Le vie
della pace. Il Magistero
Dagli scorsi anni Cinquanta si è cominciato a
prendere consapevolezza, anche in religione, della dimensione politica del
problema della pace. La pace, quindi, non dipende solo da impostazioni etiche
ma da assetti sociali che possono essere modificati e possono esserlo piuttosto
velocemente con gli strumenti della democrazia. La svolta si era prodotta già
nel corso dell’ultima guerra mondiale e trovò espressione in un famoso
radiomessaggio del papa Pio 12° per il Natale del ’44, dedicato proprio al tema
pace e democrazia. Ritengo necessario
riportarne di seguito un ampio stralcio. Potete trovare il testo integrale
all’indirizzo
http://w2.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale.html
I. CARATTERI PROPRI DEI
CITTADINI
IN REGIME DEMOCRATICO
Esprimere il proprio
parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto
ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che
trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione.
Dalla solidità, dall'armonia, dai buoni frutti di questo contatto tra i
cittadini e il governo dello Stato, si può riconoscere se una democrazia è
veramente sana ed equilibrata, e quale sia la sua forza di vita e di sviluppo.
Per quello poi che tocca l'estensione e la natura dei sacrifici richiesti a
tutti i cittadini, — al tempo nostro in cui così vasta e decisiva è l'attività
dello Stato, la forma democratica di governo apparisce a molti come un
postulato naturale imposto dalla stessa ragione. Quando però si reclama « più
democrazia e migliore democrazia », una tale esigenza non può avere altro
significato che di mettere il cittadino sempre più in condizione di avere la
propria opinione personale, e di esprimerla e farla valere in una maniera
confacente al bene comune.
Popolo e « massa »
Da ciò deriva una prima
conclusione necessaria, con la sua conseguenza pratica. Lo Stato non contiene
in sé e non aduna meccanicamente in un dato territorio un'agglomerazione amorfa
d'individui. Esso è, e deve essere in realtà, l'unità organica e organizzatrice
di un vero popolo.
Popolo e moltitudine
amorfa o, come suol dirsi, « massa » sono due concetti diversi. Il popolo vive
e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa
che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo
compongono, ciascuno dei quali — al proprio posto e nel proprio modo — è una
persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni.
La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani
di chiunque ne sfrutti gl'istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a
volta, oggi questa, domani quell'altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d'un
vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i
suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la
consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune.
Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure
servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d'un solo o di più, che le tendenze
egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con
l'appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina,
imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l'interesse comune
ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso
difficilmente guaribile.
Da ciò appare chiara
un'altra conclusione : la massa — quale Noi abbiamo or ora definita — è la
nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di libertà e di
uguaglianza.
In un popolo degno di
tal nome, il cittadino sente in se stesso la coscienza della sua personalità,
dei suoi doveri e dei suoi diritti, della propria libertà congiunta col
rispetto della libertà e della dignità altrui. In un popolo degno di tal nome,
tutte le ineguaglianze, derivanti non dall'arbitrio, ma dalla natura stessa
delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale — senza
pregiudizio, ben inteso, della giustizia e della mutua carità — non sono
affatto un ostacolo all'esistenza ed al predominio di un autentico spirito di
comunità e di fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun modo
l'uguaglianza civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che cioè,
di fronte allo Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la propria
vita personale, nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le disposizioni
della Provvidenza l'hanno collocato.
In contrasto con questo
quadro dell'ideale democratico di libertà e d'uguaglianza in un popolo
governato da mani oneste e provvide, quale spettacolo offre uno Stato
democratico lasciato all'arbitrio della massa! La libertà, in quanto dovere
morale della persona, si trasforma in una pretensione tirannica di dare libero
sfogo agl'impulsi e agli appetiti umani a danno degli altri. L'uguaglianza
degenera in un livellamento meccanico, in una uniformità monocroma: sentimento
del vero onore, attività personale, rispetto della tradizione, dignità, in una
parola, tutto quanto dà alla vita il suo valore, a poco a poco, sprofonda e
dispare. E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse del fascino
appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della
democrazia, con la libertà e l'uguaglianza; e, dall'altra parte, i profittatori
più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella
dell'organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo
stesso potere.
II. CARATTERI DEGLI
UOMINI
CHE NELLA DEMOCRAZIA TENGONO IL PUBBLICO POTERE
Lo Stato democratico,
sia esso monarchico o repubblicano, deve, come qualsiasi altra forma di
governo, essere investito del potere di comandare con una autorità vera ed
effettiva. Lo stesso ordine assoluto degli esseri e dei fini, che mostra l'uomo
come persona autonoma, vale a dire soggetto di doveri e di diritti inviolabili,
radice e termine della sua vita sociale, abbraccia anche lo Stato come società
necessaria, rivestita dell'autorità, senza la quale non potrebbe né esistere né
vivere. Che se gli uomini, prevalendosi della libertà personale, negassero ogni
dipendenza da una superiore autorità munita del diritto di coazione, essi
scalzerebbero con ciò stesso il fondamento della loro propria dignità e
libertà, vale a dire quell'ordine assoluto degli esseri e dei fini.
Stabiliti su questa
medesima base, la persona, lo Stato, il pubblico potere, con i loro rispettivi
diritti, sono stretti e connessi in tal modo che o stanno o rovinano insieme.
E poiché quell'ordine
assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana,
non può avere altra origine che in un Dio personale, nostro Creatore, consegue
che la dignità dell'uomo è la dignità dell'immagine di Dio, la dignità, dello
Stato è la dignità della comunità morale voluta da Dio, la dignità
dell'autorità politica la dignità della sua partecipazione all'autorità di Dio.
Nessuna forma di Stato
può non tener conto di questa intima e indissolubile connessione; meno di ogni
altra la democrazia. Pertanto, se chi ha il pubblico potere non la vede o più o
meno la trascura, scuote nelle sue basi la sua propria autorità. Parimente, se
egli non terrà abbastanza in conto questa relazione, e non vedrà nella sua
carica la missione di attuare l'ordine voluto da Dio, sorgerà il pericolo che
l'egoismo del dominio o degli interessi prevalga sulle esigenze essenziali della
morale politica e sociale, e che le vane apparenze di una democrazia di pura
forma servano spesso come di maschera a quanto vi è in realtà di meno
democratico.
Soltanto la chiara
intelligenza dei fini assegnati da Dio ad ogni società umana, congiunta col
sentimento profondo dei sublimi doveri dell'opera sociale, può mettere quelli,
a cui è affidato il potere, in condizione di adempire i propri obblighi di
ordine sia legislativo, sia giudiziario od esecutivo, con quella coscienza
della propria responsabilità., con quella oggettività, con quella imparzialità,
con quella lealtà, con quella generosità, con quella incorruttibilità, senza le
quali un governo democratico difficilmente riuscirebbe ad ottenere il rispetto,
la fiducia e l'adesione della parte migliore del popolo.
Il sentimento profondo
dei principi di un ordine politico e sociale, sano e conforme alle norme del
diritto e della giustizia, è di particolare importanza in coloro che, in
qualsiasi forma di regime democratico, hanno come rappresentanti del popolo, in
tutto o in parte, il potere legislativo. E poiché il centro di gravità di una
democrazia normalmente costituita risiede in questa rappresentanza popolare, da
cui le correnti politiche s'irradiano in tutti i campi della vita pubblica — così
per il bene come per il male —, la questione della elevatezza morale, della
idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al parlamento, è
per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di
prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.
Per compiere un'azione
feconda, per conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi corpo legislativo deve
- come attestano indubitabili esperienze - raccogliere nel suo seno una eletta
di uomini, spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino
come i rappresentanti dell'intero popolo e non già come i mandatari di una
folla, ai cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri
bisogni e le vere esigenze del bene comune. Una eletta di uomini, che non sia
ristretta ad alcuna professione o condizione, bensì che sia l'immagine della
molteplice vita di tutto il popolo. Una eletta di uomini di solida convinzione
cristiana, di giudizio giusto e sicuro, di senso pratico ed equo, coerente con
se stesso in tutte le circostanze; uomini di dottrina chiara e sana, di
propositi saldi e rettilinei, uomini soprattutto capaci, in virtù dell'autorità
che emana dalla loro pura coscienza e largamente s'irradia intorno ad essi, di
essere guide e capi specialmente nei tempi in cui le incalzanti necessità
sovreccitano la impressionabilità del popolo, e lo rendono più facile ad essere
traviato e a smarrirsi; uomini che nei periodi di transizione, generalmente
travagliati e lacerati dalle passioni, dalle divergenze delle opinioni e dalle
opposizioni dei programmi, si sentono doppiamente in dovere di far circolare
nelle vene del popolo e dello Stato, arse da mille febbri, l'antidoto
spirituale delle vedute chiare, della bontà premurosa, della giustizia
ugualmente favorevole a tutti, e la tendenza della volontà verso l'unione e la
concordia nazionale in uno spirito di sincera fratellanza.
I popoli, il cui
temperamento spirituale e morale è bastantemente sano e fecondo, trovano in se
stessi e possono dare al mondo gli araldi e gli strumenti della democrazia, che
vivono in quelle disposizioni e le sanno mettere realmente in atto. Dove invece
mancano tali uomini, altri vengono ad occupare il loro posto, per far
dell'attività politica l'arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per
se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la caccia
agl'interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il vero bene
comune.
L'assolutismo di Stato
Una sana democrazia,
fondata sugl'immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate,
sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla
legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del
regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e
semplice sistema di assolutismo.
L'assolutismo di Stato
(da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non
si tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è
illimitata, e che di fronte ad essa — anche quando dà libero corso alle sue
mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, — non è ammesso
alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.
Un uomo compreso da
rette idee intorno allo Stato e all'autorità e al potere di cui è rivestito, in
quanto custode dell'ordine sociale, non penserà mai di offendere la maestà
della legge positiva nell'ambito della sua naturale competenza. Ma questa
maestà del diritto positivo umano allora soltanto è inappellabile, se si conforma
— o almeno non si oppone — all'ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo
in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo. Essa non può sussistere, se
non in quanto rispetta il fondamento, sul quale si appoggia la persona umana,
non meno che lo Stato e il pubblico potere. È questo il criterio fondamentale
di ogni sana forma di governo, compresa la democrazia; criterio col quale deve
essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare.
III. NATURA E CONDIZIONI
DI UNA EFFICACE ORGANIZZAZIONE PER LA PACE
La unità del genere
umano e la società dei popoli
Noi abbiamo voluto,
diletti figli e figlie, cogliere l'occasione della festa natalizia per indicare
su quali vie una democrazia, che corrisponda alla dignità umana, possa, in
armonia con la legge naturale e coi disegni di Dio manifestati nella
rivelazione, pervenire a benefici risultati. Noi infatti profondamente sentiamo
la somma importanza di questo problema per il pacifico progresso della famiglia
umana; ma al tempo stesso siamo consapevoli delle alte esigenze che questa
forma di governo impone alla maturità morale dei singoli cittadini; una
maturità morale, alla quale invano si potrebbe sperar di giungere pienamente e
sicuramente, se la luce della grotta di Betlemme non rischiarasse l'oscuro
sentiero, per il quale i popoli dal tempestoso presente s'incamminano verso un
avvenire che sperano più sereno.
Fino a qual punto però i
rappresentanti e i pionieri della democrazia saranno compresi nelle loro
deliberazioni dalla convinzione che l'ordine assoluto degli esseri e dei fini,
da Noi ripetutamente ricordato, include anche, come esigenza morale e quale
coronamento dello sviluppo sociale, la unità del genere umano e della famiglia
dei popoli? Dal riconoscimento di questo principio dipende l'avvenire della
pace. Nessuna riforma mondiale, nessuna garanzia di pace può fare da esso
astrazione, senza indebolirsi e rinnegare se stessa. Se invece quella medesima
esigenza morale trovasse la sua attuazione in una società dei popoli, che
sapesse evitare i difetti di struttura e le manchevolezze di precedenti
soluzioni, allora la maestà di quell'ordine regolerebbe e dominerebbe
egualmente le deliberazioni di questa società e l'applicazione dei suoi mezzi
di sanzione.
Per lo stesso motivo si
comprende come l'autorità di una tale società dei popoli dovrà essere vera ed
effettiva sugli Stati, che ne sono membri, in guisa però che ognuno di essi
conservi un eguale diritto alla sua relativa sovranità. Soltanto in tal modo lo
spirito di una sana democrazia potrà penetrare anche nel vasto e scabroso campo
della politica estera.
Contro la guerra di aggressione come
soluzione delle controversie internazionali
Un dovere, del resto,
obbliga tutti, un dovere che non tollera alcun ritardo, alcun differimento,
alcuna esitazione, alcuna tergiversazione: di fare cioè tutto quanto possibile
per proscrivere e bandire una volta per sempre la guerra di aggressione come
soluzione legittima delle controversie internazionali e come strumento di
aspirazioni nazionali. Si son veduti nel passato molti tentativi intrapresi a
tale scopo. Tutti sono falliti. E falliranno tutti sempre, fino a quando la
parte più sana del genere umano non avrà volontà ferma, santamente ostinata,
come un obbligo di coscienza, di compire la missione che i tempi passati
avevano iniziata con non sufficiente serietà e risolutezza.
Se mai una generazione
ha dovuto sentire nel fondo della coscienza il grido: « Guerra alla guerra! »,
essa certamente la presente. Passata com'è attraverso un oceano di sangue e di
lagrime, quale forse i tempi passati mai non conobbero, essa ne ha vissuto le
indicibili atrocità cosi intensamente, che il ricordo di tanti orrori dovrà
restarle impresso nella memoria e fino nel più profondo dell'anima, come
l'immagine di un inferno, in cui chiunque nutre nel cuore sentimenti di umanità
non potrà mai avere più ardente brama che di chiudere per sempre le porte.
Formazione di un organo
comune per il mantenimento della pace
Le risoluzioni finora
note delle Commissioni internazionali permettono di concludere che un punto
essenziale d'ogni futuro assetto mondiale sarebbe la formazione di un organo
per il mantenimento della pace, organo investito per comune consenso di suprema
autorità., e il cui ufficio dovrebbe essere anche quello di soffocare in germe
qualsiasi minaccia di aggressione isolata o collettiva. Nessuno potrebbe
salutare questa evoluzione con maggior gaudio di chi già da lungo tempo ha
difeso il principio che la teoria della guerra, come mezzo adatto e
proporzionato per risolvere i conflitti internazionali, è ormai sorpassata.
Nessuno potrebbe augurare a questa comune collaborazione, da attuare con una
serietà d'intenti prima non conosciuta, pieno e felice successo con maggior
ardore di chi si è coscienziosamente adoperato per condurre la mentalità
cristiana e religiosa a riprovare la guerra moderna coi suoi mostruosi mezzi di
lotta.
Mostruosi mezzi di
lotta! Senza dubbio il progresso delle umane invenzioni, che doveva segnare
l'avveramento di un maggiore benessere per tutta l'umanità, è stato invece
volto a distruggere ciò che i secoli avevano edificato. Ma con ciò stesso, si è
resa sempre più evidente l'immoralità di quella guerra di aggressione. E se ora
al riconoscimento di questa immoralità si aggiungerà la minaccia di un intervento
giuridico delle Nazioni e di un castigo inflitto all'aggressore dalla società
degli Stati, cosicché la guerra si senta sempre sotto il colpo della
proscrizione, sempre sorvegliata da un'azione preventiva; allora l'umanità,
uscendo dalla notte oscura in cui è stata per tanto tempo sommersa, potrà
salutare l'aurora di una nuova e migliore epoca della sua storia.
Suo statuto escludente
ogni ingiusta imposizione
A una condizione però :
e cioè che l'organizzazione della pace, cui le mutue garanzie, e ove occorre le
sanzioni economiche e perfino l'intervento armato dovrebbero dare vigore e
stabilità, non consacri definitivamente alcuna ingiustizia, non comporti alcuna
lesione di alcun diritto a detrimento di alcun popolo (sia che appartenga al
gruppo dei vincitori, o dei vinti o dei neutrali), non perpetui alcuna
imposizione o gravezza, che può essere permessa soltanto temporaneamente come
riparazione dei danni di guerra.
Che alcuni popoli, ai
cui governi — o forse anche in parte a loro stessi — si attribuisce la
responsabilità della guerra, abbiano a sopportare per qualche tempo i rigori
dei provvedimenti di sicurezza, fino a quando i vincoli di mutua fiducia
violentemente infranti non siano a poco a poco riannodati, cosa, per quanto
gravosa, altrettanto difficilmente evitabile. Nondimeno, questi stessi popoli
dovranno avere anch'essi la ben fondata speranza — nella misura della loro
leale ed effettiva cooperazione agli sforzi per la futura restaurazione — di
poter essere, insieme con gli altri Stati e con la medesima considerazione e i
medesimi diritti, associati alla grande comunità delle nazioni. Rifiutare loro
questa speranza sarebbe il contrario di una previdente saggezza, sarebbe
assumere la grave responsabilità di sbarrare il sentiero ad una liberazione generale
da tutte le disastrose conseguenze materiali, morali, politiche del gigantesco
cataclisma, che ha scosso fin nelle ultime profondità la povera famiglia umana,
ma che le ha al tempo stesso additata la via verso nuove mète.
Le austere lezioni del dolore
Noi non vogliamo
rinunziare alla fiducia che i popoli, i quali tutti sono passati per la scuola
del dolore, avranno saputo ritenerne le austere lezioni. E in questa speranza
Ci confortano le parole di uomini che hanno maggiormente provato le sofferenze
della guerra e hanno trovato accenti generosi, per esprimere, insieme con
l'affermazione delle proprie esigenze di sicurezza contro ogni futura
aggressione, il loro rispetto dei diritti vitali degli altri popoli e la loro
avversione contro ogni usurpazione dei diritti medesimi. Sarebbe vano
l'attendere che questo saggio giudizio, dettato dall'esperienza della storia e
da un alto senso politico, venga — mentre gli animi sono ancora incandescenti —
generalmente accettato dalla pubblica opinione, od anche soltanto dalla
maggioranza. L'odio, l'incapacità di comprendersi vicendevolmente, ha fatto
sorgere, tra i popoli che hanno combattuto gli uni contro gli altri, una nebbia
troppo densa da poter sperare che l'ora sia già venuta in cui un fascio di luce
spunti a rischiarare il tragico panorama ai due lati dell'oscura muraglia. Ma
una cosa sappiamo: ed è che il momento verrà, forse prima che non si pensi,
quando gli uni e gli altri riconosceranno come, tutto considerato, non vi è che
una via per uscire dall'irretimento, in cui la lotta e l'odio hanno avvolto il
mondo, vale a dire il ritorno a una solidarietà da troppo tempo dimenticata,
solidarietà non ristretta a questi o a quei popoli, ma universale, fondata
sulla intima connessione delle loro sorti e sui diritti in egual modo loro
spettanti.
La punizione dei delitti
Nessuno certamente pensa
di disarmare la giustizia nei riguardi di chi ha profittato della guerra per
commettere veri e provati delitti di diritto comune, ai quali le supposte
necessità militari potevano al più offrire un pretesto, non mai una
giustificazione. Ma se essa presumesse di giudicare e punire, non più singoli
individui, bensì collettivamente intere comunità, chi potrebbe non vedere in
simile procedimento una violazione delle norme, che presiedono a qualsiasi
giudizio umano?
Quanta strada si era percorsa da quando, nel 1902, il papa Leone XIII
aveva, come dire, scomunicato la democrazia nell’enciclica Graves de communi re (=le dure
divergenze sulle questioni sociali), reagendo all’idea, proposta da Romolo
Murri, che ci potesse essere una democrazia cristiana, quindi un’azione
politica ispirata ai valori di fede!
Nella
nazioni più coinvolte in questa materia
[la questione sociale] ci sono alcuni noti come «cristiani sociali». Il movimento è
anche descritto come «democrazia cristiana» e i suoi
fautori «democratici cristiani», in opposizione a
quella che i socialisti chiamano democrazia social. Non ci sono obiezioni alla
prima di queste denominazioni, quella di
«cristiani sociali», mentre molte
persone eccellenti ne trovano sul termine
«democrazia cristiana». Lo trovano molto ambiguo per due ragioni. Sembra loro che
esso implica un cedimento all’idea di favorire un governo del popolo, a scapito
di altri metodi di governo. In secondo luogo sembra loro che implichi una
umiliazione della religione restringendo le sue finalità alla lotta alle
povertà, di cui altre componenti sociali non si occupano
[traduzione mia, dal testo inglese,
l’unico che ho trovato pubblicata su vatican.va
Con il senno del poi,
dobbiamo riconoscere che la dura opposizione del nostro massimo magistero alla
democrazia politica è stata in Italia una tragedia che ha, nel primo
dopoguerra, aperto le porte al fascismo storico, con cui il papato concluse,
nel 1929, in compromesso da molti, cattolici e non, ritenuto disonorevole.
Il mutamento culturale che in religione si ebbe sul tema della
democrazia fu indotto, come scritto molto bene nel radiomessaggio del papa Pio
12°, dalla austere lezioni del dolore ricevute durante la Seconda guerra mondiale.
Esso fu sviluppato durante il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) e negli anni successivi, dell’attuazione dei principi conciliari, fino al suo sviluppo più
avanzato, costituito dagli argomenti contenuti nell’enciclica Centesimus Annus (=il centesimo anno),
diffusa nel 1991 da san Karol Wojtyla, all’epoca regnante come Giovanni Paolo
2°) in occasione del centenario dell’enciclica Rerum Novarum (=sulle novità) del papa Leone 13°. Come nel 1944,
anche nel 1991 la svolta venne indotta da eventi storici drammatici, che alla
metà degli anni Quaranta del secolo scorso erano costituiti dal crollo dei
regimi nazifascisti e dalla necessità di ricostruire l’Europa, e negli scorsi
anni Novanta dal crollo dei regimi comunisti europei e dalla necessità di dare
un volto nuovo ad un’Europa unita.
Collegare il tema della pace a quello della
democrazia significa non farne un compito solo per i governanti, ma di tutti. Infatti, nella concezione
contemporanea della democrazia di popolo contemporanea (che differisce in
questo da ogni altra concezione democratica del passato), democrazia è un
lavoro che coinvolte tutti, senza
alcuna discriminazione sociale. Se poi a questo lavoro si dà anche un
significato propriamente religioso, come si è cominciato a fare dagli scorsi
anni Cinquanta e come confermato anche dal nostro magistero, e lo si ritiene
qualcosa in cui i laici di fede devono sentirsi profondamente coinvolti, ne
consegue che una parte importante della formazione religiosa dovrebbe occuparsi
di quel tema, dando gli strumenti culturale religiosi per influire
democraticamente nella società per realizzare la pace secondo principi di fede,
i cosiddetti valori.
Da noi, in Italia e in particolare nella
nostra parrocchia, si è particolarmente carenti in questo campo. Nel nostro
quartiere è un lavoro che semplicemente non viene fatto. Allora poi la gente, e
in particolare i più giovani, non vede come la fede possa cambiare
effettivamente la sua vita e il mondo in cui vive. Se si ritiene che al laico
competa solo di assoggettarsi a un’incredibile serie di bigotterie sessuali,
venendo addirittura portati ad esempio gli adepti di altre fedi che appaiono
ossessionati da questi problemi, ho l’impressione che poi la presa sociale
della religione in società venga molto a diminuire. Ma è proprio questa la radicalità evangelica che ancora può
infiammare il cuore della gente? In realtà però, mi pare che si continui a
centrare tutta la formazione religiosa degli adolescenti su quei temi lì. E, a
seguire, si passa poi ad analogo orientamento quando si tratta di impartire
un’ulteriore formazione religiosa alle coppie che vogliono sposarsi, che, come
francamente riconosciuto durante l’ultimo incontro con il vescovo di settore,
poi scappano a gambe levate, rinunciando a sposarsi in chiesa, o, per lo meno, nella nostra chiesa.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli