno di questi si è mai sognato di dire che se non c'è fede non
bisogna osservare, e che l'osservanza serva solo a preparare a una nuova fede.
Il problema se lo pose il cristianesimo nascente, soprattutto quando dovette
trovare una formula per differenziarsi dalla matrice ebraica. La soluzione
proposta da Paolo fu, molto semplicemente, che non solo dovesse prevalere la
fede, ma che l'osservanza fosse ormai superata; bisognava credere e non si era
sottoposti alle leggi della Torah. In questa sua scelta Paolo richiamava dei
temi discussi nell'ebraismo dei suoi tempi, era convinto che tempi nuovi
richiedessero riforme radicali, ma dicendo che la Torah era abrogata si metteva
fuori dall'ebraismo e creava una religione differente.
Ma oggi che ci importa di queste discussioni
di duemila anni fa? È perché possono essere l'oggetto di predicazione al vasto
pubblico, aprendo scenari problematici. Perché riproporre in termini
semplificati le contrapposizioni antiche comporta il rischio di confermare
stereotipi ostili, nel caso particolare quello dell'ebraismo come religione
abrogata e formalistica, tutta doveri, senza spirito, o semplice preparazione,
"pedagogia" alla nuova fede. Trattare questi temi richiede attenzione
e valutazione delle ricadute. Stupiscono anche certe difese di ufficio, in cui
si arriva a dei paradossi. A chi ha protestato per il modo in cui sono state
spiegate le parole di Paolo, è stato risposto che Paolo voleva solo dire che
per lui la Torah senza fede non ha valore, e in questo affermava un principio
ebraico. Certamente Paolo ha solidi riferimenti alla tradizione ebraica, ma il
suo pensiero è anche rivoluzionario. Non si può dire che il suo pensiero è
ebraismo proprio quando propone la sua rilettura radicale della Torah, che gli
serve da introduzione a una nuova fede; né affermare oggi che chi difendeva la
Torah era un "missionario fondamentalista", termine che in questi
giorni andrebbe ben diretto altrove. Il Baal Shem Tov metteva la fede in primo
piano, anche la fede dei non ebrei, ma la Torah non la relativizzava. Sarebbe
utile usare la lezione del Baal Shem Tov non per fargli dire cose che non ha
mai sognato di dire, ma per insegnare il rispetto reciproco, che in questo caso
non c'è stato.
Riccardo Di
Segni
Rabbino Capo, Comunità
ebraica di Roma
[pubblicata su La Repubblica del 2-9-21]
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PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 25 agosto 2021
Catechesi
sulla Lettera ai Galati -
6. I
pericoli della Legge
Fratelli e
sorelle, buongiorno!
La Lettera ai Galati riporta un fatto
piuttosto sorprendente. Come abbiamo ascoltato, Paolo dice di avere
rimproverato Cefa, cioè Pietro, davanti alla comunità di Antiochia, perché il
suo comportamento non era buono. Cos’era successo di così grave da obbligare
Paolo a rivolgersi in termini duri addirittura a Pietro? Forse Paolo ha
esagerato, ha lasciato troppo spazio al suo carattere senza sapersi trattenere?
Vedremo che non è così, ma che ancora una volta è in gioco il rapporto tra la
Legge e la libertà. E dobbiamo tornare su questo tante volte.
Scrivendo ai Galati, Paolo menziona
volutamente questo episodio che era accaduto ad Antiochia anni prima. Intende
ricordare ai cristiani di quelle comunità che non devono assolutamente dare
ascolto a quanti predicano la necessità di farsi circoncidere e quindi cadere
“sotto la Legge” con tutte le sue prescrizioni. Ricordiamo che sono questi
predicatori fondamentalisti che sono arrivati lì e hanno creato confusione, e
hanno anche tolto la pace a quella comunità. Oggetto della critica nei
confronti di Pietro era il suo comportamento nella partecipazione alla mensa. A
un giudeo, la Legge proibiva di prendere i pasti con i non ebrei. Ma lo stesso
Pietro, in un’altra circostanza, era andato a Cesarea nella casa del centurione
Cornelio, pur sapendo di trasgredire la Legge. Allora affermò: «Dio mi ha
mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo» (At 10,28).
Una volta rientrato a Gerusalemme, i cristiani circoncisi fedeli alla Legge
mosaica rimproverarono Pietro per questo suo comportamento, ma lui si
giustificò dicendo: «Mi ricordai di quella parola del Signore che diceva:
“Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo”.
Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto
nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?”» (At 11,16-17).
Ricordiamo che lo Spirito Santo è venuto in quel momento nella casa di Cornelio
quando Pietro è andato lì.
Un fatto simile era accaduto anche ad
Antiochia in presenza di Paolo. Prima Pietro stava a mensa senza alcuna
difficoltà con i cristiani venuti dal paganesimo; quando però giunsero in città
alcuni cristiani circoncisi da Gerusalemme – coloro che venivano dal giudaesimo
–allora non lo fece più, per non incorrere nelle loro critiche. È questo lo
sbaglio: era più attento alle critiche, a fare buona figura. E questo è grave
agli occhi di Paolo, anche perché Pietro veniva imitato da altri discepoli,
primo fra tutti Barnaba, che con Paolo aveva evangelizzato proprio i Galati
(cfr Gal 2,13). Senza volerlo, Pietro, con quel modo di fare –
un po’ così, un po’ colà… non chiaro, non trasparente – creava di fatto
un’ingiusta divisione nella comunità: “Io sono puro… io vado per questa linea,
io devo andare così, questo non si può…”
Paolo, nel suo rimprovero – e qui è il
nocciolo del problema – utilizza un termine che permette di entrare nel merito
della sua reazione: ipocrisia (cfr Gal 2,13).
Questa è una parola che tornerà tante volte: ipocrisia. Credo che
tutti noi capiamo cosa significa. L’osservanza della Legge da parte dei
cristiani portava a questo comportamento ipocrita, che l’apostolo intende
combattere con forza e convinzione. Paolo era retto, aveva dei suoi difetti –
tanti, il suo carattere era terribile – ma era retto. Cos’è l’ipocrisia? Quando
noi diciamo: state attento che quello è un ipocrita: cosa vogliamo dire? Cosa è
l’ipocrisia? Si può dire che è paura per la verità. L’ipocrita ha
paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere sé stessi. È
come truccarsi l’anima, come truccarsi negli atteggiamenti, come truccarsi nel
modo di procedere: non è la verità. “Ho paura di procedere come io sono e mi
trucco con questi atteggiamenti”. E la finzione impedisce il coraggio di dire
apertamente la verità e così ci si sottrae facilmente all’obbligo di dirla
sempre, dovunque e nonostante tutto. La finzione ti porta a questo: alle mezze
verità. E le mezze verità sono una finzione: perché la verità è verità o non è
verità. Ma le mezze verità sono questo modo di agire non vero. Si preferisce,
come ho detto, fingere piuttosto che essere sé stesso, e la finzione impedisce
quel coraggio, di dire apertamente la verità. E così ci si sottrae all’obbligo
- e questo è un comandamento - di dire sempre la verità, dirla dovunque e dirla
nonostante tutto. E in un ambiente dove le relazioni interpersonali sono
vissute all’insegna del formalismo, si diffonde facilmente il virus
dell’ipocrisia. Quel sorriso che non viene dal cuore, quel cercare di stare
bene con tutti, ma con nessuno…
Nella Bibbia si trovano diversi esempi in cui
si combatte l’ipocrisia. Una bella testimonianza per combattere l’ipocrisia è
quella del vecchio Eleazaro, al quale veniva chiesto di fingere di mangiare la
carne sacrificata alle divinità pagane pur di salvare la sua vita: far finta
che la mangiava, ma non la mangiava. O far finta che mangiava la carne suina ma
gli amici gliene avevano preparata un’altra. Ma quell’uomo timorato di Dio
rispose: «Non è affatto degno della nostra età fingere, con il pericolo che molti
giovani, pensando che a novant’anni Eleazaro sia passato alle usanze straniere,
a loro volta, per colpa della mia finzione per appena un po’ più di vita, si
perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia»
(2 Mac 6,24-25). Onesto: non entra sulla strada dell’ipocrisia. Che
bella pagina su cui riflettere per allontanarsi dall’ipocrisia! Anche i Vangeli
riportano diverse situazioni in cui Gesù rimprovera fortemente coloro che
appaiono giusti all’esterno, ma dentro sono pieni di falsità e d’iniquità
(cfr Mt 23,13-29). Se avete un po’ di tempo oggi prendete il
capitolo 23 del Vangelo di San Matteo e vedete quante volte Gesù dice:
“ipocriti, ipocriti, ipocriti”, e svela cosa sia l’ipocrisia.
L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e
trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di
confrontarsi con la verità. Per questo, non è capace di amare veramente – un
ipocrita non sa amare – si limita a vivere di egoismo e non ha la forza di
mostrare con trasparenza il suo cuore. Ci sono molte situazioni in cui si può
verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro, dove si cerca
di apparire amici con i colleghi mentre la competizione porta a colpirli alle
spalle. Nella politica non è inusuale trovare ipocriti che vivono uno
sdoppiamento tra il pubblico e il privato. È particolarmente detestabile
l’ipocrisia nella Chiesa, e purtroppo esiste l’ipocrisia nella Chiesa, e ci
sono tanti cristiani e tanti ministri ipocriti. Non dovremmo mai dimenticare le
parole del Signore: “Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal
maligno” (Mt 5,37). Fratelli e sorelle, pensiamo oggi a ciò che
Paolo condanna e che Gesù condanna: l’ipocrisia. E non abbiamo paura di essere
veritieri, di dire la verità, di sentire la verità, di conformarci alla verità.
Così potremo amare. Un ipocrita non sa amare. Agire altrimenti dalla verità
significa mettere a repentaglio l’unità nella Chiesa, quella per la quale il
Signore stesso ha pregato.