Le vie della pace. La pace brutale delle città medievali come problema criminale applicata alle Chiese
In quegli agglomerati di uomini
di ogni provenienza che sono le città, in questo ambiente dove abbondano gli
sradicati, i vagabondi e gli avventurieri, una disciplina rigorosa è
indispensabile al mantenimento della sicurezza e per terrorizzare i ladri e i
banditi che, in ogni società, sono attirati verso i centri commerciali. Questo
è tanto vero che, già nell’epoca carolingia [8° e 9° secolo, nota mia], le città, nella cui cerchia
le persone più ricche cercavano un riparo, godevano di una pace speciale. Ed è
la stessa parola pace che si ritrova
nel 12° secolo ad indicare il diritto criminale della città. Questa pace urbana
è un diritto d’eccezione, più severo, più duro di quello della campagna. Esso è
prodigo di pene corporali: impiccagione, decapitazione, castrazione,
amputazione di membra. Applica in tutto il suo rigore la legge del taglione:
occhio per occhio, dente per dente. Si propone evidentemente di reprimere i
delitti con il terrore. Tutti quelli che passano le porte della città, siano
nobili, liberi o borghesi, gli sono egualmente sottoposti. In virtù di esso, la
città si trova per così dire in stato di assedio permanente.
[…]
La borghesia [che nel Medioevo era composta da
mercanti e artigiani, nota mia] è
essenzialmente l’insieme degli homines
pacis, gli uomini della pace. La pace della città (pax villae) è nello stesso tempo la legge della città (lex villae). Gli emblemi che
simboleggiano la giurisdizione e l’autonomia della città sono prima di tutto
emblemi di pace. Tali sono, per esempio, le croci o le scalinate che
s’innalzano sui mercati, i campanili (Bergfried),
la cui torre si erige nel mezzo delle città dei Paesi Bassi e del Nord della
Francia, i Roland così numerosi nella
Germania del Nord.
[…]
La consuetudine urbana si estende
fino al limite della pace e la città forma nella cerchia dei suoi baluardi una
comunità di diritto. D’altra parte la pace ha largamente contribuito a fare
della città un Comune. Essa ha, in effetti, per sanzione il giuramento:
presuppone una conjuratio di tutta la
popolazione urbana. Ed il giuramento prestato dal borghese non si riduce ad una
semplice promessa d’obbedienza all’autorità municipale; esso genera obblighi
precisi e impone il rigido dovere di mantenere e di far rispettare la pace.
Ogni juratus, cioè ogni borghese che
ha prestato giuramento, è obbligato a prestare man forte al borghese che chiede
aiuto. Così, la pace stabilisce tra tutti i suoi membri una solidarietà
permanente. Da ciò il termine di fratelli
con il quale talvolta vengono indicato o quello di amicitia, usato per esempio a Lilla come sinonimo di pax. E poiché la pace si estende a tutta
la popolazione urbana, questa è dunque costituita in Comune. Gli stessi nomi
che portano i magistrati municipali in una quantità di luoghi, “wardours della pace” a Verdun, “reward dell’amicizia” a Lilla, “giurati della pace” a
Valenciennes, a Cambrai e in molte altre città, ci permettono di vedere in
quale intimo rapporto si trovano la pace e il Comune.
[da: Henri Pirenne, storico belga
(1862-1935), Le città del Medioevo,
Laterza, 1999; opera edita per la prima volta a Princeton, New Jersey, Usa, nel
1925]
Le basi ideologiche dell’organizzazione delle
nostre collettività religiose non risalgono alle origini, a duemila anni fa, ma
ad epoca più vicina alla nostra, e precisamente agli inizi del secondo Millennio,
in quell’epoca che viene definita Basso Medioevo e che convenzionalmente si fa
finire con la scoperta delle Americhe, nell’ambiente sociale della nuove autonomie
cittadine fortemente influenzate dalla cultura degli artigiani e dei mercanti. Essa
ha (ancora) un carattere fortemente autoritario e accentrato, essendo ordinata
come un impero religioso, e sul
problema della pace ha condiviso a
lungo alcune idee della civiltà del Basso Medioevo. Ha cominciato a
distanziarsi da essa solo dagli scorsi anni Cinquanta. La riforma è stata
vissuta anche come una riscoperta delle
origini, delle consuetudini sociali delle nostre prime collettività di fede
e, in particolare, delle loro radici ebraiche. Ciò è stato conforme alla convinzione religiosa
che quanto più si risale a quelle collettività, quanto più ci si avvicina
all’esperienza terrena del nostro primo Maestro, tanto più si può vivere la
nostra fede nella sua autenticità. In realtà, questo ritorno al passato come forma di
riforma della vita religiosa si è rivelato in genere piuttosto
insoddisfacente. Il passato non ha la ricetta giusta per la nostra vita in
comune di oggi e tanto meno per progettare il futuro. E infatti, spesso, il
passato a cui si fa riferimento non è quello storicamente ricostruibile in modo
affidabile da fonti degne di fede, che in genere delude, ma un passato in gran
parte ricostruito artificialmente sulla base delle nostre esigenze attuali.
Insomma questo ritorno alle origini è
spesso un sognare un passato che non è mai esistito. Questo passato sognato viene utilizzato per legittimare le riforme dei nostri tempi e, bisogna
ammetterlo, questo metodo viene utilizzato sia dai reazionari che dai
progressisti. La distinzione tra questi due filoni culturali di riforma è determinata dalla posizione
che si assume sulla questione della democrazia
come ai tempi nostri la si intende, quindi non solo come regola maggioritaria
per assumere decisioni, ma come sistema culturale basato sull’affermazione di
un sistema di diritti fondamentali della persona,
attribuiti a prescindere da una particolare condizione di cittadinanza.
Il
questo quadro il tema della pace è centrale.
Dagli anni Sessanta, nella nostra confessione religiosa esso è collegato
al tema della giustizia sociale ed è
considerato compito di tutti, non solo di determinate autorità nazionali o
internazionali. Questa la marcata differenza con le concezioni del passato. E’
questo che richiederebbe una specifica formazione dei laici di fede, ai quali
primariamente compete il lavoro di mantenere nella società una pace fondata sulla giustizia. Il legame
tra pace e giustizia è molto forte nell’antica cultura biblica. Da ragazzo non
ci avevo molto fatto caso. Ero stato formato nella cultura dell’impero religioso, che, come dirò, è
basata su un’altra idea di pace. La prima volta che ne ho preso consapevolezza
è stata, molti anni, fa, l’ultimo dell’anno del 1980, quando mi recai al
Colosso, qui a Roma, per una marcia e
veglia per la pace, indetta dal Vicariato. All’inizio della marcia, fece un
bel discorso il rabbino Elio Toaff. egli parlò in termini molto chiari del
fondamento biblico del legame tra giustizia
e pace. Fu da allora che cominciai ad approfondire l’argomento, scoprendo che,
sì, me ne avevano molto parlato, ma io non ne avevo compreso la grande
rilevanza. Nel 1967, il beato Giovanni Battista Montini, all’epoca regnante
come Paolo 6°, istituì un organismo, la Commissione
Iustitia et pax (=giustizia e pace), per riflettervi sopra. San Karol
Wojtyla, durante il suo regno come Giovanni Paolo 2°, nel 1988, alla vigilia di
tempi storici per l’Europa, lo potenziò. L’idea di giustizia e pace pervase il
pensiero sociale dei saggi del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) ed è oggi alla
base di tutti i nostri progetti religiosi di riforma civile e politica.
Tuttavia a lungo il problema della pace fu
visto come una questione di ordine
pubblico. Quest’idea risale al Medioevo, un’epoca che fu vissuta in
religione in modo particolarmente traumatico, e che effettivamente fu molto
difficile dal punto di vista sociale. Il modo in cui ancora si esercita il
potere religioso nelle nostre collettività risente delle soluzioni che in quei
tempi lontani furono escogitate per porre rimedio all’insicurezza degli
ambienti sociali.
Il grande storico belga del Medioevo Henri
Pirenne, nel brano che ho sopra citato, mette in rilievo un particolare aspetto
dell’ideologia medievale sulla pace. Nelle città medievali, il problema del
mantenimento della pace civile,
necessaria per le attività e i traffici della classe dei mercanti e artigiani
che aveva iniziato a caratterizzarle, era visto essenzialmente come un problema
di politica criminale. Pace era,
sostanzialmente, il diritto criminale delle città medievali. Bisognava
scoraggiare ogni sorta di banditi che confluivano nelle città attirati dalle
loro ricchezze. La pace veniva mantenuta irrogando pene durissime, all’esito di
procedimenti giudiziari. Questa idea cominciò ad essere abbandonata solo nel
Settecento, con l’Illuminismo, quando si cominciò a parlare di umanizzazione del diritto criminale. Il giurista milanese
Cesare Beccaria (1738-1794) fu una delle figure europee più importanti in
questo progresso culturale.
Le strutture di potere delle nostre collettività
religiose, in particolare i vescovi, risiedevano, nel Medioevo, nelle città.
Dalle città medievali l’ideologia religiosa del potere apprese l’idea della
pace come problema criminale. E’ da essa che derivò l’istituzione di quella
complessa ed efferata organizzazione di polizia ideologica che venne chiamata Inquisizione e che, con diverse
manifestazioni e metamorfosi, travagliò le nostra genti di fede dal dodicesimo
secolo. Essa condivise la convinzione, diffusa nelle città del Basso Medioevo,
che il mantenimento della pace
sociale richiedesse di scoraggiare i malintenzionati con pene criminali molto
dure, irrogata da specifiche magistrature. Tutti, e anche gli stessi indiziati,
erano giurati, vale a
dire, come accadeva nelle città
medievali, obbligati a collaborare a questa opera di giustizia sociale a fini
pacificatori. Da ciò la convinzione che si potesse torturare i renitenti a
quest’obbligo per indurli a quella collaborazione. Una visita a Castel
Sant’Angelo, qui a Roma, che a lungo anche casa di reclusione del papato, in
particolare alle sue camere di tortura, potrà rendere un’idea di quella
concezione medievale di pacificazione.
Mario Ardigò – Azione Cattolica
in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli