Le vie della pace
Le religioni possono costruire
ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo
aprire nuove voragini là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un ebreo ellenizzato
che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il
cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione
universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: “non c’è né ebreo né greco, non
c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina”. L’universalismo
umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio –e su una
demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e
Lutero, sono “servi di Satana”. Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza
può essere suddivisa in tre elementi:
a)rovesciano le gerarchie prestabilite e di
conseguenza i confini tra le nazioni e gruppi etnici; sono in rado di farlo
nella misura in cui
b) creano un universalismo religioso di
fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti;
simultaneamente si manifesta il pericolo che
c)alle barriere etniche, nazionali e di
classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non
credenti dall’altra.
Questo è il timore che si sta
diffondendo: che il rovescio della
medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un
nuovo secolo buio. La religione uccide.
[dall’intervento del sociologo tedesco Ulrich Beck svolto nel 2010 a
Torino nel corso di un seminario organizzato dal Centro Studi sul Federalismo sul tema “Il ritorno di Dio e la crisi della
modernità europea]
La Chiesa, in forza della
missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di
radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, razza e
civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo.
Ciò esige che innanzi tutto che
nella stessa Chiesa promuoviamo la mutua stima, il rispetto e la concordia,
riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l’unico
popolo di Dio, che si tratti dei pastori o degli altri fedeli cristiani. Sono
più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci
sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità.
Il nostro pensiero si rivolge
contemporaneamente ai fratelli e alle loro comunità, che non vivono ancora in
piena comunione con noi, ma ai quali siamo uniti nella confessione del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo e dal vincolo della carità, memori che
l’unità dei cristiani è oggi attesa e desiderata anche da molti che non credono
in Cristo.
[…]
Rivolgiamo anche il nostro
pensiero a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro
tradizioni preziosi elementi religiosi ed umani, augurandoci che un dialogo fiducioso possa condurre tutti
noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e a portarli a
compimento con alacrità.
Per quanto ci riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che
sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza,
non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani,
benché non ne riconoscano ancora l’autore, né coloro che si oppongo alla Chies
e la perseguitano in diverse maniere.
Essendo Dio Padre principio e
fine di tutti, siamo chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola
e identica vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla
costruzione del mondo nella vera pace.
[citazione dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes (=la
gioia e la speranza), del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), dal n.92,
intitolato Il dialogo fra tutti gli uomini,
inserito nella sezione 2°, La costruzione
della comunità internazionale, del
capito 5°, La promozione della pace e la
comunità dei popoli, della parte 2°,
Alcuni problemi più urgenti]
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Segni dei
tempi
67. Si diffonde sempre più tra gli
esseri umani la persuasione che le
eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso
alle armi; ma invece attraverso il negoziato.
Vero è che sul terreno storico quella
persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva
delle armi moderne; ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche
solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di
quelle armi apporterebbe alla famiglia umana; per cui riesce quasi impossibile
pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento
di giustizia.
Però tra i popoli, purtroppo, spesso
regna ancora la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose
in armamenti: non già, si afferma — né vi è motivo per non credervi — per
aggredire, ma per dissuadere gli altri dall’aggressione.
È lecito tuttavia sperare che gli
uomini, incontrandosi e negoziando,
abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro
comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde
esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore: il quale tende
ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti
beni.
[…]
87. A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: il
compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella
giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli
esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse
comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità
politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo
quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio.
88. Certo, coloro che prestano la loro
opera alla ricomposizione dei rapporti della vita sociale secondo i criteri
sopra accennati non sono molti; ad essi vada il nostro paterno apprezzamento,
il nostro pressante invito a perseverare nella loro opera con slancio sempre
rinnovato. E ci conforta la speranza che il loro numero aumenti, soprattutto
fra i credenti. È un imperativo del dovere; è un’esigenza dell’amore. Ogni
credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro
di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto
più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio.
Infatti non si dà pace
fra gli uomini se non vi è pace in ciascuno di essi, se cioè ognuno non
instaura in se stesso l’ordine voluto da Dio. "Vuole l’anima tua — si
domanda sant’ Agostino — vincere le tue passioni? Sia sottomessa a chi è in
alto e vincerà ciò che è in basso. E sarà in te la pace: vera, sicura,
ordinatissima. Qual è l’ordine di questa pace? Dio comanda all’anima, l’anima
al corpo; niente di più ordinato"
Il Principe della pace
89. Queste nostre parole, che abbiamo
voluto dedicare ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento
presente, e dalla cui equa soluzione dipende l’ordinato progresso della
società, sono dettate da una profonda aspirazione, che sappiamo comune a tutti
gli uomini di buona volontà: il consolidamento della pace nel mondo.
[dall’enciclica Pacem in terris (=la pace in
terra), diffusa dal papa Giovanni 23° nel 1963]
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51. Occorre spingersi ancora più innanzi. Noi domandavamo a Bombay
la costituzione di un grande Fondo mondiale, alimentato da una parte delle
spese militari, onde venire in aiuto ai più diseredati. Ciò che vale per la
lotta immediata contro la miseria vale altresì per il livello dello sviluppo.
Solo una collaborazione mondiale, della quale un fondo comune sarebbe insieme
l’espressione e lo strumento, permetterebbe di superare le rivalità sterili e
di suscitare un dialogo fecondo e
pacifico tra tutti i popoli.
[…]
Dialogo da instaurare
54. Ciò significa essere indispensabile che si stabilisca fra tutti
quel dialogo già da Noi invocato nella nostra prima enciclica,
"Ecclesiam suam". Tale dialogo tra coloro che forniscono i mezzi e
coloro cui sono destinati consentirà di commisurare gli apporti, non soltanto
secondo la generosità e disponibilità di impiego degli altri. I paesi in via di
sviluppo non correranno più in tal modo il rischio di vedersi sopraffatti di debiti,
il cui soddisfacimento finisce coll’assorbire il meglio dei loro guadagni.
Tassi di interesse e durata dei prestiti potranno essere distribuiti in maniera
sopportabile per gli uni e per gli altri, equilibrando i doni gratuiti, i
prestiti senza interesse o a interesse minimo, e la durata degli ammortamenti.
Garanzie potranno essere offerte a coloro che forniscono i mezzi finanziari,
sull’impiego che ne verrà fatto in base al piano convenuto e con una
ragionevole preoccupazione di efficacia, giacché non si tratta di favorire la
pigrizia o il parassitismo. E i destinatari potranno a loro volta esigere che
non vi siano ingerenze nella loro politica, né che si provochino sconvolgimenti
nelle strutture sociali del paese. Stati sovrani, a loro solo spetta di condurre
in maniera autonoma le loro faccende, di determinare la loro politica, di
orientarsi liberamente verso il tipo di società preferito. È dunque una
collaborazione volontaria che occorre instaurare, una compartecipazione
efficace degli uni con gli altri, in un clima di eguale dignità, per la
costruzione di un mondo più umano.
[…]
Dialoghi di civiltà
73. Tra le civiltà, come tra le
persone, un dialogo sincero è di
fatto creatore di fraternità. L’impresa dello sviluppo ravvicinerà i popoli,
nelle realizzazioni portate avanti con uno sforzo comune, se tutti, a
cominciare dai governi e dai loro rappresentanti, e fino al più umile esperto,
saranno animati da uno spirito di amore fraterno e mossi dal desiderio sincero
di costruire una civiltà fondata sulla solidarietà mondiale. Un dialogo
centrato sull’uomo, e non sui prodotti e sulle tecniche, potrà allora aprirsi.
Un dialogo che sarà fecondo, se arrecherà ai popoli che ne fruiscono i mezzi di
elevarsi e di raggiungere un più alto grado di vita spirituale; se i tecnici
sapranno farsi educatori e se l’insegnamento trasmesso porterà il segno d’una
qualità spirituale e morale così elevata da garantire uno sviluppo che non sia
soltanto economico, ma umano. Passata la fase dell’assistenza, le relazioni in
tal modo instaurate perdureranno, e non v’è chi non scorga di quale importanza
esse saranno per la pace del mondo.
[Dall’enciclica Populorum progressio (lo
sviluppo dei popoli), diffusa dal papa Paolo 6° nel 1967]
Propongo alla riflessione comune i testi che ho
sopra trascritto, prima di esprimere il mio pensiero sugli argomenti in essi
trattati, il che farò in un successivo intervento.
Chi, come me, ha vissuto la grande stagione di
rinnovamento seguita al Concilio Vaticano 2° sente la grave responsabilità di
non aver fatto abbastanza per spiegare e tramandare le grandi conquiste sul
piano della fede e della cultura che furono raggiunte in quella importantissima
assemblea di saggi venuti da ogni parte del mondo, che riuscirono a farsi
interpreti degli aneliti provenienti dai loro popoli.
Se ci poniamo davanti a quei principi, dobbiamo infatti riconoscere di
stare vivendo un’epoca di regresso e, noi, ai quali fu passato il testimone
nella staffetta generazionale che in religione è in corso da duemila anni, l’abbiamo
in fondo ancora tra le mani senza averlo saputo passare ad altri che possano
continuare la nostra corsa. Ecco dunque che la fede talvolta viene di nuovo
espressa in forme di incredibile bigotteria, che, con il pretesto di depurarla
dalla contaminazione del mondo, l’allontanano sempre più dalle masse, facendone
cosa per club ristretti, per circoli iniziatici come quelli
che, alle origini della nostra fede, furono coevi delle nostre collettività
religiose e ora non sono più, proprio a causa di quel loro carattere chiuso ed
esclusivo. In particolare non si riesce più a cogliere lo stretto nesso che c’è
tra il dialogo e la pace, la cui proclamazione fu una delle grandi novità del
Concilio Vaticano 2°, per cui il dialogo
è una delle vie della pace, le altre essendo la verità e la giustizia. E
non si riesce più a cogliere che il dialogo per la pace è esercizio di carità
religiosa. Ciò è paradossale in una fede che si fonda su un Logos (termine greco che significa parola, discorso, e
che, quando ricorre negli scritti neotestamentari riferito al nostro primo
Maestro viene tradotto con Verbo) che
ci invita ad entrare in relazione benevola con tutti gli esseri umani oltre
ogni divisione: dia-logo (parola italiana che deriva da un termine greco che ha
in sé i termini mediante e parola-logos) significa appunto entrare
in relazione con gli altri discorrendo con loro, mediante la parola, conversando.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte
Sacro, Valli