Le vie della pace. Insensatezza del cristianesimo
incapace di fare agàpe con il
nemico
Nel bel mezzo del cammino sinodale aperto in tutto il mondo dalla nostra
Chiesa, ci è toccato fronteggiare il problema di una concreta minaccia di una
guerra continentale europea.
Era cosa imprevedibile? Senz’altro no, non lo era. L’analisi storica
dimostra che non lo era.
E tuttavia gli eventi ci hanno colti impreparati. È successo al Papa e
agli altri vescovi, ma anche a tutti noi, sapienti e non. anziani e giovani, e
anche religiosi e non
religiosi. In questi frangenti mi pare che la religione non faccia la
differenza.
Rapidamente si sta costruendo il nemico, che ha l’immagine del presidente
della Federazione Russa Vladimir Vladimirovič Putin, ma che presto
assumerà i connotati più generici del Russo, inteso come tutti i popoli della
sterminata Federazione Russa, e allora, quando non si sarà più capaci di distinguere
tra un popolo e i suoi capi politici, quando questi ultimi saranno considerati gerarchi
del Male e non come contingente manifestazione di un assetto politico
venuto a galla sfruttando le opportunità del momento, ma che potrebbe cambiare
per dinamiche interne, allora sarà la fine.
La
guerra continentale diventerà non solo plausibile, come non lo era mai
stata in Europa del 1945, a differenza che negli Stati Uniti d’America, che non
hanno mai avuto pace fin dalla loro fondazione, ma anche ineluttabile,
perché sembrerà che non vi sia altra via per risolvere le controversie con la
Federazione russa che la guerra, e questo nonostante la stretta integrazione
continentale con i russi, tanto che le sanzioni che stiamo imponendo
loro porteranno anche noi al disastro economico, ad una Grande Depressione,
come avvertono gli economisti.
La
differenza tra la guerra combattuta in questi giorni in Ucraina e una guerra
continentale è che ora le distruzioni delle città riguarda solo l’Ucraina,
mentre nel caso di estensione del conflitto riguarderebbe tutta l’Europa. Ora,
però, i civili ucraini non combattenti hanno potuto rifugiarsi in Europa
occidentale, ma se tutta l’Europa fosse teatro di guerra noi e loro non avremmo
più alcun posto dove rifugiarci, a meno di essere disposti a emigrare in altri
continenti, proprio come facevano i disperati che fino a pochi giorni fa tentavamo di respingere
alle nostre frontiere.
E non
bisogna illudersi che non sarebbero usate le armi nucleari, perché non lo
credono i capi della due superpotenze che guiderebbero i popoli in guerra, che
ne hanno a disposizione migliaia. L’equilibrio
del terrore che caratterizzò la cosiddetta guerra fredda tra il 1945
e il 1991 (a cui seguirono le guerre balcaniche combattute negli anni ’90 nel processo di
dissoluzione della Federazione Jugoslava), era basato su questa radicata convinzione:
non poteva essere combattuta una guerra tra il blocco egemonizzato dagli Stati Uniti d’America e dall’Unione
Sovietica (i russi di allora),
perché, scoppiata la guerra, si sarebbe impiegato l’armamento nucleare e il
mondo intero ne sarebbe stato devastato per secoli. E’ per questo che la guerra
mondiale o continentale non era considerata plausibile. Se però
non lo è più, ed ora non lo è più, allora bisogna capire che l’inevitabilità
dell’impiego di devastanti armi nucleari è una concreta minaccia, non più una
follia.
Che
cosa è cambiato? Che cosa ci ha cambiati?
Indubbiamente
qualcosa è cambiato, perché dei rischi tremendi di una guerra continentale non
si parla più. L’informazione pubblica, da una parte e dall’altra, sembra organizzata
a senso unico, per rendere plausibile e anzi doverosa la guerra tra occidentali e russi in Europa. “Sarebbe
una guerra mondiale”, però, hanno detto prima il Presidente statunitense e
poi il Ministro degli esteri della Federazione russa. Se lo dicono all’unisono
i governi delle due superpotenze, perché non crederlo?
O
crediamo forse di poter vincere una guerra continentale? Una guerra così non
può essere vinta, perché la mutua distruzione sarebbe assicurata
combattendola.
Oggi
gli storici tendono a considerare gli anni dal 1914 al 1945, quelli delle due guerre
mondiali combattute a partire dall’Europa, come un’unica stagione di
guerra. La pace tornò non quando il nazismo hitleriano tedesco fu vinto, e con
esso il fascismi italiani e di altri stati europei che l’avevano affiancato in
guerra, ma quando gli europei decisero di dare al continente un assetto economico,
sociale e politico che, integrando la Germania e abbandonando i nazionalismi
che avevano animato il conflitto, avrebbe impedito la ripresa della guerra. In
questo i cristiani democratici ebbero un ruolo fondamentale. Ed è proprio l’eclisse
del cristianesimo democratico che mi pare abbia avuto un ruolo negli eventi che
di questi tempi ci travagliano.
La
nostra dovrebbe essere la religione dell’agàpe con il nemico, vale a dire della decostruzione
del nemico. E’ un comando evangelico.
Sono parole del Maestro: fate agàpe con i vostri nemici. Non si tratta
di teologia venuta dopo, e anche molto dopo, come gran parte di quella secondo
la quale per millenni i cristiani si sono ammazzati. E’ questione fondamentale
e se non la considera tale la religione vale poco o nulla, e hanno perfettamente
ragione i suoi critici liberali e marxisti.
E’ impressionante
l’inefficacia dei sistemi gerarchici dei cristianesimi europei: i pastori non
hanno saputo parlare concretamente di pace, quando addirittura non hanno
contribuito a spingere alla guerra.
La via
cristiana contro la guerra c’è e si chiama nonviolenza. Faticosamente i
cristiani democratici l’hanno inculturata nella nostra Chiesa, ma, come si è
visto, è conquista sempre precaria.
Non
basta pregare o digiunare per la pace, la pace va costruita politicamente. Può esserlo solo in un contesto
di democrazia avanzata, quella che ingloba diritti sociali fondamentali, e l’immane
operazione di accoglienza dei profughi dall’Ucraina, attraverso frontiere che
avevamo reso impenetrabili anche agli ucraini, ne è certamente espressione. Non
è ancora tutto perduto, in definitiva.
La nonviolenza
viene presentata come vigliaccheria: in questo quadro si avrebbe il dovere
di combattere una guerra continentale.
Che invece si abbia il dovere evangelico di non combatterla i nostri gerarchi, così puntigliosi sulle
questioni di tutela della vita, non si sono azzardati a insegnarlo. Ma
allora, a che servono?
Se una
guerra non può essere combattuta perché sarebbe la fine dell’umanità, è una sciocchezza tutta la pretenziosa
teologia sulla guerra giusta che ancora
purtroppo contamina la nostra teologia, a partire dal cosiddetto Catechismo della Chiesa cattolica, varato
proprio nel bel mezzo delle guerre balcaniche, e quindi divenuto rapidamente
obsoleto sul punto.
Lo ha
insegnato Aldo Capitini, l’ideatore della Marcia per la pace da Perugia
ad Assisi: la nonviolenza è lotta. Ma è lotta che non richiede ed anzi
si vieta, di fornire sofisticati strumenti di morte ai combattenti. Per questa
via, tra il 1989 e il 1991 si pose fine alla guerra fredda, in cui si fu,
si diceva, sempre a circa venti minuti dall’ecatombe nucleare finale.
Scrisse Capitini
in Il problema religioso attuale, 1948:
La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per meglio dire, lotta,
una lotta continua contro le situazioni circostanti , le leggi esistenti, le
abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i
propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata.
[…]
La non violenza non è
soltanto il rifiuto della violenza attuale, ma è diffidenza contro il risultato
ingiusto di una violenza passata. Di quanto più di violenza è carico un regime
capitalistico o tirannico, tanto più il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso.
[…]
Due grandi
nonviolenti come Gesù Cristo e San
Francesco si collocarono dalla parte
degli umiliati e degli offesi. La nonviolenza è il punto di tensione più profonda
del sovvertimento di una società inadeguata.
[…]
La nonviolenza è
prova di sovrabbondanza interiore, per cui all’uso della violenza che sarebbe
ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per ulteriori ricerca e
sforzo, la nonviolenza.
[…]
Il nonviolento deve
essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della violenza, per individuare
la violenza implicita che si ammanta di legalità e smascherarla impavidamente;
sia per supplire all’efficacia dei mezzi violenti con il moltiplicarsi dei
mezzi nonviolenti, facendo come le bestie piccole che sono più prolifiche (e anche
sopravvivono alle specie delle bestie grandi); sia per vincere l’accusa e il pericolo intimo che la nonviolenza venga
scelta perché meno faticosa e meno rischiosa;
il nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogi causa
giusta, appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per
farsi perdonare dalla società la propria singolarità.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli