Dialogo, via della
pace
[…] quando si verifica una
lacerazione lì dove la vita richiede unità, occorre attivarsi per ritrovarla,
per sanare la lacerazione. Tuttavia […] l’integrità non la si può ritrovare
percorrendo la via della censura, dell’emarginazione o dell’esclusione della
parte da cui si sono prese le distanze.
Questa intuizione di fondo sostiene
l’accostamento della dimensione interiore a quella esteriore, interpersonale o
tra gruppi sociali che sia: dove sorge un conflitto che conduce ad una
estraneità, a voler tornare a vivere, occorre ricordare a se stessi che la via
dell’espulsione e dell’epurazione non risana e non restituisce integrità.
E’ in forza di questa intuizione che sorge la
domanda su come sia possibile riconciliarsi con il proprio passato, con
un’altra persona o come possano riavvicinarsi parti sociali che per motivi
diversi si sono distanziate al punto da
squalificarsi reciprocamente come “disgraziate”.
L’idea soci-politica che maggiormente vive di
questa intuizione, e che specularmente muore quando si appanna, è quella di
“bene comune”.
Per gli autori personalisti del Novecento
tutto questo era molto chiaro. Emmanuel Mounier [filosofo francese, 1905-1950]
sosteneva ad esempio che la comunità andasse concepita come una “persona di
persone”: “Una comunità –annotava- è una persona nuova che unisce molte persone
con il loro stesso cuore. Non è una moltitudine. Non si può contare una pura
comunità. Chi sapesse osservarla con sguardo competente coglierebbe ognuno nella
sua irriducibile originalità e l’insieme come una orchestra. Una società è
durevole solo se tende a questo modello” [da: Rivoluzione personalista e comunitaria, 1935]. In un certo senso
veniva messa in rilievo proprio la percezione del profondo impoverimento, quasi
della amputazione a cui si va incontro quando la communitas risolve i propri conflitti interni imboccando la via
dell’esclusione di una parte, quando si immagina di poter trovare la via della
pace civile mettendo al bando l’una o l’altra della componenti sociali in
tensione. Ogni forma di espulsione segna cioè un collasso di cui la comunità
inevitabilmente risente in profondità, anche se a livello superficiale
l’allontanamento di alcuni può essere temporaneamente avvertito come un
allentamento della tensione.
Il collasso riguarda proprio la percezione del
“comune”: lì dove si fa strada l’idea di poter ritrovare l’integrità del bene
attraverso la via dell’espulsione di una o alcune parti, quel che viene colpito
è proprio l’intuizione dell’unità sociale, della appartenenza alla stessa communitas. Tolta o indebolita questa
intuizione, anche l’idea che vi sia un bene comune sfuma: ogni parte si
concentra per massimizzare il proprio vantaggio, i propri obiettivi, avviando
una dinamica di contrasti sempre più accesi in cui il bene privato (individuale
o del proprio gruppo) rimane l’unico orizzonte.
Forse noi, oggi, ci stiamo già muovendo in
questo scenario.
[…]
In un certo senso potremmo considerare che
oggi il bene comune ha bisogno di ritrovare un’evidenza dei suoi preliminari:
occorre riscoprire quel che esiste già
di comune tra le persone e tra i gruppi sociali che si raccolgono attorno a
obiettivi o rivendicazioni particolari che li vedono contrapposti.
Riscoprire il comune è anzitutto una questione
di ascolto tra le parti: così come ciascuno, per venire a capo di un vissuto
problematico, ha bisogno di sondare più attentamente se stesso, la propria
storia e le proprie convinzioni, allo stesso modo è probabile che parti sociali
in contrasto debbano ritrovare anzitutto i modi per ascoltarsi più
distesamente.
[da: Giovanni Grandi, “Il conflitto e la (possibile?)
riconciliazione”, in Dialoghi,
trimestrale dell’Azione Cattolica, n.4/2014]
Dialoghi,
si chiama il trimestrale culturale dell’Azione Cattolica, e questo nome indica
insieme un orientamento e un impegno. Infatti il dialogo è, a tutti i livelli, il metodo dell’Azione Cattolica.
A volte, nella storia di una collettività, viene il tempo dei bilanci.
Accade anche a noi, quest’anno. Possiamo essere soddisfatti di molte cose che
sono state realizzate. Ma nel campo del dialogo
siamo piuttosto carenti. Non
dialoghiamo tra noi e con il quartiere e non formiamo al dialogo. Si lavora in
gruppi di tendenza che fanno vita separata gli uni dagli altri. Non ci si
conosce e, tra gruppi di opposto orientamento, si è sospettosi e si diffida gli uni degli altri.
Secondo alcuni orientamenti, si pretende che i
nuovi arrivati, entrando, lascino alla dogana tutto ciò che hanno realizzato
nella loro vita e accettino di essere ricostruiti,
obbedendo a dei formatori che pretendono di sapere e poter ricostruire la vita della
gente.
In genere, il nostro ambiente sociale è visto
come meno accogliente di quelli che sono stati realizzati da altre parti.
Nel corso di una esercitazione che abbiamo fatto qualche riunione fa nel gruppo di
Azione Cattolica, da uno dei gruppi di lavoro è emersa la proposta di
accogliere amichevolmente le persone all’entrata della chiesa parrocchiale, per
ridurre la sensazione di estraneità reciproca.
E’, innanzi tutto, deficitaria una cultura del
dialogo. Il dialogo è visto come fonte di contaminazione. Non dialogo, ma amore
servirebbe. Ma poi, questo amore di cui tanto ci si riempie la bocca, senza la
capacità di dialogare con gli altri, che amore è? Alla fine tutto si risolve in
una maggiore solidarietà nel proprio gruppo di tendenza, quello in cui non c’è
bisogno di dialogare perché è fatto di persone che la pensano tutti in uno
stesso modo, selezionate proprio su questa base.
Il dialogo è una sfida e un rischio. Non si
sa, dall’inizio, come andrà a finire. Non lo si può programmare, bisogna essere
aperti a sviluppi imprevisti. Esso implica una vera scoperta dell’altro, non una
sua semplice assimilazione. A volte,
invece, si concepiscono le collettività come dei mostruosi cannibali che digeriscono le persona al loro interno.
Questa è storicamente la concezione totalitaria del sociale. La collettività in
cui entra ti cambia. Accadeva, ad esempio, nel sistema educativo del fascismo
storico, negli scorsi anni Venti e Trenta. Benché a volte non se ne abbia
chiara coscienza, non è questo il rapporto sociale consigliato in religione.
Noi infatti non siamo rigenerati dalle collettività di fede in cui siamo
inseriti, ma dall’alto. Nelle collettività di fede troviamo un aiuto, degli
alleati, ma di esse siamo nel contempo ne siamo anche responsabili. Esse
infatti non hanno un unico volto, ma tanti volti, e anche il nostro. Esse sono
come le facciamo. E spesso finiscono per deludere, come osservò una volta
Joseph Ratzinger. Per questo in religione si suole dire che devono sempre
essere aggiustate, adattate. Come per i singoli, anche per le collettività i
lavoro di conversione non è
mai finito. A somiglianza di quello personale (nessuno si converte da
solo), anche quello sociale richiede il dialogo, relazioni attive e
positive tra la gente di una collettività, il confronto franco tra varie
esperienze di vita. Quand’è che deve cominciare questo impegno? Da subito, da
bambini, fin dal primo giorno del catechismo dell’infanzia. E deve durare tutta
la vita. Al dialogo di conversione bisogna fare tirocinio, bisogna fare
pratica, come in tutte le altre attività sociali. Si sbaglia e ci si corregge.
Ricordo che suscitò grande impressione, in tutti noi che in piazza San Pietro
lo vedevamo per la prima volta da Papa, quando san Karol Wojtyla, presentandosi
dalla facciata della basilica di San Pietro con i paramenti pontificali, ci
disse “Se sbaglio, mi corigerete”,
intessendo quindi, sull’esempio dei suoi predecessori, un dialogo con la folla
di fedeli che era convenuta là sotto.
Da noi si dà troppa importanza all’uniformità.
Sembra che sia apprezzato un certo conformismo. Gli annunci che ogni anno
facciamo per invitare gli adulti alla formazione religiosa di secondo livello
si assomigliano un po’ tutti, di anno in anno. Non vi pare? E parlano di
esperienze che sono tanto diverse dalla mia e probabilmente anche da quella di
diversi altri. Com’è che le nostre non possono mai essere rappresentate?
Del resto quest’apprezzamento dell’uniformità
traspare anche dagli arredi della chiesa parrocchiale. L’architettura dice
molto di una collettività. La gente di fede in mezzo alla quale mi sono formato
era più multiforme, diciamo così, e non considerava l’uniformità un valore
molto importante. Sono cresciuto in collettività in cui i volti delle persone
erano ben distinguibili e tuttavia rimanevano volti di persone di fede: tutte
insieme, quelle persone, lavoravano come in un’orchestra, erano riconoscibili
come un gruppo-persona. Del resto, possiamo in questo imparare dalla natura.
Non c’è un albero uguale ad un altro, guardiamo ad esempio i bei pini di viale
Val Padana, a cui siamo molto affezionati, nel quartiere, tanto che siamo
collettivamente insorti quando li volevano abbattere per realizzare dei
parcheggi sotterranei. Ma tutti quei
pini, lungo il viale, benché diversi gli uni dagli altri, danno un’idea di
unità.
A me piace l’architettura della basilica della
Sagrada Familia (=la Sacra Famiglia),
a Barcellona – Spagna, che l’architetto Antoni Gaudì volle progettare ad
imitazione della natura, in particolare di un bosco. La vedete nella foto qua
sopra: una fantastica multiformità, che però dà l’idea dell’unità. L’opera,
dopo oltre un secolo, non è ancora finita. Si perde molto tempo nei dettagli.
Farla in cemento armato, con un progetto di linee più semplici avrebbe preso
molto meno tempo. E’ così anche con le collettività sociali. Il lavoro non
finisce mai. Se si ha fretta, il risultato poi delude un po’.
Ieri a cena, ci è venuta l’idea di invitare
tutti i lettori del blog per una pizza, una sera. La pizza è un incontro
sociale che funziona sempre. Quanti posti dovremmo prenotare? Non abbiamo una
precisa idea dei nostri interlocutori. Siamo molto curiosi su di loro. Chissà
se poi risiedono tutti nel nostro quartiere…
Mario Ardigò – Azione Cattolica
in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.