Le vie della pace. Popoli e sinodalità
Il popolo com'è
Il popolo come lo si immagina nella nostra religione
L’idea di popolo ha natura
politica, vale a dire che ha a che fare con il governo delle società. Essa è
molto antica e la troviamo espressa anche nella Bibbia. Come quasi tutto ciò
che è molto antico, è anche imprecisa. Dall’Ottocento abbiamo una
scienza che studia i popoli, la sociologia, e, dal suo punto di vista, appunto, essi non
esistono: la socialità umana crea relazioni che realisticamente possono
essere descritti come gruppi che,
fluttuando nell’ambiente, si stratificano, vale a dire si accostano, si
intersecano, si pongono uno sopra l’altro. Il governo della società risulta
dall’insieme di queste relazioni alle quali tentano di dare coerenza i gruppi
che, stratificandosi, riescono ad esprimere una egemonia, dettando una linea di
condotta alla quale gli altri, per vari motivi, si adeguano. Questa è la politica
che, dal punto di vista dell’assetto della stratificazione sociale, può essere
vista come ordinamento, quindi come istituzione. Le istituzioni
sono molto importanti perché, apprendendole, e questo è un aspetto molto importante
della formazione dei giovani, impariamo a decidere che fare in modo da poter sopravvivere nell’ambiente
sociale in cui ci siamo trovati immersi.
[da Peter L. Bergher, I molti altari
della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo, EMI 2017]
Gli esseri umani, rispetto ad altri mammiferi, hanno un repertorio relativamente esiguo di istinti che dicano
loro che fare. Già prima molto prima dell’avvento della modernità questo dato
di fatto biologico costringeva l’individuo umano a riflettere e scegliere. Ma
se l’individuo avesse dovuto operare una scelta ogni volta prima di intraprendere
un’azione, sarebbe stato sopraffatto dall’indecisione […]
Per compensare l’esiguità degli istinti umani, sono state sviluppate l
istituzioni. Le istituzioni forniscono linee di azione che gli istinti non riescono a fornire. In
altre parole tracciano un’area di stabilità in cui l’individuo può agire quasi
automaticamente e senza molta riflessione, e nello stesso tempo liberano un’altra
area in cui l’’individuo è libero di compiere scelte. Gehlen [Arnold Gehlen, filosofo
sociale tedesco vissuto tra il 1904 e il 1976] chiama queste due zone, rispettivamente,
lo “sfondo” e il “primo piano” della vita sociale umana. Lo sfondo è fortemente
istituzionalizzato, il primo piano e deistituzionalizzato; lo sfondo è il regno
del destino; il primo piano quello delle scelte.
Konrad Lorenz, lo zoologo che ha creato la disciplina della “etologia”,
era particolarmente interessato a quei
fenomeni che egli dominava “inneschi”: gli stimoli che fanno scattare il tale o
talaltro istinto nella coscienza e portano al comportamento appropriato. Le
femmine dei mammiferi hanno l’istinto di nutrire la loro prole appena nata.
Lorenz voleva scoprire l’innesco che provocava tale comportamento nutritivo in
una particolare specie di uccelli, le cosiddette oche grigie, che egli studiò
per parecchi anni. Cercò di riprodurre l’innesco in modo che una mamma oca
desse da mangiare a lui. Scartò gli inneschi visivi, costituiti da vari segnali
fisici. Concluse che l’innesco era uditivo, un particolare suono cinguettante.
Quando l’oca madre sente questo suono, scende in picchiata ad alimentare i
piccoli.
Alla fine Lorenz riuscì a farsi nutrire.
L’esperimento venne anche immortalato in un film che mostra lo zoologo, un
uomo grosso e barbuto, cinguettare alacremente. Di sicuro mamma oca non poteva
averlo scambiato per un suo pulcino, ma aveva udito il suono cinguettante e si
era precipitata ad alimentare l’omone che aveva prodotto correttamente l’innesco.
Un modo per spiegare il concetto geheleniano delle istituzioni è presentarle come
inneschi artificiali.
L’idea di popolo è una delle principali istituzioni. Questo
significa che è una costruzione sociale, anche nelle istituzioni
religiose, anche quando parliamo di Popolo di Dio. In particolare, quest’ultimo
è un concetto con valore teologico, quindi che serve per esprimere la nostra fede religiosa.
Dall’Ottocento si è costruito poi il mito della nazione, come popolo reso tale dalla natura, legato, per natura,
a un certo territorio. Si sarebbe popolo allo stesso modo in cui si ha una certa faccia,
una certa conformazione del viso, o un certo colore della pelle. Come le caratteristiche
fisiche vengono trasmesse per via genetica, di generazione in generazione, così
sarebbe anche per l’essere popolo. Il legame con il territorio è anche espresso
con il mito delle radici. Come le piante sono infisse nel terreno con le
radici e ne traggono nutrimento, così sarebbe per gli umani. Trapiantati
altrove non potrebbero sopravvivere: questa convinzione ha natura mitologica,
sia per gli umani che per le piante, ma in particolare per gli umani. Dall’idea
di popolo-nazione radicato su un
territorio deriva anche il mito del diritto di un certo popolo-nazione a possedere in via esclusiva un certo territorio. Il mito
è una narrazione immaginifica che
serve a spiegare il senso delle istituzioni, radicandole nella psicologia della gente e quindi
consolidandone il potere. In realtà l’esperienza plurimillenaria delle
migrazioni dimostra che non siamo
radicati in un territorio e che lo
stanziamento di società umane sul territorio dipende da fenomeni di stratificazione
sociale, per i quali può consolidarsi, ma anche decadere. Le società cambiano e
anche si spostano e da questo derivano anche mutamenti nelle idee e nei miti
sul popolo. Ogni cultura istituzionale individua con una certa arbitrarietà
il suo popolo e, se ha successo, la gente vi si identifica. Gli
ordinamenti religiosi non fanno eccezione. Quando, nel 1787 a Philadelphia, i
delegati della Costituente approvarono la Costituzione degli Stati Uniti d’America
che si apre con “We the People of the United
States - Noi il Popolo degli Stati Uniti”, essi avevano del popolo un’immagine molto diversa da quella che oggi
hanno i membri del Congresso e del Senato degli Stati Uniti, perché questi
ultimi sono diventati nella loro storia una società fortemente multi-etnica e
pluralista. Anche per l’Italia e per la nostra Chiesa è lo stesso. Per quest’ultima,
in un certo senso, si sta tornando alla situazione vissuta nel Quarto secolo, quando
originarono le sue istituzioni fondamentali e la corrispondente teologia e si
viveva in un impero mediterraneo multi-etnico e fortemente pluralista.
Ai tempi nostri, in particolare nel corso dei
cammini sinodali che si sono
aperti nello scorso ottobre, si parla di riforma ecclesiale e di Popolo di Dio, nel senso che si
vorrebbe che la riforma partisse del Popolo di Dio. In effetti la prima
riforma è stata proprio questa: l’idea che un popolo possa esprimere una riforma. In realtà l’idea
di popolo fa parte della riforma
perché ogni riformatore costruisce il suo popolo. E così infatti è stato:
si è costruita l’idea di un
popolo riformatore.
La sinodalità, per come è descritta nel
pensiero di papa Francesco, che in questo contesto è “il” riformatore, è la procedura per la quale
dovrebbe attuarsi una riforma popolare, insieme dell’essere popolo e del modo di governare a partire da
quell’essere popolo, o, come si suole dire oggi, dal basso. Si parla di
sinodalità perché, con questo, si è in una fase antecedente a quella propriamente
democratica, che si ha quando l’essere popolo si è stabilizzato in una certa forma
istituzionale, con correlati miti. In questa fase la decisione fondamentale è di rimanere uniti, vale a dire solidali,
accada quel che accada, quindi a
prescindere dalla forma che in concreto si darà all’essere popolo.
Questo significa anche accettare un ordine pacificato del processo di
formazione della riforma-popolo, sospendendo le lotte di potere. Queste
ultime sono l’altra via per la riforma delle società: in essa l’essere
popolo viene imposto e la
costruzione del popolo si fa dall’alto, senza sinodalità, mediante
imposizione, come risultato di un conflitto all’esito del quale, nello stratificarsi
della società, emerge un gruppo sugli altri e detta la legge dell’essere popolo. In questo caso la
pace che si riesca a raggiungere non è frutto sinodale, ma del successo del
gruppo dominante, non precede, ma segue la riforma. Nella via sinodale la pace
è invece la condizione dell’avvio del processo. Questa condizione non è
attualmente ancora raggiunta nel cammino sinodale della nostra Chiesa, che quindi fatica a partire.
Mario Ardigò – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli