Appunti su sinodo e metodo sinodale
Luglio – Settembre 2021
0. Ad agosto, in preparazione al Sinodo della
Chiesa italiana il cui processo inizierà nel prossimo ottobre, ho scritto vari
appunti, anche sulla base delle letture che andavo facendo. Sono stati pubblicati sul blog
acvivearomavalli.blogspot.com. Ve li ripropongo di seguito in un solo
documento.
1. Due Sinodi da non confondere
Dall’ottobre di
quest’anno all’ottobre 2023, si svolgerà il processo sinodale per
la celebrazione, appunto nell’ottobre 2023, della 16° Assemblea generale
ordinaria del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale:
comunione, partecipazione, missione”. Nel programma quel processo dovrebbe
essere aperto all’ascolto della totalità dei
battezzati. Spesso, però, in occasioni simili, l’ascolto si è risolto in
una semplice formalità liturgica. Già si mettono le mani avanti contro
il parlamentarismo, vale a dire sull’organizzazione di sedi in cui
la gente possa discutere realmente e innanzi tutto manifestare
il disagio per l’indecorosa condizione di umiliazione delle persone laiche.
Il Sinodo della
Chiesa italiana è un processo diverso, distinto, anche se, pensando di coordinarlo con quello
della Chiesa universale, si finirà per fare confusione. Ad esempio si vuole far coincidere la prima fase dei due processi, quella che nel Sinodo
generale è pensata per il solo ascolto e che nel Sinodo
nazionale dovrebbe essere più focalizzata sulla partecipazione.
Ma il Sinodo della Chiesa italiana dovrebbe avere un tema più preciso, l’invito
a rinnovare l’agire ecclesiale attraverso un costante discernimento comunitario,
di quello della Chiesa generale (il metodo sinodale). In
particolare dovrebbe essere più centrato propriamente su una riforma.
Si rischia che il Sinodo nazionale finisca per essere incanalato in quello
generale e quindi in certo grado anche coartato verso le medesime conclusioni.
Ma non è detto che quello che sembra buono per una comunità nelle Filippine o
in Sud America vada altrettanto bene, ad esempio, per la nostra parrocchia
romana.
Il Sinodo della Chiesa
italiana si svolgerà da questo mese di ottobre all’ottobre 2025 (anno del
Giubileo).
Nel Sinodo della Chiesa
nazionale si dovrebbe cercare di ottenere che le persone laiche non
siano solo ascoltate, in quello che di volta in volta è loro
concesso di esprimere, ma anche che le loro proposte siano realmente
discusse.
I commentatori hanno
evidenziato che si tratta del primo Sinodo della Chiesa
Italiana, in quanto in precedenza si è proceduto per Convegni
eucaristici e Settimane sociali, eventi che sono
accomunati da questo metodo: sono i vescovi a decidere chi, delle persone
laiche, può intervenire e anche i temi su cui possono parlare. Si manifesta
così una bella uniformità, che però, al dunque, serve poco. Mi pare che in
genere si faccia gran sfoggio dell’ecclesialese e che, da quello
che ne ho letto, la parrèsia, la franchezza nel dire, sia stata in
passato molto evidente. Non di rado i documenti di lavoro mi sono sembrati indigeste
sbrodolature, in cui si dice e non si dice e quello che si dice può essere poi
interpretato in sensi opposti. D’altra parte mi pare di capire che la
franchezza evangelica si possa praticare, se proprio se ne ha l’animo, una
volta sola, perché contrariare i nostri gerarchi può costare caro e non vengono
concesse repliche. Non siamo un parlamento, viene detto. E’
vero, non lo siamo, ma, in fondo, non sarebbe male esserlo in qualche fase del
cosiddetto ascolto. Altrimenti si parla, si scrive, ma
nessuno veramente ascolta. La verità scende dall’alto e si è infallibilmente
liberi di crederle. Chi crede in questo modo ha il cosiddetto sensus
fidei, che sarebbe una specie di capacità di intuire la verità senza
bisogno di ragionarci sopra, e nel complesso così facendo si sarebbe
addirittura, complessivamente, infallibili, altrimenti si sbaglia
perché si parlamentarizza le questioni e discutendo si
finisce per dividersi. Ma, osservo, se non si ragiona sulle questioni, l’uniformità
è solo di facciata e nasconde i problemi non risolti. Chi poi non si uniforma è
spinto ai margini. Insomma, non è più come quando Montini, a chi,
nella fase preparatoria del famoso Convegno ecclesiale nazionale Evangelizzazione
e promozione umana del ’76, gli faceva notare che lo storico
Pietro Scoppola era un animo molto libero e poteva creare problemi nel comitato
organizzatore, rispose che, sì, egli era un cattolico a modo
suo ma che andava bene così.
Di questo Sinodo
si è discusso nel maggio scorso nella 74° Assemblea generale della Conferenza
episcopale italiana, organizzata appunto sul tema «Annunciare
il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale». Ma
non si è discusso solo di sinodo. E’ stata approvata la seguente mozione: «I
Vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo
quanto indicato da Papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta
d’intenti presentata al Santo Padre. Al tempo stesso, affidano al Consiglio
Permanente il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi,
tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo
dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle
riflessioni di questa Assemblea».
Ecco la Carta
d’intenti.
Annunciare il Vangelo
in un tempo di rinascita
Carta d’intenti per il
“Cammino sinodale”
L’incontro della Presidenza della CEI
con Papa Francesco lo scorso 27 febbraio ha fatto maturare la scelta di avviare
il Cammino sinodale delle Chiese in Italia. La decisione s’è arricchita con il
passaggio e i contributi del Consiglio Permanente del 24-22 marzo 2021. Con la
presente Assemblea Generale dei Vescovi (24-27 maggio 2021) s’intende quindi
dare inizio al “Cammino sinodale”. Il percorso non può essere precostituito per
due ragioni: la prima, perché la pandemia insegna che basta poco per far
saltare certezze consolidate o accelerare fenomeni in atto su cui poco si è
riflettuto in passato; la seconda, perché la dinamica del processo sinodale
richiede che il cammino si costruisca e cresca facendo tesoro dell’ascolto,
della ricerca e delle proposte che emergono lungo il percorso. In tal modo si
attiva il ritmo della comunione e lo stile della sinodalità che ne è lo
strumento.
1. Il “Cammino
sinodale” perché?
È prevedibile che i motivi di fondo che
stanno alla base della scelta sinodale possano essere messi a fuoco e ricevere
un arricchimento lungo il “Cammino sinodale”. Li tratteggiamo brevemente.
a) Nel travaglio del
tempo presente. La pandemia sta mettendo in ginocchio le comunità cristiane,
diocesane e parrocchiali. Con profezia e parresía occorre mettersi
in ascolto della vita personale e comunitaria per intercettare nuove domande e
tentare nuovi linguaggi, tenendo conto della difformità dei vari territori che
compongono il Paese. Si prospetta uno scenario multiforme (aiuta qui l’immagine
del poliedro, cfr. Evangelii gaudium, 236), in cui stimolare e accompagnare la
rigenerazione, rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli
ultimi anni, riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale attraverso un
costante discernimento comunitario. Una lettura cristiana del
tempo presente potrà raccogliere i segni di rinnovamento per il dopo-pandemia.
A questo proposito, nel
novembre 2020 il Consiglio Episcopale Permanente affermava: «Ci sembra di
intravedere, nonostante le immani difficoltà che ci troviamo ad affrontare, la
dimostrazione che stiamo vivendo un tempo di possibile rinascita sociale. È
questo il migliore cattolicesimo italiano, radicato nella fede biblica e
proiettato verso le periferie esistenziali, che certo non mancherà di chinarsi
verso chi è nel bisogno, in unione con uomini e donne che vivono la
solidarietà e la dedizione agli altri qualunque sia la loro appartenenza
religiosa. […] È sulla concreta carità verso chi è affamato, assetato,
forestiero, nudo, malato, carcerato che tutti infatti verremo giudicati, come
ci ricorda il Vangelo (cfr. Mt 25,31-46)».
La Chiesa è chiamata nel tempo
della rinascita a coltivare un ascolto, un’immaginazione e una pratica in vista
di un’Agenda di “temi di ricerca” che si lascia fecondare dall’annuncio
evangelico e da quanto stiamo imparando dalla pandemia. Piuttosto che cercare
affannosamente soluzioni immediate, sarà importante indicare i “punti cruciali”
dell’azione pastorale per il prossimo futuro, facendo tesoro di quanto abbiamo
imparato nel travaglio del tempo presente: l’abbondante semina della Parola
anche attraverso canali di ascolto rinnovati; la proposta della lectio e della
meditazione personale quale nutrimento per la vita spirituale; la formazione
della coscienza; il ricupero dell’aspetto escatologico della fede cristiana
nell’aldilà e nella speranza oltre la morte; la complementarità di celebrazioni
sacramentali nelle comunità e di forme rituali vissute nello spazio familiare;
la catechesi proposta con modalità e luoghi che superino il modello scolastico;
l’azione educativa verso ragazzi, adolescenti e giovani adatta ad accompagnare
nei passaggi della vita; la necessità di un’alleanza familiare per correggere
il regime di appartamento e aprirlo alla scuola e alla comunità; l’urgenza di
una nuova stagione di solidarietà e carità, per venire incontro all’aumento
prevedibile e drammatico delle povertà materiali e della solitudine spirituale;
la forza dell’impegno civile attraverso i corpi intermedi della società che è
stato il collante nel momento della crisi; e, non da ultimo, la pratica di una
cittadinanza e di un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata.
b) La
prospettiva sintetica del cammino. Possiamo ora formulare in positivo
la questione essenziale con la seguente domanda: “Che cosa comporta
intraprendere un ‘Cammino sinodale’ per il prossimo quinquennio della Chiesa?”.
L’incoraggiamento di Papa Francesco richiede di dare risposta sollecita e
coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii Gaudium alla
lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, per poter dare avvio al Cammino,
facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse Chiese locali hanno
fatto in questi ultimi cinque anni. Il ricco materiale già disponibile aiuterà
la riflessione perché non sia una partenza da zero. Su questo sfondo è
possibile intravedere la prospettiva sintetica del Cammino. Forse possiamo
formularla così: l’itinerario del “Cammino sinodale” comporta la necessità di
passare dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a
recepire gli Orientamenti CEI a un modello pastorale che introduce un percorso
sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per
individuare proposte e azioni pastorali comuni. Ci è chiesto di passare
da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo di ricerca e di
sperimentazione che costruisce l’agire pastorale a partire dal basso e in
ascolto dei territori.
Finora gli
Orientamenti CEI (per il decennio) erano approvati dall’Assemblea Generale e
proposti alle diocesi che li recepivano attraverso iniziative, percorsi e
azioni pastorali. Spesso hanno attuato anche percorsi e proposte assai
stimolanti ed efficaci.
La
prospettiva del “Cammino sinodale”, che emerge per il prossimo quinquennio,
dovrebbe sviluppare insieme riflessione e pratica pastorale: ascolto, ricerca e
proposte dal basso (e dalla periferia) convergeranno in un momento
unitario per poi tornare ad arricchire la vita delle diocesi e delle
comunità ecclesiali.
“Ascolto”,
“ricerca” e “proposta”: questi sono i tre momenti perché la lettura della
situazione attuale e l’immaginazione del futuro possa smuovere il corpo
ecclesiale e la sua presenza nella società. È il vivo desiderio che ci ha
trasmesso Papa Francesco, per ripensare il presente e il futuro della fede e
della Chiesa in Italia: la prospettiva teologica e spirituale di Evangelii
Gaudium e del Discorso di Firenze predispone la trama dei “contenuti”
essenziali del percorso. Si intravede la promessa di un percorso circolare: il
processo sinodale propone una conversione pastorale già per il modo con cui
viene elaborato e vissuto nelle parrocchie, nelle diocesi e nelle realtà
ecclesiali e sociali. Le Chiese che sono in Italia ne potranno uscire
arricchite nella misura in cui i variegati soggetti ecclesiali del Paese si
lasceranno coinvolgere. Forse emergeranno anche istanze di rinnovamento o di riforma
delle strutture che dovranno essere tenute in debito conto, per snellire la
macchina degli Uffici e dei Servizi pastorali, sia al centro sia alla
periferia.
2. Il “Cammino
sinodale” come?
La scommessa del “Cammino
sinodale” chiama anzitutto la Chiesa al risveglio della sua coscienza
missionaria. Merita ricordare, la parola profetica che il Card. Montini
pronunciava alla vigilia del Concilio: «Il Concilio è una straordinaria
occasione ed uno stimolo potente per aumentare in tutta la cattolicità il “senso
della Chiesa”. Sembra pronunciata per questa circostanza la memorabile parola
di Romano Guardini: “Si è iniziato un processo di incalcolabile importanza: il
risveglio della Chiesa nelle anime”» (Discorso su “Il Concilio Ecumenico nella
vita della Chiesa”, 25 marzo 1962). Ciò che il futuro Paolo VI diceva del
Concilio, vale, in modo analogo, per ogni ripresa di iniziativa delle Chiese in
Italia. Il “Cammino sinodale”, perciò, ha bisogno di condividere uno stile
ecclesiale, un metodo sinodale e alcuni strumenti di lavoro. Lo stile
ecclesiale rappresenta la sfida decisiva: esso dovrà essere attento al primato
delle persone sulle strutture, alla promozione dell’incontro e del confronto
tra le generazioni, alla corresponsabilità di tutti i soggetti, alla valorizzazione
delle realtà esistenti, al coraggio di “osare con libertà”, alla capacità di
tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va integrato/
accorpato.
Tutti saremo chiamati a
risvegliare quel sensus ecclesiae, che lo stile sinodale è chiamato
a far crescere.
Il metodo
sinodale dovrà favorire alcune azioni pastorali, che si potranno scandire nei
tre momenti di “ascolto”, “ricerca”, proposta” e che dovranno attuarsi in una
logica di collaborazione e condivisione.
I momenti sono
tra loro circolari e indicano un metodo che si impegna ad “ascoltare” la
situazione, attraverso un’attenta verifica del presente, vuole “cercare” quali
linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili, intende “proporre”
scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire per il suo cammino
ecclesiale. Ascolto e concretezza sono le due istanze a cui ci ha richiamato
insistentemente Papa Francesco.
Gli strumenti di lavoro
(ad es. un’Agenda di “temi di ricerca”, Instrumentum laboris, Schede per
l’ascolto e la verifica, Piattaforma digitale per il confronto e la
comunicazione) avranno il compito di indicare prospettive comuni su cui
orientare l’ascolto dal basso.
È importante che gli
strumenti favoriscano l’espressione della multiformità dei territori e il
confronto fraterno e costruttivo.
La Segreteria Generale della
CEI con i suoi uffici accompagnerà il percorso e sarà essa stessa luogo di
sintesi di quanto giungerà dalle Chiese locali. L’elaborazione della mappa dei
contenuti è affidata al momento preparatorio del cammino, che potrà assumere
anche buona parte della riflessione, già preparata per gli Orientamenti CEI,
attorno a tre aspetti: Vangelo, fraternità, mondo.
Nel rapporto tra Vangelo e
mondo, mediato dalla fraternità ecclesiale, sono emerse, a titolo
esemplificativo, alcune attenzioni pastorali (la “forma di Chiesa” per il
futuro prossimo; l’Eucaristia domenicale al centro della vita ecclesiale;
l’accompagnamento delle famiglie; la presenza dei giovani nel cuore della
Chiesa; l’attenzione verso i poveri) e alcuni campi d’impegno sociale e
culturale (cattolicesimo popolare, cultura, cittadinanza, casa comune) che
possono diventare luoghi su cui attivare la ricerca e far convergere le
proposte.
3. Il “Cammino
sinodale” quando?
Per dare avvio al “Cammino
sinodale” sembra necessario prevedere due aspetti: la scansione dei tempi lungo
il quinquennio e la previsione dei primi passi del cammino. La scansione dei
tempi. Il cammino avrà un arco temporale che va dal 2021 al 2025 e sarà
scandito da alcune tappe che condurranno all’Anno Giubilare del 2025.
Il calendario con le diverse
tappe è prevedibilmente soggetto a una certa flessibilità.
• Avvio del processo sinodale
(2021, in sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo universale) •
Prima tappa: dal basso verso
l’alto (2022) – Coinvolgimento del popolo di Dio con momenti di ascolto,
ricerca e proposta nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle realtà ecclesiali.
• Seconda tappa: dalla periferia al
centro (2023) – Momento unitario di raccolta, dialogo e confronto con tutte le
anime del cattolicesimo italiano. • Terza tappa: dall’alto verso il basso
(2024) – Sintesi delle istanze emerse e consegna, a livello regionale e
diocesano, delle prospettive di azione pastorale con relativa verifica.
• Giubileo del 2025 – Verifica a livello
nazionale per fare il punto del cammino compiuto.
Nell’itinerario saranno innestati
alcuni eventi già in agenda:
- 49ª Settimana Sociale dei Cattolici.
Tema: “Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso”
(Taranto, 21-24 ottobre 2021); -
XXVII Congresso Eucaristico
Nazionale (Matera, 22-25 settembre 2022); - Incontro sul Mediterraneo (primi mesi
2022).
Queste note rappresentano la
“Carta d’intenti” su cui convergere per iniziare il “Cammino sinodale”.
L’Assemblea Generale dei Vescovi ha approvato (27 maggio 2021) il percorso
indicato in questo testo, perché il “cammino” prenda avvio con libertà,
scioltezza e condivisione.
La Segreteria Generale
del Sinodo dei Vescovi il 21 maggio 2021 ha annunciato la XVI Assemblea
Generale del Sinodo dei Vescovi per l’ottobre 2023, dal titolo: “Per una Chiesa
sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Il percorso proposto dalla
Segreteria Generale è armonizzabile con il “Cammino sinodale” delle Chiese in
Italia, perché il cammino che approda al Sinodo universale dei Vescovi disegna
un percorso di ricerca e confronto sulla “sinodalità”. Questo percorso può
diventare il primo momento del “Cammino sinodale” italiano, il quale ha però
l’orizzonte più vasto dell’annuncio del Vangelo in un tempo di rinascita. Per
questo la Presidenza della CEI si premurerà d’indicare una proposta per i tempi
e i momenti del “Cammino sinodale”, perché si sintonizzi su quello della Chiesa
universale.
2. Sinodo e sinodalità
Nel prossimo ottobre inizierà il
“processo sinodale” della Chiesa italiana. La proposta è nuova. Non lo si vuole
infatti solo come un’assemblea dei vescovi italiani e dei loro invitati,
preceduta da una consultazione della base, ad esempio delle parrocchie, ma come
un’attività di riforma del modo di essere e di fare Chiesa che coinvolga tutti
i fedeli. In modo che le decisioni non calino solo dai vertici, ma scaturiscano
anche dal tirocinio, dalle sperimentazioni e dalle proposte emergenti nella
base. La novità sta appunto in questo: di coinvolgere in quel modo la base.
Stando alle esperienze storiche è infatti più facile cambiare in basso che in
alto, a causa della rigidità delle strutture di potere ai vertici.
Si stanno pubblicando molti studi
sul tema della sinodalitá, anche accessibili a chi non è teologo, ma ha solo
una acculturazione generica al discorso teologico.
Anch’io sto facendo alcune
letture e vorrei farvi parte di ciò che credo di stare capendo.
È chiaro che si tratta di
materia molto complessa, perché la storia delle nostre Chiese lo
è. Anche i grandi esperti la affrontano con l’umiltà che è tipica
della vera scienza, vale a dire quella che è sempre in ricerca. Tanto più se la
si affronta senza aver avuto una formazione scientifica. Si legge, quindi, per
poter porre ulteriori domande alla comunità di coloro che si interrogano e
ricercano.
La cosa che mi pare emerga con
molta chiarezza è che le Chiese delle origini erano organizzate in modo molto
diverso da ora, in particolare nel Primo secolo, nel corso del quale si
consolidarono le tradizioni confluite negli Scritti Sacri che definiamo Nuovo
Testamento. Agli inizi la guida era sinodale. Per la scarsità delle fonti
abbiamo però informazioni insufficienti a stabilire con precisione il metodo
seguito, per imitarlo. Dal Secondo secolo piuttosto rapidamente la direzione
delle Chiese locali si accentrò intorno a “un” vescovo, sul cui ministero venne
costruita la teologia del “la Chiesa è dove è il vescovo”. Quasi
contemporaneamente si sviluppò il sacerdozio, modellato culturalmente su quello
dell’antico giudaismo palestinese, come attributo di una persona, non più
quindi legato al servizio in una determinata comunità. Dall’inculturazione del
Vangelo nelle filosofie ellenistiche, in un’interazione caratterizzata da aspri
conflitti teologico-politici con caratteristiche molto diverse dal giudaismo
delle origini, si sviluppò un sistema teologico con una diversa visione del
mondo nella sua interazione con il Cielo, che, in modo ancora piuttosto
misterioso, coinvolse la classe dirigente dell’antico impero romano. All’inizio
del Quarto secolo venne proclamata la libertà religiosa, quindi anche la
libertà di essere e vivere da cristiani, e il cristianesimo rapidamente
sostituì l’antica religione politeistica come ideologia pubblica dell’impero;
alla fine del Quarto secolo il cristianesimo fu dichiarato religione obbligatoria
per tutti i sudditi. Dal Quarto al Nono secolo la politica dell’impero influì
potentemente nella definizione dei principali dogmi, vale a dire delle
formulazioni principali delle convinzioni di fede, di quella che ormai era una
nuova religione. Tutti i concili svolti nel Primo Millennio e riconosciuti come
“ecumenici”, vale a dire riguardanti tutte le Chiese, furono convocati e di
fatto anche presieduti, direttamente o da loro delegati, dagli imperatori
romani. Il vescovo di Roma vi inviò dei delegati. L’impero “romano”, a
quell’epoca, non era più centrato su Roma, ma su Bisanzio/Costantinopoli,
secondo il grandioso disegno politico realizzato dal 326 dall’imperatore
Costantino Primo (306-337), nato in Serbia e morto in Anatolia nelle vicinanze
dell’attuale Izmir. Costantino pensò se stesso come vescovo supremo, Vicario
del Cielo, addirittura apostolo. La sua figura e la sua teologia politica,
organizzata intorno a se stesso fu celebrata dal vescovo palestinese e
scrittore (in greco) Eusebio di Cesarea, che fu suo consigliere e che fu
protagonista del primo concilio ecumenico, quello svoltosi a Nicea, in
Anatolia,nel 325, che definì ciò che è per noi Cristo, vale a dire il
fondamento della nostra fede.
“Da Costantino, ma
soprattutto con Teodosio [nato in Spagna nel 347 e
morto a Milano nel 395] le disposizioni dei sinodi diventano anche
leggi per lo stato […] In ambito intraecclesiale la
normatività delle scelte dei sinodi precede il riconoscimento civile” [da
Nicola Salato, La sinodalitá al tempo di Francesco -1- Una chiave di
lettura storica dogmatica, EDB,2020 (anche in eBook).
In sostanza, dal Secondo
secolo il Sinodo diventò cosa per capi religiosi, tanto che nel libro che ho
citato si osserva che i Padri della Chiesa (scrittori di teologia tra il 1^ e
il 7^ secolo il cui pensiero è riconosciuto come particolarmente importante per
la definizione della nostra fede) non conoscono la sinodalitá, ma
solo il sinodo, in quella accezione.
La proposta attuale di un
“processo sinodale” riecheggia quindi le più lontane origini del nostro vivere
come Chiesa.
3. Tempi nuovi e processo sinodale.
Un dato mi pare eclatante confrontando
la situazione tra i cristiani d’oggi con quelle che storicamente si
manifestarono fin dalle origini: una condizione in genere pacificata e di
reciproca tolleranza e, in molti casi, di reciproca stima.
La storia dei cristiani è
stata infatti caratterizzata per la sua massima parte da feroci controversie
che, cristianizzate le ideologie pubbliche europee, sfociarono in vere e
proprie guerre. Il Secondo Millennio, poi, fu caratterizzato da una lunga serie
di persecuzioni a sfondo religioso condotte con i metodi della polizia politica
da istituzioni ecclesiastiche e civili. E, sempre in quest’epoca, risalta
l’evangelizzazione genocida delle Americhe, nel corso della quale potenze
europee riconosciute come cattoliche cercarono di annientare le culture dei
nativi, che nel Centro e Sud America erano molto evolute. Da ciò, appunto,
derivò la cosiddetta “America Latina”. Ma anche nel Nord America non ci si
condusse diversamente, da parte dei cristiani, cattolici e non.
Di solito, quando si cerca di
orientarsi in materia di fede, si scandagliano i tempi antichi, alla ricerca di
tradizioni consolidate che ci confermino in un certo orientamento. Ma dobbiamo
prendere atto che, purtroppo, quel passato non corrisponde del tutto alle
semplificazioni agiografiche che di solito vengono insegnate nella formazione
di base dei fedeli. Innanzi tutto, le fonti che riferiscono sui primi tempi
sono piuttosto incerte e anche divergenti. Poi dal Quarto secolo la politica
influì potentemente nella definizione delle decisioni in materia di fede
divenute vincolanti, dògmata, dogmi, nel greco antico.
Francamente, l’asprezza di
certe controversie dei primi secoli, con pesanti conseguenze per la vita dei
protagonisti, spesso persone che cercavano sinceramente di essere virtuose,
sconcerta, ma anche ripugna. Eppure il corpo delle dottrine di fede che oggi
seguiamo si è consolidato con quei metodi. In generale, ciò che indichiamo come
“teologia” non si è manifestato tanto utile per trovare una via di
convivenza pacifica e i sinodi, dall’epoca in cui si affermò il potere
monocratico dei vescovi come quello proprio di un ordine
autoreferenziale, furono in genere occasione di scontro e, al più, le sedi
di precari armistizi, con qualche notevole eccezione naturalmente. La svolta
epocale è stata recentissima e risale al movimento ecumenico affermatosi dalla
seconda metà del Novecento. La pace religiosa tra i cristiani ne è il frutto.
Ma da quale pianta è derivato? Come è possibile che, da una storia tanto
efferata, ad un certo punto sia nata questa nuova realtà, che talvolta, ma
senza grandi appigli, proiettiamo nel passato?
È una domanda importante.
4. Distinguere tra Cielo e Terra.
Leggo, citato in SALATO Nicola (a cura
di), La sinodalità al tempo di papa Francesco – 1 – Una chiave di
lettura storico – dogmatica, contributo “La
sinodalità nella riflessione dei Padri della Chiesa, di Roberto Della
Rocca, questo brano tratto dall’opera De Dominica Oratione, 23
– Sulla Preghiera del Signore, 23, del vescovo di Cartagine e
“Padre” della Chiesa Cipriano, vissuto nel Terzo secolo in Nord Africa, appunto
nell’antica colonia romana di Cartagine, ricostruita dai romani nell’area
dell’attuale Tunisi dopo la distruzione dell’antico insediamento di origine
fenicia:
«Infatti Dio comanda che nella sua
casa tutti siano miti, concordi e in pace e vuole che noi, una volta rinati,
continuiamo a essere quali ci ha creati grazie alla seconda nascita. Noi, che
iniziamo a essere figli di Dio, dobbiamo rimanere in pace con Dio perché vi sia
una sola anima e un solo sentire in coloro nei quali c’è un solo spirito. Così
Dio non accetta il sacrificio di colui che non è in pace, e gli comanda di
allontanarsi dall’altare e di riconciliarsi prima con il fratello, perché Dio
possa essere propiziato con preghiere di pace. Infatti il sacrificio più grande
per Dio è la pace che regna tra noi, la nostra concordia di fratelli e il fatto
di essere un popolo riunito nell’unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo».
Della Rocca evidenzia che la
definizione della Chiesa come popolo riunito nell’unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo divenne classica e che ad essa
ci si richiamò durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), tanto che nella
Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti – Lumen gentium,
al n. 4 viene riportata quella stessa citazione:
Lo Spirito santificatore della Chiesa
4. Compiuta l'opera che
il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di
Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa
e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo
Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di
acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo
il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno
risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora
nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e
in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per
adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella
pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel
ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la
abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza
del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla
perfetta unione col suo Sposo . Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore
Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa
universale si presenta come « un popolo che deriva la sua unità dall'unità del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » [CIPRIANO, La Preghiera del Signore - De Orat. Dom. 23, formula richiamata
anche da Agostino -vissuto tra il 4° e il 5° secolo- e Giovanni di Damasco
-vissuto tra il 7° e l’8° secolo].
Ora, è indubitabile
che l’obiettivo di rimanere in pace con Dio perché vi sia una sola
anima e un solo sentire in coloro nei quali c’è un solo spirito è
stato storicamente sempre fallito dalle Chiese cristiane
salvo che in rari e precari tempi di sentire condiviso su base
mistico-carismatica. Esso, realisticamente, non è dunque alla portata
degli esseri umani: può solo essere un criterio etico orientativo, non
politico. La storia della Chiese cristiane è stata sempre,
con le eccezioni che dicevo, una storia di divisioni, polemiche e anche di violenze,
che raggiunsero efferatezze, intensità ed estensioni che ai tempi nostri ci
paiono incredibili.
Se il processo sinodale che
inizierà nel prossimo ottobre punterà a far scendere il Cielo sulla Terra,
proponendosi un’unità con quelle caratteristiche, è altamente probabile, se non
certo, che fallirà, perché è quasi sempre andata così, in
particolare, da ultimo, nella fase attuativa del Concilio Vaticano 2°.
Riconoscere al processo
sinodale non solo la natura, ad esempio, di conferenza teologica o spirituale,
o di azione liturgica, ma propriamente di azione di ricostruzione
sociale, vale a dire di riforma, cioè di azione politica, perché la
politica è progettare, costruire e governare società, esige di porre alla sua
base il criterio della distinzione tra Cielo e Terra e quindi di prendere atto
che l’amicizia sociale, ciò che può essere evocato anche come agàpe in
senso propriamente religioso e che è alla base dei processi politici di
qualsiasi natura, anche religiosa, non deve avere come condizione
essenziale e irrinunciabile un “solo sentire” su tutto come se i molti
divenissero una sola persona, vale a dire che necessariamente,
se ci si vuole veramente distaccare dal nostro tremendo passato,
si debba accettare una pace di tipo pluralistico, la
sola alla portata degli esseri umani, anche se animati dallo spirito
religioso. Purtroppo su questa via non possiamo trarre esempi
virtuosi dal passato, in particolare in base alle vicende nel corso delle
quali ci si è scontrati aspramente su definizioni terminologiche,
secondo anche il metodo che poi fu definito dalla teologia quando fu fondata
come disciplina scientifica, all’inizio del Secondo Millennio. Il che è come
dire che se la teologia vorrà imporre il suo dominio assoluto sulla politica,
come mi pare di capire che stia accadendo in questa fase preparatoria del
Sinodo della Chiesa Italiana, si fallirà sicuramente l’obiettivo
politico, per la riforma ecclesiale, dell’amicizia sociale e della pace, e la
teologia rimarrà solo un complesso di idee sulla pace sociale, capace
solo in realtà di produrre il suo opposto.
5. La politica nella costruzione della Chiesa.
Prendo lo spunto dall’articolo di Domenico
Marino pubblicato su Avvenire on line il 21 luglio 2021 con il titolo “Vangelo,
cultura e politica: Cassiodoro verso gli altari”, per articolare alcune
riflessioni sulla politica.
Incollo qui sotto il link
per leggerlo
https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/vangelo-cultura-e-politica-cassiodoro-verso-gli-altari
Una biografia affidabile, per la
prestigiosa fonte da cui proviene, di Cassiodoro, anche con alcuni rilievi
critici, si trova in:
https://www.treccani.it/enciclopedia/cassiodoro_%28Dizionario-Biografico%29/
La notizia è questa: il 22 luglio
2021 presso la Diocesi di Catanzaro-Squillace è stata celebrata la liturgia
solenne della conclusione dell’inchiesta diocesana per la
beatificazione di Flavio Aurelio Magno Cassiodoro, già proclamato Servo di Dio.
Si è seguita la procedura canonicamente detta “equipollente”, nella quale si
prende atto e si approva un culto esistente da tempo e quindi si prescinde dal
riconoscimento di un miracolo. Ora la pratica passa alla Congregazione delle
cause dei santi, con sede a Roma.
Cassiodoro visse in tempi
antichi, tra il Quinto e il Sesto secolo, quando il cristianesimo era già
divenuto religione di stato nei territori occupati dall’Impero romano, che dal
Quinto secolo erano stati in parte, in particolare nell’Europa occidentale,
invasi da popoli nordici, i cui capi spesso avevano avuto una lunga
consuetudine con le istituzioni Romane. Questo fu il caso di Teodorico, re
degli Ostrogoti, re in Italia dal 493 al 526, al quale succedettero Alarico,
dal 526 al 534, Teodato, dal 534 al 536, Vitige, dal 536 al 540 e
Totila, dal 541 al 552.
Teodorico era stato nominato
“Patrizio d’Italia” nel 493 dall’imperatore bizantino Zenone. Quell’anno
Teodorico aveva fatto fuori, secondo alcune fonti con le sue stesse mani, il
suo antagonista in Italia, Odoacre, con il quale aveva appena
giurato un trattato di pace, generale romano golpista di etnia erula il quale
circa vent’anni prima aveva deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, venendo
riconosciuto re d’Italia dal Senato Romano e dall’imperatore bizantino,
Dall’età di dieci anni e fino ai diciotto Teodorico aveva studiato a
Costantinopoli, dove aveva imparato il latino e il greco ed aveva anche avuto
un’educazione militare.
Odoacre e i sovrani
ostrogoti in Italia integrarono l’amministrazione romana nella costruzione
politica del loro nuovo regno.
Cassiodoro nacque nel 485 in
Calabria, a Squillace. Suo nonno era stato ambasciatore sotto l’imperatore
romano d’Occidente Valentiniano 3^ e in tale veste aveva conosciuto Attila, re
degli Unni. Cassiodoro fu un alto funzionario del re Odoacre, ma anche sotto i
re ostrogoti che gli succedettero, a partire da Teodorico, il quale lo nominò
governatore della Sicilia e anche della Calabria, e fino a Vitige.
Visse l’ultima parte della sua vita, che si narra sia stata lunga, come monaco,
nel monastero di Vivarium, vicino a Squillace, da lui fondato intorno al 554.
Il pensiero di Cassiodoro,
che fu anche prolifico scrittore, ebbe particolare importanza nel costruire una
legittimazione politica e anche sacrale del regno italiano degli
Ostrogoti, presentato come erede dell’Impero Romano d’Occidente, sebbene
soggetto all’autoritá carismatica dell’imperatore bizantino, e in posizione di
superiorità nei confronti degli altri sovrani dei popoli invasori dal Nord. Per
Cassiodoro Teodorico regnava “per volontà di Dio”, come l’imperatore bizantino,
per restaurare la civiltà romana in Italia.
La Chiesa cattolica di oggi
è impegnata in un processo di riforma, che ha natura principalmente politica
nel suo aspetto di costruzione sociale, e, secondo il suo costume,
cerca riferimenti nel passato più lontano.
Nelle conclusioni
dell’inchiesta diocesana naturalmente vengono posti in grande risalto gli
aspetti spirituali della vita di Cassiodoro come monaco, anche relativi al
lavoro di copiatura, conservazione, trascrizione e studio del manoscritti
antichi, sia cristiani che classici. Ma viene menzionata anche la sua intensa
carriera politica, vista come un esempio di come il credente possa
manifestare l’annuncio di salvezza lavorando nelle istituzioni, senza temere la
cultura del proprio tempo, ma anzi servendosene con sapienza.
L’agiografia dei candidati
alla santità ufficiale è spesso non affidabile storicamente, almeno nelle
informazioni che vengono divulgate al di fuori degli ambienti specialistici.
Certamente il regno in Italia degli Ostrogoti, del quale Cassiodoro fu
corresponsabile quale alto funzionario dei sovrani, non può essere considerato,
con la sua violenza estrema e i suoi intrighi, un modello per la politica di
oggi. E lo stesso dicasi anche per la stessa azione politica di Cassiodoro, nel
suo aspetto di adulazione acritica del sovrano suo signore. Ma si può essere
personalmente santi anche in contesti simili.
Penso che nel clero
affascini ancora l’idea dell’intervento del cristiano in politica come
consigliere del principe, capace di condurre mediante la cultura il
suo signore al rispetto di principi politici di civiltà, comprensivi anche di
un certo umanitarismo cristiano. Cassiodoro li idealizzó, con riferimento al
regno ostrogoto in Italia, nel suo pensiero politico che ci è giunto mediante
un memoriale in 12 libri (!) intitolato Variae. Esso trovò
smentita storica con l’eclisse del regno italiano degli Ostrogoti, cominciata
da quando nel 540 il generale bizantino Belisario catturò Vitige a Ravenna.
Allora Cassiodoro, dopo un lungo esilio a Costantinopoli. si ritirò in
monastero, a Vivarium, dedicandosi all’impegno prettamente culturale
e religioso. Il funzionario civile che si ritira in monastero nell’ultima parte
della sua vita è evidentemente sentito come più vicino alla propria esperienza
dal clero. E probabilmente aiutano in ciò le notizie sul
ministero di Cassiodoro al servizio di papa Virgilio, nel 550, durante un
viaggio a Costantinopoli, dove Cassiodoro risiedette almeno fino al 554, per
poi tornare in Calabria.
Il cristiano di oggi, in
Europa, non è chiamato ad essere, in politica, consigliere di un autocrate, ma
partecipe di un governo largamente condiviso, secondo il metodo democratico. La
condizione politica dell’Europa di oggi non è quella tragica dei tempi in cui
visse Cassiodoro; nel pluralismo che caratterizza i tempi nostri, come quelli
di Cassiodoro, i conti non si fanno facendo strage di oppositori e
dissenzienti. Legittimare il potere in quanto visto come restaurazione del
passato, come sognò Cassiodoro, non è raccomandabile oggi. Trasfigurare
irrealisticamente i propri tempi vedendovi immaginificamente realizzati i
propri sogni di restaurazione civile, nemmeno.
Eppure Cassiodoro svolse
un lavoro di mediazione culturale molto importante verso i
suoi sovrani, che provenivano da popoli invasori con differenti tradizioni
culturali e istituzionali, seppure assai acculturati all’ideologia politica
cristianizzata nella versione bizantina. Un lavoro analogo fu svolto nel Nono
secolo dai bizantini nell’evangelizzazione degli slavi. Anche da ciò scaturisce
l’Europa come ancora oggi viene percepita. La teologia politica dei cristiani è
stata un potente fattore di integrazione dei popoli, ma è stata anche l’origine
di violenze sociali efferate nel suo tentativo di integrare accentrando intorno
ad autocrati con potere sacralizzato. Tentazione che va accuratamente evitata
oggi.
6. Tener conto della
storia.
Come vi ho scritto in precedenza,
sto leggendo il libro “La sinodalità al tempo di papa Francesco – 1 – Una
chiave di lettura storico dogmatica”, a cura di Nicola Salato, EDB, 2020, che è
composto di una serie di brevi articoli di vari autori. Quello intitolato “La
sinodalitá in prospettiva eucaristico-sinodale” è di Agostino Porreca”.
Leggendolo ci si può fare un’idea dell’estrema difficoltà di sperimentare
cambiamenti nella nostra Chiesa. Ma essa mi pare problema comune anche nelle
altre Chiese cristiane storiche.
Porre le istituzioni
ecclesiastiche in una relazione troppo stretta con la teologia dogmatica le
rende non riformabili.
La gran parte
della nostra dogmatica si è formata tra il Quarto e il Nono secolo, in un’era
in cui ci fu la convinzione di poter creare tra i cristiani un’unità
protetta da un’autoritá di tipo imperiale, a lungo rappresentata
dall’imperatore con sede a Bisanzio, specchio di un ordine Celeste.
Nell’ambito di
quell’autorità agivano con molta autonomia i patriarcati e gli altri
episcopati, che cercavano di comporre le diversità di vedute su temi di
organizzazione ecclesiastica e di definizioni di fede mediante riunioni
collegiali denominate concili e sinodi. In genere
con risultati precari. Da qui il frequente ricorso all’anatema (il Concilio
Vaticano 2^ è stato il primo che non ne ha deliberati) e alla violenza
politica.
Nell’Europa occidentale il
potere dei vescovi, per influenza degli assetti istituzionali veicolati dalle
dinastie germaniche succedute all’Impero romano, assunse
configurazioni propriamente feudali, venendo i vescovi ad esercitare
anche domini territoriali. Il dominio territoriale che il Papato iniziò ad
esercitare nel Centro Italia, fino alla costituzione, in epoca moderna, di un
vero e proprio stato, del quale l’attuale Cittá del Vaticano riproduce alcune
caratteristiche pur non essendone il successore, originò da quella evoluzione.
Altra manifestazione di questo processo fu che, dal 13^ al 19^
secolo, tre dei sette “elettori” del “Sacro Romano Imperatore” furono
vescovi. Così come lo stato, costituito nel Sacro Romano Impero, del
Principato vescovile di Trento, durato dall’11^ al 19^ secolo.
I riflessi sulla dogmatica
di quelle concezioni del miglior potere politico sono evidenti, anche se io non
ho la competenza culturale e scientifica per trattarne sistematicamente. In
particolare li vedo nella Cristologia e nelle idee su che cosa è e come si deve
vivere come Chiesa. Questo contesto culturale è irrimediabilmente dissonante
con le diverse concezioni del potere politico che caratterizzano le democrazie
europee in fase di integrazione nell’Unione Europea (una costruzione
istituzionale nella quale u movimenti cristiano-democratici hanno
avuto gran parte).
Conciliare le antiche
concezioni con le nuove, che denotano in modo anch’esso molto evidente gli
attuali processi sinodali tedesco e italiano, è impossibile.
I teologi cercano di farlo
estendendo certe sacralizzazioni liturgiche allo “spirito sinodale” che si
vorrebbe suscitare, in sostanza, in tutti i fedeli, in modo da farne la base
per processi di più larga partecipazione, in particolare per sollevare il
laicato dalla sua attuale umiliante condizione. Ciò che viene tentato sulla
base della teologia eucaristica. Questa però si è già dimostrata una via che
non conduce al risultato sperato. La liturgia non funziona nelle assemblee
organizzative, fatte per esaminare problemi, soluzioni e programmi comuni, in
cui il presupposto perché non siano solo vuoto formalismo è la libertà di
esprimersi e l’accettazione del pluralismo.
La teologia ancora oggi può fare
grande danno nell’argomentare solo per via di logica dai principi dogmatici
soluzioni politiche senza tener conto dei risultati storicamente
ottenuti, senza imparare dall’esperienza passata. Aver cercato di portare il
Cielo in Terra ha generato tutte le atrocità della tremenda storia dei
cristiani. Forse la sapienza dei teologi potrebbe riuscire a distinguere la
mistica, che certo è dimensione irrinunciabile della nostra spiritualità, dalla
costruzione sociale di una convivenza pacifica, che richiede la
desacralizzazione della politica, anche di quella ecclesiale. Significherebbe
anche pensare una teologia della democrazia come oggi la viviamo in Europa (e
la viviamo in modo molto diverso da come la si viveva ai tempi dei
primi duri scontri con le Chiese cristiane).
Scrive Porreca:
“A questa essenziale sinodalità della
Chiesa, rivelata è manifestata dalla l’ex orandi [=liturgia],
non corrisponde un adeguato sviluppo delle strutture sinodali, che ovviamente
non possono limitarsi alle sole strutture di consultazione, non
sufficientemente rispettose della corresponsabilità battesimale”.
Ecco, questo è proprio il
problema!
Esso non ha una
soluzione liturgica, ma deve averne una politica, che significa capire che “il
Regno non è di questo mondo” e non significa regno secondo le
impersonificazioni che storicamente vi furono a tutti i livelli, e anche nella
nostra Chiesa. Ciò comporterebbe una diversa configurazione
politica della nostra gerarchia, senz’altro pensabile
senza ledere la dogmatica. L’ideale dei “Principi vescovi” sta
tramontando. Le Chiese cristiane storiche arrivate ai tempi nostri
hanno realizzato ciò che mai era accaduto nella storia, vale a dire un’unità
di agápe e di reciproca stima che corrisponde finalmente ai
comandi evangelici, e ciò pur nel pluralismo religioso. Ciò che chiedevamo, e
ancora chiediamo, nelle nostre preghiere sta iniziando a manifestarsi.
Per la loro estrema
sacralizzazione, incrostata e appesantita dalla gestione dei patrimoni
ecclesiastici, la riforma delle istituzioni di vertice della nostra Chiesa si è
rivelata storicamente impossibile, nonostante le sincere buone intenzioni di molti.
L’unica sperimentazione che si può tentare, sperando realisticamente in qualche
risultato, è quella da fare nelle realtà di base, come le parrocchie.
7.Prospettive di
riforma dal basso.
La storia dell’attuazione dei principi
innovativi del Concilio Vaticano 2^ (1962-1965) dimostra chiaramente che la
nostra Chiesa non è attualmente riformabile né nelle sue
strutture centrali né nei vertici del potere locale, vale a dire negli
episcopati. Troppo intensa è ancora la sacralizzazione di queste strutture di
governo, organizzata dalle teologie proprio al fine di renderle resistenti alle
riforme. Per nostra buona sorte il loro potere politico è stato molto limitato
dai processi democratici sviluppatisi nelle società europee e dunque, benché
palesemente obsolete e declinanti, non vi è reale urgenza di impegnarsi in un
contrasto frontale e radicale. Altra fu, ad esempio, la situazione dei
rivoluzionari repubblicani che nel 1849 sentirono la necessità
politica di abbattere il regno del Papato a Roma (anche in quel caso
senza metterne in questione il Primato in ambito religioso).
Le innovazioni sono
possibili solo a partire dal livello di base, in particolare da un’istituzione
di prossimità territoriale come la parrocchia, nella quale si vive un certo
pluralismo. Quest’ultimo è il principale problema con cui ci si deve
confrontare.
Non sono un teologo, ma mi
sono reso conto, da semplice lettore che cerca di essere colto, che la teologia
può essere affascinante. In teologia si possono però progettare entusiasmanti
riforme, che non avranno mai, tuttavia, la minima possibilità di essere
attuate. Così assisto con una certa diffidenza al rifiorire di tanti studi su
ciò che oggi viene definito “stile sinodale”, e quelli di cui sono consapevole
sono certamente solo una piccola parte di quelli esistenti, perché
abitualmente non mi accosto alla letteratura del ramo.
La teologia ha preparato il
processo di riforma del Concilio Vaticano 2^, è stata la
lingua principalmente parlata in quella assise e la cultura di
riferimento della sua fase attuativa, che però dobbiamo riconoscere
realisticamente essere abortita. Ha aperto delle prospettive, fin dove ha
potuto, in particolare asseverando l’ortodossia del nuovo corso, ma ha anche
creato ostacoli insuperabili nella fase di edificazione sociale,
in particolare costruendoli sistematicamente e ideologicamente come
insuperabili e poi attestandone l’insuperabilità. Qualcosa del genere accadde
nella controversia sulla dottrina della cosiddetta giustificazione, che, quando
le condizioni sociali per la pacificazione maturarono, fu composta rapidamente
senza particolari insuperabili difficoltà teologiche nel 1999 ad Augsburg
(Augusta) con le Chiese luterane, accordo a cui successivamente aderirono altre
importanti Chiese protestanti. Il Pontificio Consiglio per l’unitá dei
cristiani, dopo aver dichiarato incredibilmente che “non vi era stato alcun
rinnegamento del passato”, ammise che quello che definì “comune passo in
avanti” era stato “reso possibile dal clima di fiducia reciproca”. Ecco, questa
è la vera straordinaria novità dei tempi nostri, rispetto ai secoli delle
tremende stragi e persecuzioni fondate su diversità di vedute sulle relative
definizioni teologiche, in realtà causate da controversie politiche. Il
miracolo del “clima di fiducia reciproca” è stato prodotto dai valori delle
democrazie europee, le quali, riducendo le sacralizzazioni dei poteri politici
civili e religiosi ne ha creato le condizioni, superando l’oltranzismo
teologico.
Se si afferma che il potere
di una persona è voluto dal Cielo, e solo dal Cielo legittimato, e che è
dunque obbligo religioso sottomettervicisi docilmente senza
possibilità di discuterlo, perché qualsiasi critica ad esso distrugge l’armonia
tra Cielo e Terra e dunque la società che su tale armonia si pensa fondata, per
cui è peccato contro il Cielo, e in questo appunto consiste la sacralizzazione
del potere sociale, allora la riforma è impossibile senza traumatiche divisioni
e poi la guerra tra i monconi che ne derivano. Questa è stata sempre, in
sintesi, la storia dei cristiani, e di ogni ideologia politica sacralizzata
secondo cristianesimi. Quel clima di fiducia reciproca che ha consentito
l’accordo di Ausburg del ’99, il prodigio dei nostri tempi, è il ripudio di un
orrendo passato, del quale anche la teologia di corte degli autocrati che lo
macchiarono di sangue e che trascinarono popoli interi in conflitti che
smentirono ogni principio sociale cristiano porta gravi colpe. Ecco che
l’istituzione dichiara però di non voler rinnegare quel
passato e quindi, sostanzialmente, di sentirsene ancora legata in altre
questioni, ad esempio, ipotizzo, quando si parla di riforma ecclesiale.
Di
solito, nella teologia cattolica, ci si sente riformatori quando
si auspica un’estensione della collegialità episcopale nei confronti dell’autocrazia
papale (ne parlo in questi termini perché così è definita dal diritto
canonico), ma questa visione appare oggi obsoleta: sono lo stesso episcopato
monarchico e la gerarchia episcopale nel suo insieme a creare problemi
organizzativi, in quanto poteri che si vuole mantenere autocratici anche al di
lá delle funzioni di Magistero o di quelle liturgiche, ad esempio, addirittura,
nella gestione di quel simulacro di stato che è la Città del Vaticano a Roma o
di una complessa azienda come quelle espresse dalle organizzazioni
di beni e personale di grandi Diocesi, con grandi patrimoni e flussi finanziari
da amministrare. È in questione quello che fu al centro del Concilio Vaticano
2º, vale a dire il popolo di Dio, ma senza che siano
indispensabili, per le riforme organizzative che servono, ulteriori diatribe
teologiche e, in particolare, indagare per cercare in un lontano passato delle
Chiese cristiane quello che oggi occorre, ciò in quanto in
quel passato esso non c’è perché a quei tempi si volle creare politicamente,
qui sulla Terra, quel “regno” che il Maestro aveva rifiutato, nascondendosi
alla folla che voleva farlo re al modo in cui lo erano
gli altri re della sua epoca, vale a dire l’origine di gran
parte dei nostri attuali problemi ecclesiali
Date le condizioni attuali, la
riforma della nostra Chiesa non deriverà verosimilmente da un concilio o da un
sinodo di autocrati religiosi e loro consiglieri e invitati che approvi una
qualche costituzione, ma da una prassi sociale che, nelle realtà di
base, dalla gente di fede, consenta l’ampia e
costante sperimentazione di un clima diffuso di amichevole
compartecipazione e di fiducia reciproca, nel quadro di una maggiore
consapevolezza religiosa, superando l’attuale deplorevole carenza formativa che
è la vera causa della dispersione religiosa in Europa, in un popolo che
si vorrebbe ancora tenere nello stato di gregge mentre è fatto
di persone umane, con menti e cuori, non dunque costituito semplicemente solo
per obbedire docilmente ad ogni dettato dei suoi gerarchi.
Vedo nella parrocchia
l’istituzione che, nel giro di una generazione – l’inculturazione della riforma
deve essere un processo graduale, ampio e progressivo, quindi lento, misurato
sul passo di chi va più piano – potrebbe essere l’ambiente in cui suscitare un
nuovo fecondo modo, secondo l’agápe evangelica, di
vivere la Chiesa. Bisognerebbe partire da questo: creare progressivamente, ad
ogni livello della vita parrocchiale, vere sedi di compartecipazione amichevole
dove, senza tirare in ballo l’ecclesialese, l’urtante e confuso gergo a
sfondo teologico parlato dai dirigenti ecclesiali che organizzano il laicato,
si affermi il principio che proposta e critica sono sempre ammesse
nella misura in cui chi propone e critica è realmente disposto a contribuire a
un progetto comune con propri personali tempo, energie e
affetto, e non condizioni la propria disponibilità all’accoglimento integrale delle
proprie vedute (principi della solidarietà e del pluralismo).
8.Cambiare la
parrocchia dal basso.
8.1. Se si è d’accordo che
gli ultimi 75 anni dell’Europa occidentale contengono un’evoluzione
straordinaria anche della vita religiosa, oltre che di quella civile e
politica, allora è su questo che è meglio concentrarsi
per progettare un modo rinnovato di vivere la Chiesa nella parrocchia.
Di solito, seguendo il metodo delle teologie cristiane, si inizia invece dal
riflettere come si fu nei primi secoli, e questo per l’importanza che si
attribuisce, in particolare nella nostra confessione religiosa, alla
tradizione, che, con riferimento alle principali convinzioni di fede, tra i
cattolici si scrive con la “T” maiuscola, Tradizione. Ma di
quei tempi, in particolare quando si risale al Primo secolo, si sa poco e la
memoria che la tradizione ecclesiale ci ha tramandato fino ad oggi non è
completamente affidabile. Inoltre i processi sociali di organizzazione che si
svilupparono nelle Chiese delle origini non contengono quella novità dei tempi
contemporanei a cui ho fatto riferimento. Essa può essere sintentizzata in
questo modo: ai tempi nostri le Chiese cristiane storiche non si combattono più
e, addirittura, in genere si stimano, collaborano, perciò progressivamente
vengono meno o sono attenuate le condanne che si scagliarono reciprocamente
contro nel loro tremendo passato. Questa situazione è nuova nel senso che non
c’è mai stata nei secoli passati, e questo fin dalle origini, nelle quali,
in particolare, tra cristiani si fu veramente molto bellicosi. Essa non ha
avuto ancora una soddisfacente sistemazione teologica e quindi anche una
legittimazione da quel punto di vista. In un certo senso, anzi, la teologia è
rimasta piuttosto indietro e ragiona come se si vivesse ancora nei tempi delle
divisioni dure, per cui, ad esempio, vive male il fatto che sussistano ancora
più organizzazioni cristiane e non una sola. A ben vedere, però, l’ideale di
una unità nel senso di soggezione politico-amministrativa delle Chiese ad un
unico centro di potere o almeno di coordinamento è il risultato di metamorfosi
culturali che non si produssero subito fin dall’epoca detta apostolica,
ma che caratterizzarono l’espansione dei cristianesimi solo a partire dalla
metà del Secondo secolo e, soprattutto, la loro integrazione come ideologia
politico-religiosa nella riforma dell’antico Impero romano. La formulazione
delle nostre principali convinzioni di fede, dei dogmi, ne dipende,
risalendo ad un arco storico tra il Quarto e il Nono secolo.
Una ricostruzione
storica sintetica della storia della parrocchia come istituzione religiosa
locale si trova in
https://www.treccani.it/enciclopedia/parrocchia-e-parroco_%28Enciclopedia-Italiana%29/
una voce scritta dal grande specialista di diritto
ecclesiastico e storico della Chiesa Arturo Carlo Jemolo
(1891-1981).
Da essa emerge che la
parrocchia, come istituzione territoriale locale di decentramento
burocratico-religioso, risale al massimo al Quarto secolo, epoca a cui risale
anche gran parte del cristianesimo ancora confessato nella nostra Chiesa e in
cui i cristianesimi divennero ideologia politica dell’Impero romano, in
particolare sacralizzando il potere dei suoi imperatori. Nel Secondo Millennio
e, in particolare, dal Cinquecento, quando la nostra Chiesa volle darsi
un’organizzazione amministrativa e politica analoga a quella degli stati
nazionali che a quell’epoca cominciarono a formarsi, la burocrazia
parrocchiale svolse una funzione molto importante, come ancora ora, quella
della tenuta dei registri parrocchiali, dove vengono annotate informazioni su
Battesimi, matrimoni, morti. Le parrocchie furono a lungo, come in fondo ancora
sono tra i cattolici, la sede principale della formazione religiosa di base del
popolo di fede e il centro liturgico di prossimità per le persone comprese nel
loro territorio. Dopo il Concilio Vaticano 2° si volle riformarle in senso
comunitario, operazione che non può dirsi, in genere, riuscita.
La teologia spesso dà
un’immagine della parrocchia diversa da quella reale, perché vi riflette certe
sistemazioni culturali su come vive il Cielo che si vorrebbero riprodurre, in
maniera per così dire analoga, sulla Terra, nelle società dei fedeli. Così
facendo i ruoli sociali assegnati agli attori di questa società locale non ne
facilitano l’adattamento ai tempi nuovi, in particolare privando del tutto di
voce e competenza il laicato, facendone solo un gregge curato
dal parroco e dal clero che con lui collabora.
Non mi interessa, e del resto non
ho competenza in merito, discutere quella teologia, posto che è più semplice
partire da alcuni importanti principi che si sono affermati durante il Concilio
Vaticano 2° e che sono anche alla base delle democrazie europee avanzate. I
principali sono quelli della libertà di coscienza e del pluralismo, il secondo
prodotto dal primo. Va detto che essi sono il risultato di una vera rivoluzione
culturale nella nostra Chiesa, che si è cominciata a manifestare veramente, in
Europa, dal Secondo dopoguerra, quindi dal 1945, benché i fermenti culturali, e in
particolare teologici, dai quali derivò li vediamo manifestarsi a cavallo tra
Ottocento e Novecento.
Una formulazione della libertà di
coscienza si ha nel Decreto sulla libertà religiosa Della dignità umana del
Concilio Vaticano 2°, al paragrafo n.3:
L'uomo
coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua
coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per
raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire
contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in
conformità ad essa, soprattutto in campo religioso. Infatti l'esercizio della
religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni volontari
e liberi, con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio: e tali
atti da un'autorità meramente umana non possono essere né comandati, né
proibiti. Però la stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli
esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in
materia religiosa e professi la propria religione in modo comunitario.
In quella
formulazione, per ciò che posso capire, c’è tutta la teologia fondamentale che
serve per riorganizzare la vita parrocchiale maggiormente in senso comunitario.
8.2. La parrocchia, in
genere e nel caso della nostra, è un’istituzione comunitaria: è scritto nel
diritto canonico, che è il diritto della nostra Chiesa (canoni 515-572). In ciò
la sua configurazione è stata cambiata con il nuovo Codice di diritto canonico,
deliberato nel 1983, che ha sostituito il precedente, del 1917, per seguire i
principi decisi nel corso del Concilio Vaticano
2º (1962-1965): ci vollero quasi vent’anni, indizio
eclatante delle difficoltà che ci furono nell’applicarli. L’operazione non
riuscì bene. Nella parrocchia istituzione comunitaria, infatti,
la comunità non conta nulla: la parrocchia, dal punto di vista
giuridico, è governata monarchicamente, in tutto, dal parroco, e gli altri, il
clero e i laici che con lui collaborano, non sono nient’altro che esecutori o
consulenti.
Naturalmente talvolta vi può
essere un governo parrocchiale con elementi di reale compartecipazione, ma
questo dipende solo dal parroco, che può anche revocarla accentrando
nuovamente. L’arrivo di un nuovo parroco determina quindi l’inizio di una nuova
era nella parrocchia. Così è stato nella nostra parrocchia, che nella sua
storia ha avuto solo tre parroci, don Vincenzo Pezzella dalla fondazione, negli
anni Cinquanta, al 1983, don Carlo Quieti, dal 1983 al 2015, don Remo
Chiavarini dal 2015 a tutt’oggi. Questa situazione dovrebbe essere corretta e
lo si può fare utilizzando innovativamente i limitatissimi spazi di
compartecipazione consentiti dalle norme canoniche vigenti, per far emergere la
comunità e una tradizione. Lo si è iniziato a fare in molte parrocchie italiane,
con alterni e in genere non stabili risultati, per come mi pare di capire.
Non è necessario, è anzi
fortemente sconsigliabile, pasticciare con la teologia: quella che c’è nei
documenti del Concilio Vaticano 2^ basta e avanza. Riscosse un vastissimo consenso
tra i padri conciliari e nel travagliato processo applicativo dei princìpi
conciliari è stata anche in qualche modo inculturata nella gente, anche se la
consapevolezza che in genere se ne ha non mi pare sufficiente.
Piuttosto, vanno fatti approfondimenti
sulla storia recente dell’Europa, che è il contesto culturale in cui ci
muoviamo (è una via improduttiva sognare di riprodurre epoche del passato,
fosse anche quello delle origini), e acquisire un’informazione sintetica delle
evoluzioni ecclesiali dei secoli precedenti. Questo è un lavoro che in genere
non si fa, o, se si fa, è svolto più che altro con finalità apologetiche, che è
un modo di definire una propaganda religiosa non di rado caratterizzata da una
certa faziosità.
San Karol Wojtyla, nel suo
ministero di Papa, in preparazione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, ci guidò
nel difficile impegno che definì di purificazione della memoria, che
consiste nel fare memoria veritiera del nostro passato
ecclesiale per non ripeterne gli orrori, cercando invece di prendere esempio
dal bene che espresse. Ricordo che, in questo, fu duramente
criticato dai teologi di corte, oltre che da tutti coloro che accettavano tutto quel
passato come perdurante modello per i nostri tempi, resistendo ai cambiamenti.
Così non di rado, in genere
inconsapevolmente però, si ripetono gli errori del passato, ed è solo perché
viviamo in una democrazia che le cose non assumono una brutta piega. Ad
esempio, mi è capitato di udire persone palesemente incolte in teologia scagliare
anatemi accusando gli altri di eresia, perché in disaccordo con loro su certi
modi di vedere. E, poveretti, nemmeno si rendevano conto che, cosi facendo,
davano scandalo, allontanando gente dalla Chiesa, con ciò che ne consegue
secondo il monito evangelico.
Spesso sento favoleggiare
delle Chiese delle origini, su cui non sappiamo molto di affidabile e ciò che
si sa non mi entusiasma molto: furono piuttosto bellicose, rigidissime nello
scontrarsi per ragioni di definizioni teologiche, tanto che già l’apostolo
delle Genti Paolo implorò i Galati almeno di non
distruggersi a vicenda (Gal 5,15). Resici consapevoli di quel passato non
dovremmo cercare di riprodurlo integralmente, anche in quegli atteggiamenti
intolleranti che fecero tanto soffrire.
Come ci insegnò don Remo il
giorno che iniziò il suo ministero tra noi, è molto importante volersi
bene, nonostante le diversità di vedute su come vivere la fede. Ce ne
vogliamo? Dico in concreto, non a parole. E spesso, come lamenta
anche il Papa, sono proprio le parole lo strumento per farci del male, per
ferire, allontanare, escludere, discriminare. Una piaga ricorrente in tutte le
parrocchie che ho vissuto. I preti, purtroppo, ne sono le prime vittime.
9.La formazione dei
formatori.
Ieri, discutendo con mia moglie,
insegnante, della formazione religiosa di base che si fa, in genere, nelle
parrocchie, ho osservato che è un peccato che non tenga conto di quello che
bambini e ragazzi imparano a scuola. In particolare, nella scuola primaria (che
quando vi fui alunno si chiamava elementare), si danno
informazioni sugli antichi greci e romani, le cui culture sono state
fondamentali nella costruzione delle teologie politiche cristiane, a loro volta
fondamentali in quella della dogmatica, vale a dire l’insieme delle
definizioni più importanti della nostra fede. Non per nulla la deliberazione di
queste ultime come vere e proprie leggi dello stato avvenne,
nell’impero romano cristianizzato, e in particolare nel suo nuovo centro
culturale a Costantinopoli / Bisanzio, tra il Quarto e il Nono secolo nel corso
di concili ecumenici convocati e presieduti, direttamente o
mediante delegati, dagli imperatori romani che avevano sede in
quella città dell’antica Tracia.
L’attuale metodo della
formazione di base alla fede si basa troppo su elementi mitici e spiritualizzanti
e non costituisce basi valide per l’azione del cristiano nella società in cui è
immerso, che, in particolare, è il compito principale assegnato dal Magistero
ai laici. Tenendo conto che la formazione primaria è, per la maggioranza della popolazione
italiana acculturata alla fede, l’unica della sua vita, non stupisce poi una
certa debolezza del nostro laicato nel coniugare fede e vita, che non è solo
quella personale, individuale, ma anche quella sociale, il che si esprime
sostenendo che la nostra è una fede comunitaria, e soprattutto
non limitata a un sentire o a una convinzione
intellettuale, ma che esige una pratica nelle relazioni
con altre persone.
Naturalmente cambiare pone il
problema preliminare della cosiddetta formazione dei formatori, che
ora mi pare insufficiente, se non inesistente. Ai tempi in cui mia
madre fu coinvolta nel ministero di catechista nella nostra
parrocchia, negli anni ’70, il tempo fecondo del rinnovamento della catechesi
nella Chiesa italiana, invece si fece, anche con l’aiuto di esperti inviati
dalla Diocesi che venivano in parrocchia, ma anche con sessioni specifiche
presso l’Università Lateranense. Mia madre poi la proseguì iscrivendosi al
corso di laurea in Scienze dell’educazione nella vicina Università salesiana, e
naturalmente, quando iniziò a mettere in pratica nel catechismo parrocchiale
quello che stava imparando, venne bruscamente esonerata dal parroco, anche
purtroppo a causa di mormorazioni parrocchiali. Il parroco non era una persona
cattiva, ma era stato formato in un certo modo per cui aveva paura del nuovo,
temendo di non riuscire a gestirlo, in particolare quando generava, appunto,
mormorazioni.
10. Stesso sentire.
L’unità che cerchiamo secondo la nostra
fede è descritta anche come un medesimo sentire. Come
interpretare questa espressione che ci giunge dai tempi antichi ed è anche
cruciale per cercare di vivere uno “Spirito sinodale”?
In una società pluralistica
come la nostra, può significare “pensarla tutti allo stesso modo”?
Riflettete: quando mai
è veramente successo nella storia delle nostre Chiese?
Per ciò che ricordo, non è successo neppure, vivente tra noi il Maestro, nel
gruppo dei primi apostoli.
Ma proprio questo quello che
ci richiese il Maestro, esortandoci ad essere una cosa sola?
Un teologo saprebbe rispondere con
la competenza propria della sua scienza e leggendo o ascoltando gli interventi
del Magistero si può avere un insegnamento autorevole in merito. Ma la
costruzione sociale non è solo ufficio loro, bensì di ciascuno di noi,
Per quanto mi riguarda,
osservo che pensare di proporci una metà che quasi mai è stata raggiunta tra
noi e, quando lo è stata, ancor più raramente lo è stata in modo stabile, è
irrealistico.
Se, ad esempio, prendiamo in
esame le discussioni che prepararono le deliberazioni dei documenti del
Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, capiamo bene che
anche nella larga maggioranza che poi li approvò si continuò a pensarla
diversamente su alcune importanti questioni, per cui i testi approvati furono
frutto di un compromesso, in quanto decidere fu ritenuto più importante che non
farlo, anche se ciò che fu deciso non rispecchiava esattamente la
convinzione di molti. La stessa minoranza di chi votò contro accettò comunque
la deliberazione collettiva, che non riguardava solo la questione intellettuale
della definizione di una questione dottrinale, come può accadere in un simposio
scientifico, ma ciò che possiamo considerare come leggi della
nostra Chiesa, capaci di modificarne il volto, come effettivamente avvenne. In
questo caso è ancora più eclatante che “medesimo sentire” non
significò identità di vedute e convinzioni sul da farsi.
Un atteggiamento
fondamentalista avrebbe invece condotto alla rottura, non tollerando
l’accoglimento di proposte contrarie al proprio orientamenti,
considerati come irrinunciabili. La frattura sarebbe anche stata suggerita da
posizioni integraliste, determinate da quel fondamentalismo, ritenendo
intollerabile anche solo stare insieme a chi la pensava diversamente,
considerato fonte di impurità sociale. Posizione che fu molto comune nelle
nostre Chiese delle origini, quando mi pare che ci si scambiarono più anatemi,
quindi deliberazioni di esclusione, che lettere di comunione, e
comunque i primi ebbero gli effetti più clamorosi.
Nella Costituzione dogmatica
sulla divina rivelazione Dei verbum – la Parola di Dio, che a molti
appare incompiuta, possiamo cogliere, per quella sua incompiutezza, indizi che
si andò molto vicini alla frattura. Nonostante questo, chi partecipò ai lavori
del Concilio ne riferì come di un’esperienza straordinariamente positiva, i cui
effetti per diverso tempo entusiasmarono tutti, anche chi votò contro alcuni e
decisioni e a prescindere da questo, aprendo un’epoca di effervescenza
ecclesiale della quale oggi chi non visse consapevolmente quei tempi fatica a
farsi un’idea.
In effetti si può
considerare che la grande importanza che nella storia della nostra Chiesa si
finì per attribuire a identitá di vedute su definizioni è prassi non
trova convincenti riscontri in ciò che il Maestro ci comandò.
Egli, mi pare di aver
capito, non fondò ad esempio una sua scuola, come era già usanza
nella prassi rabbinica nel giudaismo del suo tempo. Nessuno di coloro che gli
furono vicini fu accreditato come membro di una scuola, nel senso
di mirare a raggiungere un’autorevolezza pari alla sua e distinta dalla sua,
come accadde, ad esempio, nel caso dell’antico filosofo greco Platone rispetto
al suo maestro Socrate. I suoi discepoli, e in particolare quelli tra loro che
svolsero le funzioni di apostoli, presentarono invece la loro missione come
quella di chi ha ricevuto il comando di insegnare esattamente e
solo il vangelo del suo Maestro e, in particolare, l’esportazione all’agápe, intesa
come convivenza benevola misericordiosa, aiutandosi e sorreggendosi
amichevolmente gli uni gli altri, prendendo esempio da lui.
Del resto tra i più stretti
suoi primi seguaci non troviamo uomini di cultura del suo tempo, ad esempio
uno scriba.
Com’è allora che molto
presto si diede tanta importanza alle definizioni e com’è che gli scritti che
definiamo neotetamentari ci sono giunti in greco, che non era
certamente stata la lingua del Maestro e della prima cerchia dei suoi seguaci?
È evidente che sulle
tradizioni delle memorie della vita e dei detti del Maestro e su quelle delle
prime comunità riunite nel suo nome dopo la sua morte e Resurrezione si lavorò
molto e, in particolare, da persone che sapevano scriver nel greco antico.
L’incidenza della cultura
ellenistica, che appunto si esprimeva in greco, nella tradizione e
formalizzazione di quelle memorie può spiegare quell’accanimento puntiglioso
sulle definizioni, che storicamente generò anche efferate violenze. C’è ora chi
di quell’influsso è divenuto insofferente e ne vorrebbe depurare la tradizione
cristiana, ma, a prescindere dalle questioni filologiche implicate nell’analisi
dei testi sacri, che richiedono una raffinata competenza specialistica per
cercare di individuare parti di tradizioni corrispondenti a un deposito
antecedente all’ellenizzazione delle memorie evangeliche, considerando
semplicemente la storia delle nostre comunità delle origini, credo che questo
sforzo si potrebbe rivelare inutile, e ciò per il grande rilievo che ebbero,
fin dalle origini, i gruppi di fedeli formatisi in ambiente ellenistico. Ad
esempio ad Antiochia di Siria, che è ricordato come il primo luogo nel quale i
cristiani furono definiti tali.
Molto presto, insomma, si
cominciò a ragionare di fede, comunità, società, natura, quindi sul mondo, con
categorie filosofiche e politiche correnti nell’ellenismo del Primo secolo, da
cui poi derivò gran parte della nostra dogmatica, delle definizioni ritenute
fondamentali per essere riconosciuti come cristiani, nonostante che quello non
corrispondesse esattamente al modo di insegnare argomentando del Maestro.
E, come ho osservato,
un sentire comune in materia di definizioni, nel senso di
unanimità, fu assai raro e in fondo questa è anche la situazione attuale, e non
solo tra teologi e clero, ma anche tra tutti noi, anche in un ambiente di
prossimità come la nostra parrocchia.
Però se considerassimo che
il Maestro ci esortò all’unitá intesa come agápe, quindi non
tanto sulle definizioni, sulle quali i colti avversari del suo tempo tentarono
di coglierlo in fallo, ma come pratica di amicizia, compassione e solidarietà
alla portata di tutti coloro che rimanevano coinvolti nel suo vangelo, allora
sarebbe differente. Si potrebbe essere uniti nonostante certe diversità e
questa unità verrebbe prima delle distinzioni concettuali anche se frutto di
culture sofisticate. Come nella parabola del Samaritano misericordioso, di
recente posta al centro dell’enciclica Fratelli tutti di papa
Francesco.
11.Pluralismo e comunità.
Una comunità è una collettività legata
da relazioni più strette, in intensità e frequenza. Alle origini, i
cristianesimi furono comunitari, ben prima che si producesse la loro
istituzionalizzazione.
Necessariamente il vivere
comunitariamente tende a separare le persone, in maniera più o meno
forte, dall’esterno. Questo grado di separatezza è richiesto per essere
riconosciuti come partecipi della comunitá. Gli elementi caratterizzanti la
comunità, e quindi separanti dal resto, variano a seconda delle culture, del
contesto sociale, dei fini del radunarsi. In genere il passaggio da fuori a
dentro è segnato da riti di iniziazione, mentre quello da dentro a
fuori da riti di esclusione. Una procedura sociale ha il carattere di rito
quando presenta elementi simbolici. Il simbolo è un segno o un’azione che
richiama sinteticamente il senso di ciò che accade o si vuole intendere. Ogni
comunità, in quanto racchiude e separa, ha un certo grado di integralismo. Ciò
che socialmente si ritiene non possa essere superato, pena l’esclusione dalla
comunità, ne è il fondamento. Ogni comunità esprime anche un certo
fondamentalismo. Vengono chiamate, però, integraliste quelle
comunità che più intensamente fanno della separatezza una ragion d’essere
e fondamentaliste quelle che estremizzano i loro elementi
caratterizzanti, condizionando ad essi la disponibilità a relazionarsi con
l’esterno.
Moti integralisti e
fondamentalisti hanno segnato i cristianesimi fin dai primi tempi, ma essi sono
convissuti con la tendenza all’apertura universale, nella convinzione di essere
mandati a tutte le genti della Terra per diffondere il vangelo. Si tratta di
una condizione paradossale. In particolare nello spirito di agápe si
vorrebbe includere, e questo comporta anche il separare sotto
certi aspetti, ma nello stesso tempo mantenendo la solidarietà umana con chi è
(per ora) fuori. Si vive quindi l’inclusione come un accogliere, rimanendo
sempre disponibili a questa accoglienza nonostante i forti legami comunitari,
ciò che Papa Francesco esprime invitando ad abolire le dogane ai
nostri confini comunitari. Mantenere in equilibrio questi elementi
apparentemente contrastanti non è stato storicamente facile, specialmente dopo
la marcata istituzionalizzazione delle nostre Chiese.
Si ha istituzionalizzazione
quando una società produce un proprio diritto, quindi norme su chi comanda, il
modo di farlo e i doveri e facoltà dei consociati, che siano formali, definite,
imposte come obbliganti da una comunità, di modo che la loro violazione
comporti una sanzione che può giungere anche all’esclusione o peggio.
In una
parrocchia, che oggi si vuole come istituzione e comunità,
quindi istituzione comunitaria troviamo tutti gli elementi a
cui sopra ho accennato. La nostra missione è di questi tempi cercare di rafforzare
l’elemento comunitario, che, come è accaduto nel resto della società italiana,
si è molto indebolito, sia per l’allentarsi delle relazioni sociali di
prossimità derivante dai costumi sociali correnti, sia per l’affermarsi da noi
di tendenze integraliste e fondamentaliste.
I cristianesimi fin dagli
inizi furono, e sono ancora, marcatamente pluralistici: questo significa che
non c’è mai stato un solo modo di vivere da cristiani, al di là del consenso
più o meno ampio su riti e definizioni. Questo pluralismo è spesso stato
vissuto come imperfezione, talvolta cercando di correggerlo con l’esclusione,
talaltra provando a pacificarlo mediante l’integrazione. L’accettazione di un
ampio pluralismo di vita sociale orientata secondo i cristianesimi, pur nella
rigidità in materia di definizioni, fu una delle caratteristiche del Medioevo
europeo, molto idealizzato in genere tra i cattolici. In quel contesto, anche
l’istituzionalizzazione, vale a dire la normazione, fu più marcatamente una
produzione sociale, piuttosto che, come avvenne dal Seicento, un’imposizione di
autorità deliberanti. La tendenza delle società europee di oggi è nel senso di
recuperare quel pluralismo, superando lo statalismo che vi imperò almeno fino
agli anni Cinquanta. Nella Chiesa italiana si manifestano analoghe tendenze.
12.Il piccolo nel grande.
Tutti, i sapienti come gli ignoranti,
siamo confinati in ambienti cognitivi molto limitati, che possiamo descrivere
come il teatro delle nostre vite quotidiane. A partire da lì
ci figuriamo la realtà, diciamo l’universo, per indicare tutto il resto
che c’è. Non possiamo essere diversi, perché questo modo di capire dipende
da come è fatta la nostra mente ed essa si è evoluta in milioni di anni. È più
o meno la stessa negli ultimi duecentomila anni, ci insegnano le scienze
biologiche.
Per evadere dai nostri
ambienti cognitivi personali limitati ci aiutiamo gli uni gli altri e quindi
formiamo società. L’evoluzione della nostra mente ci permette di crearne di
immense mediante le culture, che sono rappresentazioni immaginifiche
dell’universo secondo le quali ci orientiamo nelle relazioni di massa, vale a
dire con gli individui che non arriveremo mai a conoscere veramente. Le culture
sono possibili in base ai miti, che sono immagini semplificate
della realtà caricate di elementi emotivi. Questo perché noi cerchiamo di
capire per agire e agiamo in base alle emozioni. La parola “emozione” ci viene
dal francese, nel quale a sua volta costituiva l’evoluzione di una parola
latina che richiamava l’idea di mettere in moto, anche nel
senso figurato di suscitare passioni.
Nelle religioni gli elementi
culturali emotivi sono fondamentali. In un certo senso delle religioni ci
si innamora prima di capirle e le si capisce da innamorati,
altrimenti si ha la sensazione di esaminarle dall’esterno, come fanno gli
antropologi.
Questo innamoramento
religioso crea problemi quando si pensa la vita religiosa in grande, al di là
di un piccolo gruppo di prossimità nel quale ci si riesce a conoscere
intimamente tutti, come accade in una famiglia. E parlando di una parrocchia
come la nostra si pensa in grande, anche se non è tra le societá piú grandi.
Non sappiamo esattamente quanti fedeli contenga: nel suo territorio vivono
circa quindicimila persone, delle quali circa l’80% fanno riferimento al soprannaturale
e all’etica cristiani, circa il 30% vengono saltuariamente in chiesa e affidano
i loro bambini per la prima formazione etica, e circa il 7% frequenta
regolarmente la nostra chiesa parrocchiale, un migliaio di persone circa,
quelle che dovremo cercare di coinvolgere nel processo sinodale che sta per
iniziare. È chiaro che non possiamo pensare di conoscere da vicino, come un
parente prossimo, ogni persona di quel migliaio. L’antropologia concorda che
possiamo arrivare a conoscere in quel modo solo circa 150 persone, detto numero
di Dunbar dal cognome dell’antropologo inglese Robin Dunbar che lo
propose alla comunità scientifica in base alle sue ricerche. Dobbiamo servirci
quindi di una cultura emotiva dell’incontro per mediare le
nostre relazioni con quell’ambiente umano più vasto.
Il nostro problema è che
quella cultura non c’è, va costruita, e senza di essa ciascuna persona rimane
confinata nel proprio particolare o, addirittura, nella propria individualità.
Di solito, infatti, in religione ci serviamo dei riti, che definiamo liturgie,
parola che etimologicamente richiama un’azione di massa, ma non c’è ne
sono per processi sinodali di base, perché da secoli il popolo,
intendendo coloro che non appartengono al clero o ad ordini
religiosi, ne sono stati emarginati. Questo perché si è ritenuto che dovessero
semplicemente seguire dei pastori al modo di un gregge,
temendone il pluralismo. Durante il Concilio Vaticano 2º, preso atto che la
complessità delle società contemporanee richiedeva la loro partecipazione ai
processi decisionali, si cercò di coinvolgerli maggiormente, ma, appena si
iniziò a farlo, nel corso degli scorsi anni ’70, la nostra gerarchia temette di
perdere il controllo del processo e tutto fu sospeso. Ragione per la quale,
ancora ai tempi nostri si raccomanda ai laici la partecipazione ma non la si
consente, non creandone una cultura adeguata. Questa umiliante condizione è
all’origine dei problemi della nostra Chiesa, come di altre Chiese cristiane,
perché si finisce per servirsi della religione più che altro nel suo aspetto
rituale per celebrare con più solennità le feste della vita, in un contesto
propiziatorio o consolatorio, altrimenti appare inutile e addirittura
controproducente.
Quando le masse religiose
vengono radunate per un grande evento religioso, vi partecipano solo come
comparse chiamate a fare e a dire ciò che si dice loro, secondo un certo
copione, nel quale il ruolo principale, nel quale si può veramente comunicare
qualcosa, è riservato al celebrante, appartenente al clero.
In un processo sinodale
parrocchiale dobbiamo cercare di organizzare occasioni di incontro nelle quali
quel migliaio di persone che vorremmo coinvolgere emergano dall’anonimato e si
facciano conoscere. L’unico metodo praticabile è convocarle per gruppi limitati
che mantengano una certa capacità di relazione e dialogo con gli altri gruppi
mediante elementi culturali adeguati. Ciò significa anche costruire una cornice
istituzionale adeguata, una specifica ritualità, inserendovi elementi emotivi
che di solito hanno origine artistica. Quanto a questi ultimi l’architettura ha
storicamente svolto una funzione molto importante: le chiese
cristiane come costruzioni architettoniche sono sotto questo punto di vista
potenti macchine cognitive.
Negli anni ’90 la nuova chiesa
parrocchiale venne progettata architettonicamente per rappresentare l’incontro
secondo le concezioni che vi avevano preso piede nel decennio precedente. Da
ultimo, con la costosa realizzazione del presbiterio e del grande altare
centrale, si completò l’opera. Con tutta evidenza la nostra chiesa parrocchiale
venne pensata per una neocomunità molto coesa e affiatata di
dimensioni molto inferiori a quella che ora costituisce per noi l’obiettivo del
processo sinodale. Una scelta che ora è impossibile correggere, perché non
possiamo pensare di ricostruire la nostra chiesa parrocchiale, ma anche, in
fondo, inutile, perché si deve comunque procedere per gruppi limitati, anche
per radunare quel migliaio. Rimane il rimpianto di aver subito decisioni così
importanti senza il minimo coinvolgimento della base dei fedeli della
parrocchia, salvo che per chiedere loro un contributo economico.
13. Comunità aperta.
L’ambiente comunitario della nostra
parrocchia è ancora piuttosto debole.
Nella riforma della
catechesi progettata negli anni ’70 si riponevano troppe speranze sulla
capacità di educare alla fede per l’effetto dell’inserimento in una comunità.
Questo perché si diffidava abbastanza di quell’attività di coinvolgimento e
costruzione sociale che definiamo mediazione culturale.
In generale si pensava
alla cultura religiosa come un dato preesistente,
completo e immodificabile e la vita comunitaria come un semplice metterla
in pratica in modo che le intense relazioni che caratterizzano
le comunità la sorreggessero e la veicolassero. Sottinteso vi era anche il
confidare nella possibilità di esclusione del membro di una comunità educante qualora
si manifestasse deviante verso la cultura religiosa normativa. Non venne inteso
il significato di coartazione della libertà di coscienza che vi era insito,
dissonante con i principi deliberati nella Dichiarazione sulla libertà
religiosa “Della dignità umana – Dignitatis humanae” durante il
Concilio Vaticano 2°.
In realtà quella concezione
di cultura religiosa, che direi totalitaria, non corrisponde alla
realtà della fede delle persone, che reagisce con la loro vita, e quindi con le
loro esperienze sociali, e in definitiva è sempre in via di costruzione. La
storia delle nostre Chiese può convincerci che è sempre stato così. La
fede vissuta comunitariamente evolve continuamente. L’unica
fede che non evolve è quella morta.
L’ossessione dell’uniformità
culturale intesa come ortodossia, che purtroppo ha caratterizzato le nostre
comunità fin dalle origini e ha causato gran parte del male sociale che esse
espressero, conduce inevitabilmente al ricatto comunitario, secondo
il quale chi non si conforma alla cultura ritenuta normativa nella comunità di
riferimento è minacciato di esclusione, ed effettivamente escluso quando
persiste. Bisogna dire che dai vertici ecclesiali è in genere venuto un cattivo
esempio in questo campo, ma non vi è per noi alcuna possibilità di produrre una
riforma a quel livello. In una realtà come quella parrocchiale, invece, si può
tentare.
Questo è un aspetto molto
importante di un processo di riforma parrocchiale volto a potenziare l’elemento
comunitario. Infatti, l’esigenza di ottenere dalle persone un conformismo a
certe prassi ritenute normative perché corrispondenti a un dato modello di
cultura religiosa conduce fatalmente alla chiusura verso
tutto ciò che c’è intorno, anche nell’ambito della stessa parrocchia, in
qualche modo considerata una società carente e da riformare, insomma, qualcosa
assimilabile a ciò che nel gergo religioso viene definito, in senso
negativo, mondo.
La chiusura si fa tagliando
legami, impedendone di nuovi e saturando con quelli all’interno della comunità
di riferimento quelli di cui una persona è capace, che non sono molti. Per
chiudere con più efficacia si cerca di ridurre le dimensioni delle comunità in
cui una persona è inserita, operando una selezione, per aumentare
l’intensità della forza comunitaria centripeta. Le relazioni infatti si fanno
molto più intense nei piccoli gruppi e la psicologia ci parla
proprio di specifiche dinamiche dei piccoli gruppi che vengono utilizzate, ad
esempio, nelle procedure di riabilitazione dopo traumi. Se la persona vive la
fede prevalentemente o addirittura esclusivamente in piccoli gruppi totalitari
di quella natura certamente è coartata più efficacemente al conformismo
sociale, ma vive anche in una realtà sociale per così dire artificiale,
che assomiglia a una serra. La persona vi sta piantata lì e attende le cure di
chi si attribuisce le mansioni di agricoltore: è addirittura peggio della
metafora comunitaria del gregge, con il pastore che se ne prende cura. In
entrambi i casi si ha una disumanizzazione indotta
dalla comunità, con persone spinte a pensarsi piante o pecore.
La parrocchia concepita
come comunità di comunità-serra è in realtà un
ambiente in cui ogni persona è estranea alla maggior parte
delle altre e, quindi, è comunità solo di nome: non può
esistere comunità quando si rimane estranei. E non basta quel poco di
consuetudine liturgica che si ha, perché in essa, per come di solito è svolta,
la gente è nelle condizioni di semplice comparsa in uno spettacolo in cui il
copione è scritto da altri e i protagonisti sono altri. Se le relazioni
comunitarie si riducono prevalentemente a quelle liturgiche esse sono ben poco
come relazioni e, in realtà, sono relazioni solo immaginate.
Come ho scritto, però, coinvolgere
anche solo quel 7% delle persone del quartiere che viene regolarmente a messa
la domenica richiede di organizzare incontri per piccoli gruppi di
approfondimento. Come evitare, allora, il totalitarismo comunitario che ne può
derivare? Innanzi tutto rifiutando il ricatto comunitario
di cui ho scritto e poi, molto semplicemente, facendo ruotare le persone tra i
vari gruppi di approfondimento, in modo che acquisiscano una consuetudine con
molta più gente, e, innanzi tutto, si abitui a non temere ciò che c’è fuori dai
gruppi di persone con cui si è più in sintonia.
Anche il nostro gruppo di
Azione Cattolica parrocchiale deve cominciare a praticare quell’apertura, dando
il buon esempio. Naturalmente occorre però dare una cornice organizzativa e
istituzionale, vale a dire progettare un nuovo ambiente sociale destinato agli
incontri che chiamerei sinodali, perché si sta ragionando in
preparazione del processo sinodale che si vorrebbe far partire dal prossimo
ottobre. La sede propria per questa deliberazione è il Consiglio
pastorale parrocchiale, di cui in genere i fedeli della parrocchia sanno
poco, ad esempio, chi vi partecipa, che si fa, che si è deciso.
14. La lezione della
storia.
Quando, ormai più di vent’anni fa, san
Karol Wojtyla, avvicinandosi gli eventi del Grande Giubileo dell’Anno 2000,
volle guidarci, con la sua autorità di Papa, nel lavoro che chiamò purificazione
della memoria, vale a dire nel far memoria veritiera del nostro
passato ecclesiale per non ripeterne il male che aveva espresso, pose
consapevolmente le basi per un inedito processo di riforma. Infatti, in genere,
quella memoria era stata pesantemente alterata per ragioni di politica
ecclesiastica e solo così facendo, ad esempio, si può favoleggiare di origini a
cui si dovrebbe tornare perché realmente più virtuose a confronto con il nostro
oggi.
Anche solo accostando ad un primo
livello di comprensione la storia realistica di quelle
origini si capisce bene infatti, innanzi tutto, che esse furono fortemente
pluralistiche, per cui non esprimono un solo modello sociale,
poi che furono ben poco virtuose dal punto di vista della
ricerca di una convivenza pacifica e solidale, il nostro attuale problema dei
problemi, e, infine, che il tipo di organizzazione ecclesiale a cui siamo
abituati emerse in un processo assai travagliato solo dopo circa un secolo da
quelle origini.
E quel travaglio
significò lotte, violenze, esclusioni reciproche, alle quali
vanamente si cercò di porre rimedio con quello che oggi chiamiamo spirito
sinodale, venendo composte, sempre però precariamente, solo quando la
teologia politica dei cristianesimi creò un’ideologia adatta ai tempi nuovi,
che fu strumentalizzata nel grandioso processo di riforma dell’impero romano
promosso dall’inizio del Quarto secolo, a seguito del quale l’autorità politica
impose la definizione delle principali controversie teologiche nel modo ad
essa politicamente più conveniente, in modo da accreditare la
propria neo-autorità imperiale come quella di un luogotenente del Cielo, vescovo
universale e insieme vicario, il modello poi adottato
nell’Undicesimo secolo nella costruzione teologica e politica di un Papato
Romano imperiale.
In Italia la materia
della storia del cristianesimo è rimasta con quelle del diritto
canonico e del diritto ecclesiastico, tra gli
insegnamenti con affinità teologica ancora praticati nelle università statali,
mentre la teologia vi fu espunta, e questo ha consentito un pensiero in questi
campi libero dai pesantissimi condizionamenti ecclesiastici ai quali gli
insegnamenti teologici furono soggetti, e quindi maggiormente affidabile,
perché non vi può essere ricerca affidabile che non sia anche libera. Nella
storia del cristianesimo si sono distinti in Italia
gli insegnamenti impartiti nell’Universitá La Sapienza di Roma,
fondata dal Papato e acquisita dal nuovo Regno d’Italia dopo l’unità nazionale.
15. Cultura religiosa.
Negli scorsi anni Cinquanta i laici
italiani cominciarono a contare di più nella nostra Chiesa, questo
essenzialmente per il ruolo politico nelle vicende nazionali che si erano
dimostrati capaci di svolgere. Era stato il risultato di un lungo processo di
formazione che si era svolto prevalentemente in Azione Cattolica, organismo
costruito dal Papato agli inizi del Novecento, nei tempi bui della persecuzione
antimodernista, proprio al fine di costituire una forza sociale e politica che
sostenesse le sue rivendicazioni politiche. La nuova associazione, in realtà
fatta di un complesso coordinato di associazioni di settore, aveva presto
superato le aspettative clericali, finendo per costruire ed esprimere una
multiforme cultura democratica. Poiché l’Italia, ormai organizzata
politicamente come stato nazionale, era divenuta una sorta di laboratorio
politico del Papato, i principi fondamentali di quell’esperienza finirono
per orientare la politica ecclesiastica mondiale, anche se la cultura teologica
che venne impiegata per pensare il nuovo corso ci provenne in gran parte da
intellettuali francesi, in particolare da filosofo Jacques Maritain (1882-1973)
e dai teologi Yves Congar (1904-1995) ,domenicano, ed Henry de Lubac
(1896-1991), gesuita. Giovanni Battista Montini apprezzò particolarmente il
pensiero del primo e, al termine del Concilio Vaticano 2º, consegnò da Papa a
Maritain il messaggio del Concilio agli uomini di pensiero e di scienza. Questo
nuovo clima culturale influì molto anche in Germania, un’altra nazione europea
che era finita in preda al fascismo e nella quale i cristiani, protestanti e
cattolici, dal secondo dopoguerra svolsero un ruolo fondamentale nella
ricostruzione politica ed economica nazionale, mentre durante il passato regime
erano stati prevalentemente silenziati e asserviti, non essendosi manifestato
il quel Paese qualcosa di analogo al clericofascismo italiano. Non sono
d’accordo, quindi, con un commentatore politico italiano il quale ha
scritto l’altro giorno che la lunga egemonia politica dei cattolici italiani,
durata dal ’46 al ’94, sia stata “accidentale”: in realtà si colse ciò che era
stato a lungo seminato.
Lo stesso può dirsi a
proposito dei nostri attuali problemi ecclesiali, ai quali ci si propone di
porre un rimedio con il processo sinodale diffuso che inizierà dal prossimo
ottobre.
La politica
ecclesiale del Papato durante il lungo regno papale di san
Karol Wojtyla non si è rivelata positiva per l’Italia, tesa com’era
fondamentalmente a sopire, anche con una pressione disciplinare su clero e
religiosi, i fermenti che si erano manifestati nella nostra Chiesa negli anni
Settanta, quelli in cui si cercò di attuare i principi deliberati durante il
Concilio Vaticano 2º. Ne è derivato un certo clericalismo tra i laici italiani
che ne ha ridotto la capacità di pensiero innovativo anche nel campo loro più
proprio delle cose sociali e politiche. Del resto era proprio questo che si
voleva produrre. Finora quindi gli appelli ad un loro nuovo protagonismo che
ciclicamente sono venuti dai vescovi italiani e dai Papi dal 2005 sono andati
delusi. Come i chierici e i religiosi, i laici temono l’emarginazione esponendosi.
Del resto le occasioni di incontro intra-ecclesiale sono in genere egemonizzate
dall’episcopato e scontentarlo può costare caro, a chi preme di avere voce
nella nostra Chiesa. Così anche i vibrati appelli al rinnovamento
venuti dal 2013 da papa Francesco non hanno avuto una buona accoglienza, anche
perché egli ragiona secondo una prospettiva culturale assai distante da quelle
alla quali i cattolici italiani hanno finito in prevalenza per
acculturarsi, che sono il clericofascismo, ancora assai radicato, e il
cattolicesimo democratico.
È importante quindi,
cercando di liberarsi delle semplicistiche parole d’ordine, vuote di senso,
dell’ecclesialese clericale, provare a riprendere a ragionare di cultura
religiosa nella prospettiva dei laici, cercando di non pasticciare troppo con
la teologia, che, in passato, ha fatto più danni che bene nelle cose sociali.
Come ho scritto, meglio attenersi alla teologia scritta nei documenti del
Concilio Vaticano 2º, definita dal Montini il “catechismo dei nostri tempi”.
Basta e avanza. E per capirla ci vuole comunque molto impegno.
16.Rimanere sulla Terra
nelle cose sociali.
I maestri di spiritualità raccomandano
di limitare l’immaginazione man mano che si progredisce nel farsi pervadere
dalla fede. Presentano questo metodo come uno sbucciare una cipolla,
strato dopo strato. L’immaginazione, infatti, inganna e va considerata come le
rotelle delle biciclettine dei bimbi che imparano a pedalare.
Purtroppo, invece, quando
tra laici ci si incontra tentando di realizzare un nuova esperienza comunitaria
l’ecclesialese che ci si sente in dovere di praticare complica le cose. Si
tratta, in definitiva, di cercare di andare d’accordo nelle relazioni quotidiane
che riguardano le cose elementari. Questo ci esime dal travaglio della
teologia, della quale, in genere, si ha poca dimestichezza, finendo per
uscirsene non di rado con quelli che a un competente apparirebbero
degli strafalcioni. Del resto, a ben vedere, il Maestro non fu un teologo e si
scelse come discepoli più cari delle persone incolte.
Questo non significa che la
teologia non serva, perché in realtà ci è necessaria per capire come
considerare le nostre complicate società nell’ottica di fede e quindi anche per
trovare orientamenti. Ma è necessario esserci acculturati e, per insegnarla con
competenza, anche specificamente formato. La teologia, infatti, dall’Undicesimo
secolo è stata costruita come scienza, non come letteratura generalista e tanto
meno come un complesso di confuse ed estemporanee chiacchiere
ispirate. Tuttavia, naturalmente, si può, e anzi si deve, descrivere la propria
fede parlando e scrivendone senza per questo doversi fare prima teologo. Questo
pone al riparo da una certa presunzione e anche ad una qualche aggressività che
storicamente si è quasi sempre manifestata nel discorso teologico, e questo fin
dalle origini, quindi ancor prima che la teologia avesse statuto scientifico e
richiedesse pertanto un discorrererigoroso, vale a dire conseguente
con le premesse.
Ho notato che gli incolti in
teologia, quando parlano in ecclesialese, il confuso gergo a sfondo teologico
che sembra di prammatica quando i laici che hanno qualche funzione ecclesiale
discorrono in presenza del clero, hanno l’anatema facile, mentre, ai tempi
nostri, i teologi per così dire professionali, e si possono fregiare del titolo
solo coloro che hanno conseguito un dottorato, vale a dire un grado
accademico specialistico post laurea, sono in
genere molto più cauti e tolleranti.
Quando costruiamo le nostre
società di prossimità cerchiamo anzitutto di avere presente il comandamento
evangelico dell’agápe, che significa fare società in modo amicale,
misericordioso, benevolo, solidale, e, facendo tesoro dell’esperienza
ecclesiale di sempre, attestata finanche negli scritti nel neotestamentari,
cerchiamo di non impuntarci su questione di parole, considerando la tentazione
di escludere i dissenzienti come quella di un peccato grave. Che
nessuno di noi, che non ne abbiamo ricevuto la specifica funzione, osi mai dire
ad un’altra persona “Tu non sei di Cristo!”.
Teniamo a freno lingua
e immaginazione, facciamo elenchi di cose da fare insieme e dividiamoci i
compiti da buoni amici, cercando di essere costanti nel rispettare gli impegni
presi.
17. Il Sinodo in
parrocchia.
Le nuove norme canoniche sul
Sinodo dei vescovi prevedono una fase di consultazione del popolo. In passato
attività del genere non hanno veramente coinvolto la gran parte dei fedeli ma
solo alcuni dirigenti di associazioni e movimenti, in genere docili verso
i vescovi, come piace loro.
Questa volta il Papa
vorrebbe qualcosa di più, vale a dire un processo sinodale diffuso,
del quale tuttavia non vi sono precedenti e dunque non si sa come farlo.
Innanzi tutto, al di
fuori del Sinodo dei vescovi si può decidere qualcosa? Ancora non si sa bene
che cosa saranno chiamati a decidere i vescovi, che sul punto, al di là di
propositi piuttosto vaghi, non si sono sbilanciati. E se poi le proposte non
incontrassero il favore del Papa?! mi pare pensino i più: meglio aspettare che
ci dia l’imbeccata. I loro timori sono del tutto fondati. Per la struttura
autocratica della nostra Chiesa, contrariare il Papa regnante può costare molto
in termini di carriera.
In una parrocchia, quelle
considerazioni di potere non ci sono e, in genere, chi voglia può avere un’idea
chiara dei problemi. Il ruolo che vi hanno i laici è umiliante. Occorre
cambiare. Si può tentare di farlo sfruttando gli spazi di autonomia che già ci
sono, senza creare problemi geologici. Se ne può discutere non solo nei consigli e
nelle equipe, ma in occasioni d’incontro strutturate
come processo sinodale di base.
18.Le origini storiche
dell’umiliazione dei laici.
Trascrivo da
NEUNER Peter, Per una teologica
del popolo di Dio, 2015, pubblicato in traduzione italiana da
Queriniana, 2016:
Nella bolla Clericos
laicos (1296) il papa [Bonifacio 8º] constatava perfino che “è antica
tradizione che i laici siano sommamente nemici dei chierici, e anche le
esperienze del tempo ne danno conferma”. Sebbene affermazioni di questo genere
siano state determinate da situazioni concrete di conflitto politico con il re
di Francia, con esse è stata fissata per iscritto, anche dal punto di vista
teorico, la contrapposizione tra clero e laici, rispettivamente la
subordinazione e la sovraordinazione nella chiesa di due classi in conflitto
l’una contro l’altra. E questa idea entrò nel diritto canonico. Graziano, il
“padre della giurisprudenza ecclesiale” del 12º secolo: “Ci sono due tipi di
cristiani. Il primo, in quanto incaricato del servizio divino e dedito alla
contemplazione e all’orazione è conveniente che stia lontano dalle cose
temporali. Di esso fanno parte i chierici e coloro che sono dedicati a Dio e
cioè i religiosi.” Questi “sono i re”. L’altro tipo di cristiani è costituito
dai laici. A costoro è permesso possedere beni temporali, ma solo per l’uso…A
costoro è concesso di sposarsi, coltivare la terra, giudicare tra uomo e uomo,
pagare le decime, così potranno salvarsi se però eviteranno il vizio e faranno
il bene”.
In questo modo fu tracciata
e fissata una chiara linea di separazione nella chiesa. Da una parte o in alto
stanno coloro che hanno un un ufficio ecclesiastico, che sono legittimamente
ordinati e conducono una vita conforme alle regole di perfezione cristiana.
Questi sono i chierici; solo loro sono deputati al culto divino. [Accanto o
sotto sta la gran massa dei laici che a tutto questo non è chiamata e che per
questo conduce una vita nello stato di “imperfezione”. Le due parti non
formavano una comunità, ma erano rispettivamente sovra- e sub-ordinate l’una
all’altra.
L’immagine della chiesa è
chiara: i cristiani veri e propri sono i chierici. L’ordine dei laici va inteso
in definitiva come una concessione alla debolezza umana. […] Il chierico è il
cristiano perfetto, il laico è cristiano solamente nella misura in cui la sua
vita si accorda con quella di un chierico. Ciò che lo distingue dal chierico è
anche ciò che limita e oscura la sua esistenza cristiana. Terminato il periodo
dei martiri delle origini cristiane, quasi tutti i santi, che sono diventati
esempio di fede, appartengono all’ordine dei chierici: sono fondatori di ordini
religiosi, monaci e monache,vescovi o papi. Il laico, sebbene non in via di
principio, di fatto non sembra avere nessun accesso alla santità fini a quando
rimane in “stato di imperfezione” e non abbandona il mondo.
Quell’ordine di idee descritto da
Neuner è cambiato a seguito del Concilio Vaticano 2º, anche se nella pratica i
cambiamenti non sono stati del tutto conseguenti. Sotto il regno del papa Giovanni
Paolo 2º è quello dei suoi successori cominciarono ad essere proclamati molti
beati e santi che furono laici e proprio a motivo della loro vita da
laici. Caratteristica comune a tutti è però la sottomissione all’autoritá
ecclesiastica, nonostante tutto, anche nonostante la sua discutibile virtù. E
nella vita ecclesiale i laici, e soprattutto le laiche, vengono tenuti in una
condizione di umiliante soggezione, come se fossero ancora appendici non
necessarie dell’apparato istituzionale costituito da chierici e religiosi. Non
vengono veramente coinvolti nei processi decisionali, anche quelli nelle realtà
di prossimità, vengono trattati con esasperante sufficienza, non ci si cura
della loro formazione di secondo livello salvo che per i rudimenti in preparazione
del matrimonio.
19. Insufficienza
della spiritualità miracolistica.
Insufficienza della
spiritualità miracolistica
“Anche
oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del Signore dei profeti, cioè
delle persone coraggiose e perseveranti nel rispondere alla vocazione
cristiana. Persone che seguono la ‘spinta’ dello Spirito Santo, che
le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e agli esclusi; persone
che seguono la logica della fede e non del miracolismo; persone dedicate al
servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche parole: persone che
si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e si impegnano a
testimoniarla fedelmente agli altri”.
[papa Francesco, discorso ai fedeli dopo
l’Angelus, il 3-2-19]
Il miracolismo è
la spiritualità basata su pretesi fatti prodigiosi. Essa non è adeguata per la
formazione dei laici che devono partecipare alla vita sociale per cercarvi di
affermarvi i principi evangelici. Eppure è largamente utilizzata per
affascinare la gente meno acculturata alla fede o, comunque, come scorciatoia
formativa. In questo senso è ancora uno strumento del potere clericale.
Quest’ultimo, nella propria sacralizzazione, si ammanta di simboli che
rimandano a fatti prodigiosi ostacolandone una revisione critica.
Una formazione fondata sulla
fiducia nei prodigi, centrata su luoghi e persone miracolanti, è povera,
insufficiente, anche se produce belle e immaginifiche narrazioni. Le nostre
società non cambieranno se ci limiteremo a pregare e ad attendere un miracolo.
I poteri sociali, compresi quelli ecclesiastici, non potranno che degenerare se
non troveranno sufficiente capacità di critica sociale intorno a loro. E l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, come
insegnava Lorenzo Milani, grande anima.
Si magnificano presunti
prodigi e si è talvolta incapaci di riconoscerne uno vero, frutto del lavoro
determinante svolto da cristiani in collaborazione con altri movimenti di
virtuosi, vale a dire gli oltre settant’anni di pace europea, un evento senza
precedenti nella storia umana. È stata anche opera nostra e, religiosamente,
confidiamo che vi abbia posto mano anche il Cielo. La nostra gerarchia appare
in genere, ma vi sono eccezioni virtuose, incapace di ammetterlo e, al più, si
affida a un vago populismo che si è rivelato storicamente incapace di produrre
null’altro che precarie agitazioni, o addirittura si concede a tentazioni
francamente reazionarie.
La costruzione sociale è
arte che si impara e, in quanto produce pace, è via di santità per quelli che
la percorrono, scegliendo di rimanere nel mondo per agirvi
come fermento, non di fuggirlo cercando di creare oasi di pretesa
santificazione.
Purtroppo la formazione di
secondo livello dei laici, quella che si fa alle soglie della vita adulta e
quella permanente che dovrebbe continuare sempre, è sotto questi aspetti
gravemente insufficiente, e in genere la si riempie di una stucchevole
spiritualità miracolistica la quale, oltre ad essere inutile per un laico,
disgusta, del tutto a ragione, i più.
20. Tempi nuovi,
tradizioni e Tradizione.
Tempi nuovi iniziarono subito dopo la
morte del Maestro, ma durarono solo fino al terzo giorno. Dopo la sua
Resurrezione ne iniziarono altri ancora, dei quali si narra negli scritti
biblici neotestamentari, durante i quali egli fu di nuovo tra i suoi e in mezzo
alla gente per un po’ di tempo, per poi allontanarsene nuovamente in modo
prodigioso, promettendo di ritornare nella gloria, dando così inizio ad altri
tempi nuovi ancora. Da quel momento cominciò la riflessione sociale
per interpretarli. Innanzi tutto: quando sarebbe tornato e che fare fino ad
allora? Le attese di un ritorno veloce andarono deluse nei decenni successivi.
Si cominciò a pensare di non avere idea precisa di quando sarebbe accaduto.
Così le comunità delle origini si organizzarono, ciascuna secondo la propria
cultura, per durare, in una condizione di vasto pluralismo che non c’è più e
che durò circa un secolo, nel corso del quale morirono tutti i testimoni
diretti degli eventi evangelici, dei quali circolavano varie tradizioni. Da
queste ultime, procedendo la strutturazione sociale e istituzionale delle
nostre prime comunità, che presto manifestarono il costume di volersi tenere in
contatto, in particolare per ragionare di questioni di fede e di vita sociale
nella fede, scaturì quella che i teologi cattolici chiamano Tradizione e che
ritengono normativa per essere riconosciuti socialmente come cristiani. Essa
viene pensata come un deposito culturale da trasmettere di
generazione in generazione e i cattolici ritengono che risalga agli apostoli, i
discepoli che ricevettero direttamente dal Maestro l’incarico di trasmettere il
suo insegnamento in tutto il mondo, attraverso una serie di incarichi
successivi tra i loro successori. Di questo si può leggere nella Costituzione
sulla Divina Rivelazione La Parola di Dio – Dei Verbum, deliberata
nel corso del Concilio Vaticano 2º (1962-1965). In altre Chiese
cristiane ci sono diverse concezioni sulla natura e rilevanza della Tradizione.
Leggiamo in quel documento
del Concilio:
Gli apostoli e i loro
successori, missionari del Vangelo
7. Dio, con somma
benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le
genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.
Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione
di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo
dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro
predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola
morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito,
tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le
istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo
vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai
suggerimenti dello spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini a loro
cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il
messaggio della salvezza.
Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si
conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori
i vescovi, ad essi « affidando il loro proprio posto di maestri ». Questa sacra
Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque
come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal
quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).
La sacra tradizione
8. Pertanto la
predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati,
doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei
tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto,
ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a
voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per
quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu
trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla
condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa
nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a
tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di origine apostolica
progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti
la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la
contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19
e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose
spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione
episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso
dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in
essa vengano a compimento le parole di Dio.
Le asserzioni dei santi Padri attestano
la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse
nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa
Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella
Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le
stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di
parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del
quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel
mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola
di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).
Ciò sintetizzato, servendoci di un
documento dell’ultimo Concilio, per quanto riguarda gli aspetti del
problema trattati nella teologia cattolica, bisogna osservare che, nel corso
della storia delle Chiese cristiane, e specificamente della nostra, la quale
cominciò a manifestare le caratteristiche che specificamente la distinguono
dalle attuali altre tra l’Undicesimo e il Quattordicesimo secolo, si
manifestarono altre tradizioni culturali in materia di fede che non vengono
comprese in ciò che si ritiene costituisca la Tradizione, benché su questo
punto si sia molto discusso e ancora si discuta. Poiché la storia delle
nostre Chiese non ha avuto connotati particolarmente diversi da quelli delle
altre società e quindi non è stata particolarmente virtuosa, valutata secondo i
criteri evangelici, e, ad esempio, ha compreso il coinvolgimento in una serie
lunghissima di sanguinosi conflitti, discriminazioni razziali e di altro
genere, abusi di potere di ogni tipo, anche quelle altre tradizioni non sono
state da meno.
In genere chi è riuscito a
comandare in religione, non di rado valendosi del potere politico che di fatto
o di diritto era riuscito a conquistare, ha cercato storicamente di inglobare
le tradizioni, in particolare quella specifica che legittimava quel
suo potere, nella Tradizione, in modo da sacralizzare il proprio potere. Ad
esempio, fino al Concilio Vaticano 2º si riteneva ancora tra i cattolici che
nella Tradizione fosse compresa la sottomissione della donna all’uomo, e ciò,
va rilevato, contro i costumi dei cristiani in quel primo secolo in cui si
confrontarono e formalizzarono in testi scritti le varie tradizioni
evangeliche.
Nel lavoro di purificazione
della memoria al quale ci guidò san Karol Wojtyla da Papa è compreso
anche quello di distinzione tra le tradizioni storiche e la Tradizione, che
consideriamo come il tesoro prezioso da consegnare intatto alle generazioni
successive. Nonostante spesso lo si dubiti, non è un lavoro solo per teologi,
perché tutti noi, nell’interazione sociale partecipiamo
incessantemente alla creazione e trasmissione di tradizioni e quindi
di esso siamo anche responsabili personalmente. Ma ad esso si dovrebbe anche
essere formati, gli autodidatti non hanno dimostrato di farlo granché bene, ma
questa formazione è oggi in prevalenza riservata a clero e religiosi.
Così sembra che tra loro e noi laici si parlino lingue diverse e
spesso i laici manifestano una condizione di umiliante ignoranza, che è reale,
certo, ma dipende fondamentalmente da un inadempimento di chi ha avuto la
missione apostolica di rimediarvi.
21.Le relazioni creano
il senso della vita.
Quando iniziai il catechismo
dell’infanzia, che ebbi proprio nella nostra
parrocchia, cominciarono con lo spiegarmi chi era
Dio. Avrebbero fatto forse meglio a spiegarmi prima chi ero io. Capii
confusamente di essere qualcuno nella massa degli uomini, nella
specie dei bambini e che, come tale, avevo degli obblighi
assai vasti di obbedienza nei confronti dei miei genitori, innanzi tutto, e poi
di coloro che ne facevano le veci, nonne, preti, maestri e poi l’Akela dei
lupetti. In cima a tutti c’era questo Dio, che fondava il potere di tutti gli
altri sotto e che poteva mandarti all’inferno, per sempre, per la minima
disobbedienza. Per molti la religione rimane essenzialmente questo, anche
quando la riscoprono in altre stagioni della vita o, addirittura,
solo da anziani. La rivoluzione nella catechesi che si cercò di progettare
negli anni ’70 cercò di presentare un diverso modo di vivere la fede, ma nella
pratica non ci si riuscì mai, perché senza la sacralizzazione del potere di cui
dicevo sembrava che tutto svanisse.
Noi capiamo chi siamo
mediante le relazioni sociali a cui partecipiamo nelle varie età della vita,
nella quale troviamo un limite oggettivo come quello che ci si prospetta verso
la fine. Se ne prese coscienza anche in religione negli anni ’60 e ’70 e si
cercò quindi di organizzare la catechesi rinnovata in comunità educanti, le
quali, però, finirono per manifestare un certo dispotismo, quando non realmente
partecipate. Non basta, infatti, all’animo umano proporre di continuare a fare come
tutti gli altri, e meno che mai secondo i costumi della famiglia di
origine. Queste comunità ovile o comunità serra, la
cui caratteristica era la separazione dal resto della società per preservare nuclei
di resistenti, creavano relazioni troppo povere, in particolare per i giovani,
che per fisiologia sono spinti a rendersi autonomi. Inoltre
finiscono per selezionare elementi docili, l’urtante
termine che purtroppo ricorre nel Magistero quando si rivolge ai laici, mentre
gli altri prendono altre strade. La crisi dei modelli ecclesiali correnti è
prima di tutto crisi di relazioni sociali, alla quale si cerca di porre
inutilmente rimedio con la spiritualità miracolistica e l’agitazione
liturgica, la prima fortemente caratterizzante la seconda. Nell’attuale prassi
liturgica il popolo, composto in massima parte da persone laiche, è
ridotto al ruolo di mera comparsa adorante e non ha vera voce.
Formare alla fede, come in
ogni altro tipo di formazione vera, significa costruire società, quindi
relazioni tra persone. Anche quella con Dio, come viene inteso tra i cristiani,
va costruita, per questo non è mai la stessa in tutte le persone e anche nell’evolvere
dei tempi.
Da bambino, per come
mi presentavano la religione, pensai che avrei finito per annoiarmene: man mano
che crescevo mi resi conto che le persone, nella loro vita, non hanno mai
veramente il tempo di annoiarsi perché essa è breve, troppo breve, e le
stagioni della vita si succedono tumultuosamente, cambiando il mondo che
percepiamo intorno perché cambiano le nostre relazioni con esso. Chi vuole
fermare il proprio tempo, ad esempio sforzandosi di credere come quand’era
bambino, rimane deluso, perché non funziona per quanto ci si sforzi, attivando l’immaginazione.
Piuttosto la religione, se
non tiene conto che le persone cambiano, diventa rapidamente inutile e, proprio
perché il tempo della loro vita è poco, le persone tendono a non sprecarlo per
ciò che si rivela inutile.
La religione, come ancora
oggi è presentata, diventa rapidamente inutile. Pochi tra i laici hanno il
privilegio di approfondirla in modo da rendersi conto perché, invece, essa è
stata amata da grandi anime del passato, e lo è anche oggi, e tra esse persone
molto sapienti.
Il miglioramento della
formazione religiosa delle persone laiche, da non intendere strettamente come
catechesi ma come costruzione sociale, è pregiudiziale all’esito del processo
sinodale diffuso che si sta progettando nella Chiesa italiana dal prossimo
ottobre, perché non si risolva nella solita, noiosa, insensata, pantomima
paraliturgica, nella quale il ruolo delle persone laiche è più che altro quello
di recitare ciò che leggono sul foglietto con la loro parte.
22.Nella storia molte
risposte.
[Da FILORAMO Giovanni, Storia della Chiesa –
1. L’età antica, EDB, 2019]
(pag.100-101) Il sorgere, nel
corso del 2º secolo, di un’apologetica cristiana come difesa puramente
razionale, senza ricorrere ad argomenti scritturistici e dunque alla
rivelazione, delle proprie dottrine e pratiche, costituisce un momento
essenziale nel formarsi della “grande Chiesa” che, in questo modo, dimostra di
sapersi confrontare su un piano di parità con la cultura ellenistico-romana.
Questo confronto non va inteso a senso unico. Le posizioni degli apologeti del
2º secolo, a questo proposito, variano tra una più concordistica, tesa a
dimostrare l’importanza e la convergenza tra il meglio della ricerca razionale
e il contenuto della dogmatica cristiana,e un’altra, più conflittuale, tesa di
contro a sottolineare l’irriducibilità delle verità di fede e quelle
raggiungibili dalla ragione.
[…] Questo contrasto è già presente in
Paolo […] ritorna negli apologeti nelle sue diverse risposte di Giustino e
Taziano […] il primo, con la sua teoria del lògos spermatikòs [le
idee sul rettò comportamento e il divino già presenti trama le genti prima
della rivelazione cristiana], getta le basi di una teologia naturale che, tra
alti e bassi, arriva al Concilio Vaticano 2º.
[…]
(pag.99) Il tratto distintivo della più
antica apologetica cristiana, intesa come presentazione, su di un piano di
plausibilità razionale, dei contenuti della fede non soltanto come mezzo di
difesa del cristianesimo, ma nel contempo, ai fini di propaganda e diffusione,
consiste nello sforzo di accreditare il cristianesimo presso la classe politica
e intellettuale pagana come il solo interlocutore valido sul piano della
politica religiosa; e questo, sia nei confronti delle forme tradizionali di
religiosità, sia nel confronto del proliferare dei nuovi culti. La cooperazione
tra cristiani e sistemi di potere del mondo corrisponde alla volontà di Dio
come mezzo per facilitare la salvezza degli uomini.
[…]
(pag.105) Nel corso del 3º secolo,
nonostante la violenta persecuzione di cui fu vittima a metà secolo prima sotto
Decio poi sotto Valeriano, la Chiesa conobbe un processo di ampliamento e
consolidamento […] quel che pare più probabile è che all’inizio del 4º secolo,
al momento dello scoppio della “grande persecuzione” dioclezianea, essi [i
cristiani] costituissero quasi il 10% della popolazione dell’impero, stimata
intorno ai 70 milioni: una minoranza, ma significativa. Un caso a parte è
rappresentato da Roma, per la sua posizione eccezionale in quanto capitale
dell’impero: a metà del 3º secolo i cristiani potevano essere circa 40.000, tra
il 5 e il 10% della popolazione, stimata a circa 7000.000. Ciò potrebbe
spiegare il detto attribuito da Cipriano a Decio: “preferirei sentire che un
imperatore romano è insorto contro di me piuttosto che vi sia un altro vescovo
a Roma”. (Lettere 59,9).
*******************
Nella formazione
religiosa della gran parte delle persone, la storia non è presente e questo la
rende povera. Inoltre va sprecato, dal punto di vista religioso, il prezioso
patrimonio culturale che si acquisisce durante le scuole secondarie, che,
invece, dovrebbe essere costantemente rinfrescato e arricchito nel corso della
formazione religiosa. Quest’ultima, invece, per i più si indirizza presto verso
una spiritualità di tipo miracolistico che riduce alla umiliante condizione di
mero gregge nelle mani di un clero che, privo di un
sufficiente apporto dei laici, appare incerto, insicuro, ondivago tra
conservazione e atteggiamenti reazionari, incapace di confrontarsi
con la società intorno.
Senza la capacità di
mediazione culturale sviluppatasi nelle società dei cristiani tra il 2º
e il 3º secolo le chiese cristiane sarebbero state rapidamente
riassorbite dalla società intorno, come accadde ad altri culti coevi. La
mediazione per il potere politico influì poi potentemente, dal 4º secolo, sulle
definizioni teologiche fondamentali, in particolare sulla cristologia e sul
concetto di Regno, in un contesto culturale in cui gli imperatori
cristianizzati iniziarono a rivendicare il ruolo di vescovi
supremi e di vicari di Cristo.
23.Difficile Sinodo.
Il Sinodo della Chiesa cattolica
tedesca, il cui inizio ha preceduto quello della nostra, spaventa la nostra
gerarchia, che si rende ben conto che, volendo veramente coinvolgere tutti i
fedeli, e non solo ritualmente, difficilmente si riuscirà a eludere i problemi,
in particolare quello della umiliante condizione dei laici, e tra essi quella
delle donne, e la crisi del sacerdozio ministeriale come stato di vita separato
e privilegiato. Quindi penso che si sceglierà la via solita di ritualizzare e
in tal modo di circoscrivere il contributo effettivo dei laici a quella parte
di loro che ancora non si scandalizza di essere tenuto nella posizione di gregge.
La situazione alla
quale non si riesce a porre rimedio ha origini storiche e si è particolarmente
inasprita dal 16º secolo, nella fase applicativa del Concilio di Trento
(1545-1563). La maggior parte dei fedeli non ne ha nessuna consapevolezza, ma i
preti sì, ne vengono informati nel corso del loro lungo iter formativo. Se ne
tratta, ad esempio, in NEUNER Peter,Per una teologia del popolo di
Dio, pubblicato nel 2015 in Germania e in traduzione italiana da
Queriniana l’anno successivo. Ne cito di seguito alcuni brani.
(pag. 64-65) La
distinzione tra clero e laici caratterizzò l’ecclesiologia medievale che consisteva
fondamentalmente in una dottrina della gerarchia e dei suoi poteri. Le immagini
dell’unico popolo di Dio e dell’unico corpo di Cristo furono modificate in modo
tale da non esprimere più l’unitá della chiesa, ma una separazione
interna. […] La chiesa diventata una città con due popoli,
l’uno raccolto dietro il papa, formato da vescovi,dai sacerdoti e dai monaci,
l’altro raccolto dietro l’imperatore, formato dai principi, dai cavalieri, dai
contadini, da uomini e donne.
[…] Clero e laici stavano gli
uni di fronte agli altri in un atteggiamento di fondamentale ostilità, come chi
domina e chi è dominato.
[…] Di fatto, i laici ora erano
privati di tutto ciò che era significativo per la loro loro vita ecclesiale.
Ora tutto questo apparteneva al clero.
[72-74] Nei decreti dogmatici
del concilio [di Trento] il sacerdote è presentato come l’uomo
dei sacramenti, caratterizzato dal potere di consacrare i doni eucaristici e di
perdonare i peccati, vale a dire dai poteri che il laico non ha. […] I
sacerdoti furono, per così dire, rapiti in cielo. Ne troviamo un esempio
nel Catechismus romanus, un documento ufficiale che doveva
rielaborare le decisioni del concilio di Trento per i parroci e le comunitá,
nel quale si dice che “nessuna missione sulla terra è più sublime di quella dei
sacerdoti e giustamente i preti sono chiamati non solo angeli, ma addirittura
dèi, portando in sé stessi l’efficacia e la maestà della divinitá”.
[…]
Nell’epoca che segue il
concilio di Trento la Chiesa viene vista innanzitutto e prima di tutto come una
grandezza suddivisa in classi, come una società di diseguali. […] L’impostazione
era chiara: da una parte c’era la. Chiesa docente, dall’altra la Chiesa
discente e obbediente. I fedeli sono le pecore delle quali si prendono cura i
pastori. La loro funzione nell’annuncio è limitata a “testimoniare ciò che è
stato loro insegnato dai pastori”.
[…] Questa
concezione della chiesa trovò la sua codificazione anche nel diritto
canonico.Questo era quai esclusivamente un diritto riguardante il
clero. I laici comparivano quasi esclusivamente come oggetti di
diritto, non come soggetti di diritti. […] [Nel sistema del codice di
diritto canonico del 1917] i laici sono coloro dei quali ci si deve
prendere cura e sui quali, per questo motivo [il clero] può
esercitare le proprie potestà. E anche laddove ai laici viene aperta la
possibilità di esercitare una parte attiva, come ad esempiomnell’Azione
Cattolica, nelle associazioni e confraternite, il diritto canonico deve fare in
modo che tutte queste attività possano essere compiute attentamente
soltanto sotto la guida e le direttive del clero. I laici, in definitiva,
avevano soltanto il diritto di farsi accudire spiritualmente dal
clero e di adempiere alcune e ben circoscritte funzioni seguendo le indicazioni
della gerarchia ecclesiastica. E quando un sacerdote veniva privato dei diritti
speciali che gli spettavano nella chiesa, questo atto veniva
detto laicizzazione, riduzione allo stato laicale.
Le deliberazioni
del Concilio Vaticano 2º (1962-1965), che ebbe come centro di riflessione la
Chiesa come popolo di Dio e di conseguenza la condizione del laicato,
iniziarono a scostarsi da quegli sviluppi ideologici prodottisi essenzialmente
nel Secondo Millennio della storia della cristianità, ma in modo incompleto,
mantenendone fondamentalmente la concezione della struttura gerarchica.
Inoltre, nella lunga egemonia di san Karol Wojtyla e e di Joseph Ratzinger ai
vertici ecclesiali, caratterizzata da un marcato inasprimento disciplinare
verso clero e religiosi, gli unici strati della popolazione cristiana rimasti
quasi completamente nel dominio della gerarchia ecclesiale, si cercò di imporne
una interpretazione fortemente restrittiva, nel corso di quello che con il
senno del poi appare un lungo inverno ecclesiale caratterizzato dalla profonda
diffidenza in particolare verso i movimenti laicali dell’Europa occidentale.
Da ciò, sostanzialmente, la
profonda crisi della partecipazione ecclesiale nella Chiesa cattolica italiana,
dalla parte dei laici, ma anche di clero e religiosi, salvo frange reazionarie
piuttosto bellicose e rumorose, ma pur sempre frange.
24. Le basi dogmatiche
della riforma sui laici già esistono.
Peter Neuner, in Per una
teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016, osserva (pag.72-83) che
l’inesorabile nuova dogmatica affermatasi nel Concilio di Trento (1545-1563), a
seguito della quale la Chiesa venne vista innanzi tutto e prima di tutto come
una grandezza suddivisa in classi, come una società di diseguali, con il clero
che accentrava nella pratica la definizione dei principi, lasciando ai laici il
solo compito di testimoniare ciò che era stato loro insegnato
dai pastori, venne mitigata nei decreti di riforma del medesimo
Concilio, che ponevano al centro dei compiti di vescovi e sacerdoti
la predicazione e la pastorale. Quest’ultima parte della riforma attuata con
quel Concilio è sostanzialmente sopravvissuta nelle concezioni alla
base delle deliberazioni del Concilio Vaticano 2º, svoltosi circa quattro
secoli dopo, mentre la dogmatica ecclesiale del Concilio di Trento appare
radicalmente mutata, in particolare con la Costituzione dogmatica sulla
Chiesa Luce per genti – Lumen gentium. Semplicemente, non se
ne sono tratte ancora tutte le conseguenze con riferimento in particolare alle
posizioni e alle funzioni ecclesiali dei laici. È un lavoro che non può essere
completato solo da autocrati religiosi e dai loro teologi di corte, i quali
fatalmente, come dimostrato dall’esperienza storica della fase attuativa del
Concilio Vaticano 2º, finora fallita, cercheranno di proporre una lettura
restrittiva della nuova dogmatica deliberata in quel Concilio per esimere i
gerarchi dall’attuarla. La legge generale di ogni potere politico, e
quello della nostra gerarchia ecclesiale ha anche questa natura, ed è questo
suo aspetto ad umiliare i laici, è quella di resistere ad ogni riforma che ne comporti
limiti, prospettando la dissoluzione del corpo politico di riferimento. La fase
attuativa del Concilio Vaticano 2º abortirà se, per la parte che riguarda il
laicato, non sarà largamente partecipata dal laicato, mediante processi
propriamente democratici e non solo sinodali.
Poiché i
profili dogmatici sono già stati faticosamente definiti e tenuto conto che la
teologia cattolica in Italia, prevalentemente organizzata in università
controllate dalla gerarchia mediante una asfissiante pressione disciplinare, tende
a sopravvivere adattandosi agli orientamenti della gerarchia che attualmente
spingono verso interpretazioni restrittive della dogmatica dell’ultimo
concilio, è consigliabile muoversi nell’ottica della dogmatica conciliare,
cercando di trarne tutte le possibili conseguenze in tema di laicato, invece
che ulteriormente pasticciare confusamente in teologia, finendo stritolati da
quella di corte fondamentalmente reazionaria ma capace di un pensiero
raffinato.
Il punto di forza del
laicato è questo: l’attuale sua umiliante condizione ecclesiale deriva da una
disumanizzazione delle persone di fede non appartenenti al clero, ridotte
ideologicamente alla condizione di gregge alla
completa mercé di gerarchi ecclesiali, che in realtà si sono riconosciuti
bisognosi del consiglio dei laici anche nei compiti loro propri della
predicazione e della cosiddetta pastorale. Questo è dimostrato dalla
riconosciuta ampia partecipazione di esperti laici alla redazione delle
encicliche pontificie almeno dalla Delle novità – Rerum novarum del
1891. La direzione politica dell’organizzazione ecclesiale è
arbitrariamente ancora riservata alla gerarchia, anche negli aspetti che non
toccano la predicazione e la pastorale, come quelli, ad esempio,
dell’amministrazione e utilizzazione dei beni ecclesiastici, tipico il caso
della Cittá del Vaticano ma la stessa situazione si ripresenta in un ambiente
sociale di base come la parrocchia, e quelli delle relazioni politiche con i
poteri civili, nelle quali ancora, ed arbitrariamente dal punto di vista della
dogmatica, quando si parla della Chiesa si intende ancora solo
la gerarchia ecclesiastica.
Dati i deliberati dogmatici
del Concilio Vaticano 2º in materia di Chiesa è possibile uscire
tranquillamente dalla politica ecclesiastica di impero religioso che ci ha
connotati (solo) dal Secondo Millennio e costruire, a partire dalla pratica,
quindi iniziando a farne tirocinio, forme più partecipate e meno
umilianti per i laici di essere e fare Chiesa.
E non si deve temere per il fatto che una cosa del genere non ci sia stata mai
nel passato, ed è vero, perché, sotto questo specifico profilo, non
abbiamo più esempi virtuosi ancora validi per il nostro oggi, ma una storia
tremenda, veramente orrenda nella sua estrema, estesissima ed efferata violenza,
dalla quale occorre distanziarci in quel lavoro di purificazione della
memoria al quale iniziò a guidarci, nell’ultima fase del suo regno di
Papa, san Karol Wojtyla e che ora sembra caduto un po’ in desuetudine. Questa
storia sconvolgente non risale però alle origini e, in particolare, al nostro
Maestro, mite e umile di cuore, ma a teologie politiche di molto
successive, le ultime manifestazioni eclatanti delle quali si ebbero durante il
Concilio di Trento e il Concilio Vaticano 1º (1869-1870), travolto
traumaticamente dagli eventi bellici italiani che portarono alla soppressione
dello Stato Pontificio nel Centro Italia. Il Concilio Vaticano 2º inaugurò una
nuova era.
25. La creazione del
laico come costruzione sociale.
Il teologo tedesco Peter Neuner in Per
una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016, ha sintetizzato molto
efficacemente come la figura del laico e l’umiliante emarginazione dei laici
nella Chiesa cattolica sia stata il frutto di costruzione sociale che si è
sviluppata nell’arco di circa un millennio e che si è completata con le deliberazioni
del Concilio di Trento, nel Cinquecento. Nelle prime comunità cristiane delle
origini non esistevano preti sacerdoti né vescovi e tantomeno vescovi monarchi
autocratici. Esse ci appaiono travagliante, all’interno e tra loro, da aspre
polemiche e duri conflittu e questo è l’elemento che possiamo considerare
realmente persistente nelle varie forme di cristianità che storicamente si sono
manifestate, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, epoca dalla
quale, proprio con il contributo determinante di persone laiche, si è
cominciato a vivere la fede diversamente e la pace sociale non è
stata più intesa come un’utopia realizzabile solo alla fine dei tempi ma come
un concreto obiettivo politico-religioso.
Ancora oggi la
cosiddetta gerarchia considera l’Illuminismo un nemico
pericoloso e a ragione: con l’Illuminismo, infatti, dal Settecento, cominciò ad
essere messa in questione la condizione sacralizzata del clero come parte migliore della
Chiesa, destinata a dominare gli altri fedeli, ridotti alla
condizione laicale.
Scrive Neuner (pag.75):
Nonostante tutte le
motivazioni teoretiche portate a sostegno della subordinazione dei laici al
clero, questo stato di dipendenza si potè conservare soltanto fino a quando la
formazione, almeno in ambito filosofico e teologico, fu riservata al clero. Non
a caso il termine “laico” ha conservato sempre anche il significato di
non-specialista.Questo presupposto cominciò a venir meno con llluminismo che
rese accessibile la formazione a gruppi più ampi di persone. In ambito
cattolico ciò avvenne con un certo ritardo perché l’Illuminismo, in molti suoi
rappresentanti, specialmente in ambito francese, aveva assunto un profilo
ostile alla chiesa e perché la Chiesa ufficiale aveva reagito mettendosi sulla
difensive o sulle barricate nei confronti di tutti gli sviluppi moderni.
Il Syllabus di Pio IX, del 1864, con il suo rifiuto di tutte
le correnti e idee moderne e con la condanna dei tentativi di riconciliare la
chiesa con il progresso, rappresentò il culmine e la sintesi di questa
ghettizzazione della chiesa.
Con l’estraniazione
della chiesa da ampi settori del mondo e della cultura moderna, i laici furono
quasi costretti ad esserne i rappresentanti nel mondo con il quale la gerarchia
non voleva più avere alcun contatto.
Naturalmente la
gerarchia contrastò duramente queste pretese di partecipazione dei laici (ma
anche del basso clero, che in questo campo ne segui la stessa sorte) e, per
rendere un’idea del clima dell’epoca, Neuner cita queste righe inviate da un prelato
all’arcivescovo di Westminster, criticando le idee esposte da John Henry Newman
nel saggi del 1859 Sulla consultazione dei fedeli in materia di
dottrina: “Se non sarà loro posto un freno, i laici inglesi diventeranno
i capi della Chiesa d’Inghilterra prendendo il posto della Santa Sede e
dell’episcopato. È del tutto esatto che Newman a Roma sia stato sempre
sospetto…Qual è il campo dei laici? Andare a caccia, sparare, conversare.
Queste sono le cose che capiscono; ma di immischiarsi nelle questioni della Chiesa,
loro non ne hanno nessun diritto […] Il dottor Newman è
l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”.
Una volta, negli anni
’70, mi fu raccontata una freddura che all’epoca circolava nei seminari,
sulle posizioni dei laici nella chiesa, che sarebbero state: in
piedi, in ginocchio, seduti e con le mani al
portafoglio.
La viva diffidenza di
clero e religiosi verso i laici è ancora chiaramente percepibile, ad esempio,
quando, ad ogni richiesta di maggiore coinvolgimento nelle attività ecclesiali,
si risponde loro che la Chiesa non è una democrazia. Sarebbe
bene, per il bene della Chiesa, che i laici non accettassero più
passivamente uscite del genere, replicando con forza che purtroppo
la Chiesa, come struttura di governo collettivo, quindi nella sua dimensione
politica, non è ancora una democrazia e quindi vi si discrimina
ingiustificatamente la maggior parte del suo popolo.
26.E’ necessaria la
riforma della struttura politica ecclesiale.
Ogni struttura politica ha avuto origine
storica ed è tale, vale a dire politica, perché serve per il
governo della società di riferimento. Serve nel senso
che ne è strumento. I cristiani hanno tuttavia un’idea più
virtuosa di quel servire, nel senso che il governo della
società è messo nelle mani di taluni non nel loro proprio interesse, ma in
quello dell’intera società, per cui essi lo devono esercitare come
colui che serve, e questo è un principio evangelico. Quindi la politica serve per
il governo della società, ma, poiché chi la esercita lo deve fare come colui
che serve, allora il governo della società deve servire alla
società, vale a dire essere finalizzato al suo bene, cioè bene comune, che, in
un’ottica cristiana, deve essere concepito secondo criteri evangelici, quindi
nello spirito dell’agápe. Secondo quest’ultima, ciascuno è ammesso
benevolmente alla condivisione della tavola comune nella sua piena dignità di
persona umana. Una struttura politica che, pur finalizzata al suo bene, lo
umili e lo riduca, disumanizzandolo, ad animale, del quale pure ci si
debba prendere cura, non risponde a quel criterio di agàpe. Essa
va quindi riformata, in base a quelle semplici considerazioni, che non
implicano alcuna sofisticata teologia. Non facendolo, quella struttura
politica non serve più, in entrambi i sensi in cui il servire può
essere inteso, e diventa oppressiva e fonte di sofferenze ingiuste, oltre che
disfunzionale. Questo problema si è riproposto ciclicamente moltissime volte
nella travagliata storia politica delle nostre Chiese, che, di solito, ci
appare virtuosa nelle biografie personali, ma raramente nel suo aspetto
istituzionale, nel quale soni prevalsi decisamente aspri conflitti per
questioni di politica nell’interesse proprio di ceti di volta in volta
emergenti.
“Dio ha creato la
gerarchia e così ha provveduto piú che a sufficienza ai bisogni della Chiesa
fino alla fine del mondo”: così il teologo cattolico Johann Adam Mohler
(1796-1838) [v. biografia in Enciclopedia Treccani in line] sintetizzò
ironicamente “la concezione diffusa nel suo tempo, secondo la quale Cristo era
venuto sulla terra per istituire con Pietro il primo papà e con gli
apostoli i vescovi, e che poi se ne era potuto andare, lasciando la chiesa
all’autorità della gerarchia e del diritto” [da P. Neuner, Per una
teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016]. Mohler considerava la
condizione dei laici cattolici al suo tempo come un’odiosa umiliazione del
popolo di Dio provocata da quel concetto gerarchico di chiesa e si proponeva di
dare un nuovo suono alla parola “laico”. La situazione dei laici cattolici di
oggi mi appare di poco mutata.
27.Non perdersi d’animo.
Di solito si sorvola
sulla storia delle nostre Chiese perché si teme di spaventare i semplici. Se ne
dà quindi una versione agiografica, vale a dire tesa a porne
in risalto i soli elementi virtuosi, che certamente non mancano.
Tuttavia, in questo modo non
se ne fa una memoria realistica e se questo può essere in qualche modo
accettato quando ci si rivolge ai bambini, non è così nella formazione dei
ragazzi e degli adulti, vale a dire delle persone nelle età in cui ci si deve
confrontare con il male che c’è nella natura e con il male etico, sia
individuale che sociale. Ognuno può facilmente constatare che queste specie di
male sono presenti dovunque in noi e intorno a
noi. La nostra Chiesa come struttura sociale, e quindi politica, ne
sarebbe stata e ne sarebbe ancora esente?
Ma come può essere se già
negli scritti neotestamentari, quelli particolarmente importanti perché ci
parlano della vita e degli insegnamenti del Maestro e delle prime esperienze
comunitarie dei cristiani, sono chiaramente presenti?
Aggiungo che, se di
solito ora cerchiamo di individuare in ogni problema del passato una parte
della società che sbaglia o consapevolmente sceglie
una via cattiva, e che così facendo ne è responsabile, e
ci sforziamo di non comprendervi mai chi nella nostra Chiesa esercitava il
potere supremo, in realtà, sforzandoci di fare memoria veritiera del passato,
ci accorgiamo che questo non ci è sempre possibile, e allora proponiamo
comunque tesi giustificazioniste, osservando che chi comandò azioni discutibili
in definitiva non può essere considerato soggettivamente colpevole, perché
giudicava secondo la cultura del suo tempo e, anche se aveva ricevuto la
Rivelazione, la interpretò secondo quella cultura, così come quella Rivelazione
descriveva con le parole delle lingue da lui conosciute. A questo modo di
pensare si può obiettare che la memoria realistica del passato serve a non
ricadere nel male etico che vi è insito, non a condannare chi lo visse e
impersonò, perché, dopo la morte di una persona, quel giudizio compete a Dio e
a Dio solo. È addirittura un dogma della Chiesa cattolica, deliberato nel corso
del Concilio di Trento (1545-1563), che nessuno, se non Dio, possa
dichiarare che una persona morta è sicuramente dannata. Insomma, un po’
semplicisticamente, mi sembra che si debba concludere che si possano proclamare
beati o santi, ma non dannati. Questo per quanto riguarda le biografie
individuali. Ma certamente non solo possiamo, ma anzi dobbiamo, riconoscere il
male sociale, ma anche individuale, del passato per non ripeterlo.
Questo appunto il lavoro
di purificazione della memoria al quale ci guidò san Karol
Wojtyla nei tre anni di preparazione che precedettero il Grande Giubileo
dell’Anno 2000.
Egli fu anche molto criticato per
questo, appunto obiettandogli che il popolo cristiano avrebbe potuto esserne
disorientato, ma nondimeno egli lo prosegui, celebrando in quella che chiamò la
Giornata del Perdono, una liturgia in cui, il 12 marzo 2000, in San Pietro,
come capo della Chiesa cattolica e a nome di tutti gli altri fedeli, chiese
perdono a Dio del male etico di cui i cristiani si erano resi responsabili nei
secoli passati. Oggi l’elencazione delle colpe da lui confessate in
quell’occasione ci appare incompleta, perché non comprendeva esplicitamente
quelle riconducibili all’esercizio del potere degli stessi Papi del passato.
Essi, in particolare, storicamente si resero responsabili di scelte politiche
che oggi ci appaiono addirittura malvagie, ad esempio quelle che discriminarono
gli ebrei loro contemporanei nella vita civile. In quel campo noi non
accettiamo più nemmeno l’insegnamento di alcuni dei più importanti Padri della
Chiesa, che furono feroci contro l’ebraismo. E che dire delle stragiste guerre
per reprimere albigesi e valdesi per
questioni teologiche e di assetto ecclesiastico, che oggi condurrebbero i
responsabili davanti alla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra?
Nonostante quella tremenda
storia e nonostante le indubitabili responsabilità anche di coloro che
all’epoca si presentarono come Vicari di Cristo, non
bisogna però perdersi d’animo, perché la nostra Chiesa ci ha sicuramente recato
anche gli insegnamenti del Maestro, e questa era la sua missione. C’è riuscita
nonostante che le sue strutture politiche fossero state modellate dalla sua
storia e dalle culture che, nei vari tempi, erano risultate dominanti, e come
tali avessero provocato tanta sofferenza.
Così, la gran parte delle
accuse alla nostra Chiesa che le giungono da parte dei suoi nemici sono
senz’altro vere, ma nondimeno noi non dobbiamo abbatterla come loro
pretenderebbero, ma riformarla, per dimostrare di aver
imparato la dura lezione che viene dalla sua terribile storia, per
la quale del resto ogni cristiano, ed anche gli stessi Papi, confessa,
all’inizio della liturgia della messa, di aver molto peccato.
Senza la nostra
Chiesa, infatti, ci sarebbe stato impossibile diventare realmente
cristiani e su questo, che io sappia, tutte le nostre Chiese
contemporanee sono d’accordo.
In religione in genere si
pensa a ciò che è santo come di qualcosa legato al divino e,
in questo senso perfetto. La nostra esperienza pratica ci
dimostra che però nessuno e nulla di
cui abbiamo fatto esperienza può essere considerato
totalmente perfetto in quel senso, tranne il Maestro e,
per i cattolici e altre Chiese cristiane, sua Madre. Dunque, la santità non è
di questo mondo? E come la mettiamo con le diverse persone e istituzioni che,
nelle Chiese cristiane, vengono considerare sante, ad esempio,
per i cattolici, la stessa nostra Chiesa? Per avere delucidazioni in merito
dovete fare riferimento ai pastori e ai dottori, i
quali sono una componente essenziale nelle Chiese cristiane, al di là delle
varie configurazioni organizzative che si è dato ai loro ministeri. Io non sono
né l’uno né l’altro.
Il problema si pose fin
dall’antichità, in particolare da quando la Chiesa cominciò a
manifestarsi come un’organizzazione istituzionale ben definita che tendeva
all’unità intorno a un centro di potere. Una via pratica e semplice,
quindi empirica perché basata sull’esperienza concreta, che
può essere seguita è di considerare la santità come un modo di indicare la
perfezione in quello che è realmente secondo il volere divino,
per cui, siccome noi riconosciamo di essere sempre per via verso quella meta,
possiamo non scandalizzarci delle imperfezioni che ci affliggono, come persone
e nelle società che costruiamo, comprese la stessa storica organizzazione
ecclesiale, imparando però a riconoscere anche il bene dove si manifesta e
anche ad accettarne l’origine soprannaturale.
Naturalmente questo non
risolve i complessi problemi su quei temi travagliano il pensiero teologico, ma
che consente a noi che non sappiamo di teologia di continuare a rispettare le
nostre Chiese anche quando ci proponiamo di riformarle.
Non è in fondo con
quest’atteggiamento che affrontiamo di solito ogni problema di
riforma sociale, in particolare in ambienti democratici, nei quali quel lavoro
non è ostacolato dalla sacralizzazione dei poteri sociali,
operazione tesa a sottrarli alla critica sociale?
Le nostre Chiese, nelle loro
attuali configurazioni, non sono scese dal Cielo bell’e fatte, ma sono il
frutto di faticose e travagliate costruzioni sociali e, qualunque cosa pensiamo
in merito, continueranno senz’altro ad esserlo: questo non esclude che noi
riconosciamo loro la santità, nel senso sopra precisato, in quanto volute dal
Cielo per il nostro bene e in ciò che in loro è ed è fatto in modo conforme al
vangelo.
E, appunto, penso quindi che
si debba rendere grazie al Cielo se le nostre Chiese ai tempi nostri sono tanto
diverse da quello che storicamente furono in passato nel male che manifestarono
e che oggi siamo liberi (finalmente) di ammettere, seguendo, in particolare, la
via aperta ai cattolici da san Wojtyla, il Papa della mia gioventù, che a noi
giovani di allora piacque tanto perché ci esortava a non avere paura di
vivere da cristiani.
28.Catecumenato,
catechesi e formazione permanente.
Uno degli sviluppi più infelici della
fase attuativa dei principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2º è stato
quello che ha riguardato la formazione permanente alla fede
della gente, in particolare dei laici, in genere confusa, per quanto riguarda
questi ultimi, con catecumenato e catechesi e
vista come troppo legata a una pressione psicologica comunitaria e
molto meno alla decisione in coscienza e al dialogo sociale. Questo è
sostanzialmente dipeso dalla storica e persistente diffidenza di clero e
religiosi verso la libertà delle scelte personali, per lo più
declinata come libero arbitrio, con una connotazione negativa.
Il catecumenato, antica
istituzione che l’ultimo concilio ha inteso riprendere e ravvivare,
è l’attività di iniziazione alla fede delle persone che chiedono il battesimo e
quindi è arbitrario (e umiliante per chi ne è oggetto) intendere come tale la
catechesi e la formazione permanente di chi ha già ricevuto il sacramento.
La catechesi è l’istruzione religiosa su principi, liturgia,
etica personale e comunitaria: serve a rendere capaci di partecipare
consapevolmente alle liturgie e alla vita comunitaria tra i cristiani.
Catecumenato e catechesi sono affidati a persone incaricate dal
vescovo o dai sui collaboratori, dopo una specifica formazione (che non sempre,
però, si ha tempo e modo di fare, con la conseguenza di insegnamenti a volte
discutibili, se non francamente bizzarri). La formazione permanente è
quella che si consegue interagendo da cristiani nelle società in cui si è
immersi, non solo nella Chiesa, e significa esserne parti attive; essa
comprende l’apostolato e, in particolare, l’apostolato dei laici, ma
soprattutto quell’azione che consiste nell’ordinarle secondo Dio, secondo
l’espressione usata nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Luce
per le genti – Lumen gentium, del Concilio Vaficano 2º. La formazione
permanente compete ad ogni cristiano, senza necessità di un mandato
gerarchico: essa è prima di tutto autoformazione, personale e
comunitaria, che si attua nelle relazioni sociali, poi anche acquisizione
culturale, perché altrimenti è povera, ma soprattutto tirocinio, personale e
comunitario, perché si impara ciò che si osa sperimentare e si impara anche da
quelli che, con il senno del poi, vengono riconosciuti come errori o, addirittura,
colpe. La formazione permanente non deve ridursi ad una acculturazione
teologica, perché la teologia, qualsiasi teologia, non è
sufficiente per quello che necessita per raggiungere i suoi scopi, quindi
occorre acculturarsi anche ad altre competenze, deve essere capace e innanzi
tutto disposta a imparare dalle competenze altrui, e non deve risolversi
nel ripetere lezioncine catechetiche, o addirittura proporsi
di inscenare un qualche passato storico o di cristallizzare la
situazione in cui si vive. Il passato, anche quello piuttosto mitizzato delle
origini, è pieno di incubi da non risvegliare. È chiaro che si è molto al di là
della semplice istruzione. Nel campo della formazione permanente,
che anche costruisce, modella, forma, le società di
riferimento, i laici possono anche validamente sostenere le attività che
vengono ritenute proprie della gerarchia, comunque si voglia
intendere questa espressione, obiettivo che si consegue anche contenendone le
pretese autocratiche ed autoreferenziali e facendone risaltare invece le
connotazioni ministeriali, quindi di servizio e funzionali.
29. Lavoro nella base.
L’ultima volta che, a Bologna, incontrai
don Lorenzo Bedeschi, amico di famiglia e storico del cristianesimo, mi congedò
intimandomi con l’indice alzato “Mario, combatti il clericalismo!”. Mia
zia Francesca colse quell’attimo e ci fece una fotografia che ho incorniciato e
appeso in casa. Si era nel 2002 e ancora non avevo molto approfondito il
tema, ma dall’enfasi con cui ne aveva trattato don Bedeschi avevo
capito che era molto importante. In effetti gran parte dei problemi degli
italiani con la nostra fede sta appunto nel loro inveterato clericalismo, del
resto indotto consapevolmente nella scarsa formazione religiosa che in genere
si dá loro. Così la principale virtù sembra essere quella di obbedire alla
cosiddetta gerarchia e la principale colpa, imperdonabile,
quella di mostrarsene in un certo grado autonomi: questo appunto è
clericalismo.
In Italia anche una parte
delle persone che si definiscono non credenti, in prevalenza
uomini, mostrano un certo clericalismo. E subito iniziano a
pontificare, aggiungendosi alla sterminata schiera di padri che
pretendono di insegnarci la vita cristiana. Sono anche piuttosto pretenziosi:
fanno le mostre di aver per capito tutto. Del resto gli psicologi cognitivi ci
avvertono: per come funziona la mente umana, meno si sa è più si è convinti di
sapere. Ecco che quindi che, ad esempio, ci spiegano con sufficienza che
il cristianesimo non è opera di Gesù di Nazaret ma di Paolo di
Tarso, e, dal punto di vista storico, nessuna delle due affermazioni è
attendibile. In particolare, perché, benché gli scritti attribuiti a Paolo di
Tarso circolassero prima dei Vangeli canonici, il paolinismo ci
mise del tempo per affermarsi, e, quando avvenne, Paolo, era già morto. I
cristianesimi furono storicamente manifestazioni pluralistiche di
stuoli di cristiani, non di questo o quello scrittore, capo carismatico, o
vescovo o anche papa. Vivendo da cristiana, ogni persona, anche
oggi, vi contribuisce. Ma questo sfugge ai clericali, credenti e
non. In definitiva, anche per quelli che vengono definiti sarcasticamente atei
devoti, la Chiesa si riduce sostanzialmente a clero e religiosi, ma loro ci
si mettono in mezzo come delle specie di vescovi, o addirittura papi, di
complemento, aggravando il problema.
Nell’opera Le cinque
piaghe della Santa Chiesa, del 1848, don Antonio Rosmini,
beato dal 2007, quel libro essendo messo nell’Indice dei libri
proibiti (ai fedeli) nel 1849, ed essendo il suo pensiero condannato
nel 1888 dal cosiddetto Sant’Uffizio e riabilitato dal papa
Giovanni 23º e dai suoi successori, stigmatizzò come piaga la divisione
del popolo dal clero
[Testo integrale su wikisource:
In realtà, più che
di divisione, si è trattato di annullamento del
popolo, che, si osservò ai tempi del Concilio Vaticano 2º, veniva considerato
come un qualcosa di appiccicato dall’esterno al clero,
considerato, esso solo, la Chiesa. Elemento in
tanto tollerato, in quanto sottomesso al
clero. Anche l’istituzione dell’Azione Cattolica italiana, avvenuta
nel 1906, sulla base dell’enciclica Il fermo proposito del
papa Pio 10º dell’anno precedente, rispondeva a quel criterio. Ancora nel 1951,
il Papa Pio 12º, parlando al Primo Congresso Mondiale sull’apostolato dei laici
disse che l’Azione Cattolica “è uno strumento nelle mani della gerarchia,
deve essere il prolungamento del suo braccio, è, per questo fatto, sottomessa
per natura alla direzione del superiore ecclesiastico”. Chiarì il suo
pensiero dichiarando:
“La gerarchia, istituita divinamente,
possiede in se stessa ed espressamente, anche senza la cooperazione dei laici,
la missione e la potestà, di cui essa potrebbe fare uso efficacemente
nell’apostolato che le appartiene, mentre i laici da se stessi, vale a dire indipendentemente
dalla gerarchia, e formalmente non posseggono la potestà di esercitare un
apostolato legittimo ed efficace.” Osserva Peter Neuner,
in Per una teologia del popolo di Dio, Queriniana 2016,
pag.92: “In questa concezione il laico non ha un’esistenza autonoma
e definita nella chiesa. Il laico si può comprendere solo a partire dalla
gerarchia e deve essere definito in riferimento ad essa: egli è semplicemente
il non-chierico”.
Ora, i deliberati del
Concilio Vaticano 2º hanno mutato profondamente i presupposti dogmatici di quel
modo di pensare, che tuttavia di fatto si è perpetuato nella prassi,
essenzialmente per gravi carenze formative dei laici, intese sia come
insufficienze di istruzione, sia come impedimenti a costruzioni sociali conformi
alle nuove concezioni. La situazione si è aggravata per le interpretazioni
riduttive degli aggiornamenti deliberati nell’ultimo concilio
che sono venuti dalla gerarchia.
Come ho scritto in
precedenza, non credo che la situazione cambierà per interventi dall’alto,
dalla gerarchia, che appare tuttora restia a condividere
realmente le decisioni sui principi che riguardano l’azione sociale e
politica, quelli che riguardano l’ordinare la società, che
dovrebbe essere il campo privilegiarono dei laici, né tanto meno a fare spazio
ai laici nella gestione delle strutture ecclesiastiche, manifestando di essere
disposta al più a servirsene come consulenti, ma solo se si
dimostrano docili.
D’altra parte,
qualcosa bisogna pur tentare di fare, perché, o scrive lo storico
Riccardi nel suo ultimo interessante libro, la Chiesa brucia, nel
senso che si sta annientando per consunzione, un po’ come è accaduto alla
cattedrale di Notre-Dame in Parigi nel 2019. La strada è più aperta in
periferia, alla base, lontano dai centri del potere ecclesiastico, lì dove non
si è intralciati dagli affanni dell’amministrazione di un imponente patrimonio
immobiliare e finanziario e dalle ambizioni della carriera ecclesiastica, lì
dove, benché sostanzialmente caduti in desuetudine nel lungo inverno
ecclesiale vissuto in Italia, sono formalmente aperti spazi di partecipazione
popolare, e, in particolare nelle parrocchie. Lì e anche privilegiato d’impegno
della nostra Azione Cattolica che è agevolata dall’aver conquistato una
struttura realmente democratica, senza essere afflitta dall’emergere di
oppressive strutture para-clericali che si nota in
alcuni movimenti laicali piuttosto bellicose e rumorosi (in
ciò attualizzando poco virtuose tradizioni ecclesiali che
risalgono addirittura alle origini).
30. Al lavoro!
Il mese prossimo il nostro gruppo
parrocchiale di AC riprenderà le attività e speriamo di poterlo fare in
parrocchia. Comunque attiveremo anche il collegamento in videoconferenza Meet,
per consentire una più ampia partecipazione. Le prove di questo modo di
riunirci, in presenza e da remoto, che abbiamo fatto nell’ultima riunione prima
della sospensione estiva è andata bene.
Nello stesso mese di ottobre
in cui inizieremo a incontrarci di nuovo inizierà il Sinodo della Chiesa
cattolica italiana. Ad agosto ho cercato di sviluppare alcune riflessioni
sul metodo sinodale nella concreta vita ecclesiale,
sulla base di letture che andavo facendo.
Credo che, come gruppo di
Azione Cattolica, dovremmo sentirci impegnati a suscitare in parrocchia un
movimento per coinvolgere quante più persone possibile in questo processo sinodale.
Lo si vorrebbe appunto, tale, un processo, non solo una sessione di
incontri tra gerarchi ecclesiali e loro invitati o consiglieri.
Perché si approdi a
qualcosa, occorrerà agire con spirito pratico, cercando di fare poco ricorso
all’ecclesialese. Benché si dica che la sinodalità è in qualche modo
collegata anche al soprannaturale, e in particolare possa essere come un
riflesso della vita divina trinitaria, si tratta comunque di costruire un modo
di vivere insieme, una società, che si differenzia abbastanza da ciò che c’è
ora, in cui, in particolare, i laici sono umiliati in una posizione piuttosto
passiva, che talvolta può essere espressione anche di una certa loro pigrizia e
di un qualche ritegno a impegnarsi in modo più serio.
Non possiamo pensare di poter
riuscire a calare il Cielo in una società umana concreta e le relazioni reali
tra le persone, non quelle meramente immaginate, non possono corrispondere a
quelle tra le Persone della Trinità, e non sarà mai possibile, qui sulla Terra,
ottenere un obiettivo simile.
Alla base dell’intesa dal
quale può originare un effettivo processo sinodale sta la capacità di dialogo
e, ancor prima, la decisione di provare a stare insieme.
Di solito si evidenzia la radice semantica della parola sinodo nell’andare
insieme, ma storicamente la si è intesa anche, nella vita delle Chiese
antiche, prima di tutto come uno stare insieme. Si decide di
stare insieme prima ancora di aver verificato se
realmente ce ne sono le condizioni. Questo chiarisce le relazioni tra sinodalità e democraticità,
che conservatori e reazionari propongono come alternative: in realtà non lo
sono. Prima viene al sinodalità, come decisione di
stare insieme, e poi la democraticità come modo
di stare insieme rispettandosi e anche di decidere
insieme sviluppando argomentazioni ragionevoli. Una sinodalità non
democratica è certamente possibile e si ha quando si decide di
sottostare volontariamente ad una oligarchia autocratica, ma
essa è umiliante per chi sta sotto e silenzia la propria voce. Nella storia
delle nostre Chiese, fino ad epoche recenti, la sinodalità era espressione di
compromessi precari, basati sulle relazioni di forza del momento, e ha prevalso
la pura e semplice autocrazia, lo spirito gerarchico, che è stato
piuttosto sacralizzato con argomenti che non cessano di essere discussi. La
cosiddetta Gerarchia è sopravvissuta alle riforme deliberate
durante il Concilio Vaticano 2°. Non si tratta di un principio, ma di persone,
Papa, vescovi, preti, che pretendono di sovrastare il resto del popolo
come autocrazia sacrale. La sinodalità è
spesso presentata, ma anche vissuta, come un correttivo a questa forma di
esercizio del potere che, in particolare nell’Europa di oggi, è ritenuta in
genere obsoleta e particolarmente umiliante per le persone laiche, in
particolare dove si pretenda di vincolarvi le decisioni in materia di
organizzazione sociale e di politica, il cui significato religioso venne
riconosciuto espressamente a partire dagli scorsi anni ’30 e che, secondo i
deliberati del Concilio Vaticano 2°, dovrebbero essere il campo proprio dell’azione
laicale.
Da dove iniziare, però?
Direi dal creare
un’organizzazione parrocchiale espressamente dedicata a un processo sinodale,
con l’obiettivo di coinvolgere gradualmente almeno le circa mille persone che,
stando alle statistiche correnti sulla pratica religiosa in
Italia, ancora vanno regolarmente in Chiesa, per arrivare
finalmente alla celebrazione di un’Assemblea parrocchiale e alla
elezione di membri del Consiglio pastorale parrocchiale che
affianchino quelli che vi fanno parte di diritto e quelli nominati dal parroco.
Costruire questa organizzazione può farsi rientrare nella competenza
dell’attuale Consiglio pastorale parrocchiale, e così è stato appunto fatto
nelle parrocchie che negli anni scorsi hanno celebrato sinodi
parrocchiali.
Del Consiglio pastorale
parrocchiale si sa poco. Non viene data alcuna informazione sulle sue attività
e decisioni. Non mi pare che ne siano stati indicati pubblicamente i
componenti. Le sue competenze sono state in qualche modo sovrastate dalla
nuova equipe pastorale, struttura richiesta dalla Diocesi ma
discutibile in quanto porti alla lenta obsolescenza del Consiglio pastorale
parrocchiale, unica vera incipiente forma di timida democraticità prevista per
la parrocchia.
Nella stagione sinodale è
bene che il nostro gruppo sappia rivolgersi anche al di fuori della cerchia dei
propri iscritti. Chi volesse essere informato tramite mailing list sulle
prossime attività e ricevere via email la nostra Lettera ai soci e
i link per la partecipazione in videoconferenza alle nostre riunioni, può
chiederlo mandando una email a mario.ardigo@acsanclemente.net
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli