INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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venerdì 31 dicembre 2021

Manuale operativo di sinodalità -2- La trappola della spiritualità

 

 




 

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Sito della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi

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Manuale operativo di sinodalità

-2-

La trappola della spiritualità

 

    Spiritualità significa concentrarsi su se stessi con due scopi: rendere coerente la propria etica personale, vale a dire costruirsi una coscienza, o conseguire un effetto di serenità e quindi di benessere. Credete questo: per quest’ultimo non è necessario che abbia base religiosa. Spesso è però proprio a ciò  che si punta quando si cerca la spiritualità.

  In ambito clinico è un dato ormai acquisito che le tecniche di mindfulness ottengono risultati psicologici sorprendenti con la sola la concentrazione della mente sul respiro e sul proprio corpo, senza alcun riferimento soprannaturale: certo, li si può conseguire anche seguendo i maestri di spiritualità religiosa, ma con molto più sforzo e in più tempo. Ad esempio con l’esicasmo, la ripetizione costante di una frase-mantra  in modo da farla coincidere con la respirazione: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore - Kύριε Ἰησοῦ Χριστέ, Υἱὲ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἀμαρτωλόν – pronuncia translitterata: Κyrie Jesù Christé, Üié Theù, eléisòn me tòn amartolòn”. Un’altra tecnica molto utilizzata in religione è basata sulla deprivazione relazionale, sul silenzio, riempito con la concentrazione su se stessi. Si sostiene che in quel silenzio si udrebbe la voce del Cielo. Ad alcuni evidentemente accade, come dicono. A me, francamente, mai. Comunque, a volte si ha bisogno di fare silenzio, di chiudersi nella propria interiorità. Allora può accadere di fare un bilancio più realistico della propria situazione e di riuscire in questo modo a programmare meglio che fare. Un viaggio da soli può avere questo effetto, con una sensazione di liberazione dai flussi sociali in cui si è come incastrati e trascinati. Altre volte si è semplicemente soli e ci si intristisce. E’ per questo che in genere ci piace stare in compagnia. Ma sinodalità non è solo stare in compagnia, non si punta la proprio piacere, o almeno non di dovrebbe, in essa si ha di mira la missione, da conseguire  in relazione. Non vi è alcuna vera relazione nel solo silenzio. Dunque, il silenzio  è l’antitesi della sinodalità e, se tutto torna o resta silenzio, la si demolisce.

  Tecniche di spiritualità vengono correntemente utilizzate nelle religioni per controllare le persone. Gli Esercizi spirituali secondo Ignazio di Lojola, un’esperienza spirituale molto bella e coinvolgente – va detto-, ne possono essere un esempio, perché è una spiritualità che può mettere gli esercitandi  nelle mani di chi li predica. Chi li avuti predicati da una grande anima come fu Carlo Maria Martini non li riconoscerà nel quadro che ne ho dato, ma bisogna essere consapevoli che possono essere anche questo.

  Nelle istruzioni di sinodalità che sono state diffuse dalla Segreteria del Sinodo dei vescovi e da quella della Conferenza episcopale italiana, quanto al Sinodo delle Chiese italiane, si consiglia molta spiritualità, e naturalmente da pastori d’anime non si poteva che attenderselo. La sinodalità mette in questione anche le coscienze e, dunque, la spiritualità ha una sua indicazione anche in quell’ambito. Ma non bisogna eccedere e ridurre tutto solo a questo, perché la sinodalità non è solo questo, e non principalmente. La sinodalità è relazione. Il rischio è che, nei gruppi sinodali, e in ogni attività correlata di costruzione della sinodalità ecclesiale, ci si riversi addosso su larga scala una massa di indigeribili pipponi  che farebbero perdere tempo senza alcun risultato di costruzione di relazioni utili.

  A volte il tempo sembra non passare mai, ad esempio quando si è in fila allo sportello, e ciò anche quando si è tra amici e si cerca di fare qualcosa di interessante, ma non lo si ancora trovato. Lo si sperimenta soprattutto da giovani, finché non si sa che fare. E da giovani accade spesso. Più avanti le cose da fare, tra lavoro e famiglia, diventano tante e il nostro tempo si restringe. Cosa che in genere i nostri pastori non capiscono bene. Sembra che per loro il tempo in cui non stiamo in chiesa  con loro sia per noi solo sollazzo e dissipazione.  Quando si è deciso che fare, ecco che si scopre che il tempo inizia a volare e non basta mai. E’ solo la nostra percezione dello scorrere del tempo che cambia, certo: la realtà è che il tempo è sempre troppo breve. Alla mia età, sono un sessantenne, lo si capisce molto, troppo, bene.

  La mia esperienza pratica è che, quando ci si riunisce per organizzare qualcosa di collettivo, è come se il tempo collassasse e quando viene il proprio turno si finisca per poter dire solo poche battute. Lo ricordava un conferenziere in un incontro del Meic  su Zoom  di due settimane fa: nell’ultimo Sinodo il Papa ha preteso che si contingentassero gli interventi, tre minuti per ogni cardinale!, in modo da dare a tutti la possibilità di esprimersi nei tempi massimi previsti per l’assemblea. Inoltre ha ordinato che ogni due o tre interventi si facessero diversi minuti di silenzio. Immagino l’angoscia di quei prelati! Non si sarebbe potuto allungare il tempo dell’assemblea? Evidentemente no. Probabilmente anche perché, sulla base della passata esperienza, non si riteneva che dare più tempo per gli interventi facesse poi tutta questa differenza. Spesso nella sinodalità del clero i giochi, per così dire, sono già fatti ancor  prima di votare. A che serve, allora, chiacchierare nell’assemblea plenaria? Questi costumi spiegano poi l’insofferenza dei clericali per i costumi parlamentari. Del resto, anche in quell’ambito, anni fa un importante esponente politico, constatato che anche lì le decisioni si prendevano fuori dell’assemblea, nella quale ci si limitava a contare i voti, e i parlamentari di minor importanza, la gran massa, detti da noi peones, nel senso di braccianti  sotto padrone, dovevano solo votare e non chiacchierare, propose di deliberare in commissioni alle quali partecipassero solo i segretari dei partiti rappresentati in parlamento. Una decina di persone invece di novecento!  Così però non sarebbe più democrazia, che esige  di limitare i poteri delle oligarchie consentendo di metterli in discussione. La stessa cosa è con la sinodalità.

  Nella sinodalità ecclesiale il rischio è aumentato  a causa della spiritualità eccessiva che vi si vuole infilare dentro ed è precisamente quello che, perso tanto tempo con i pipponi  spirituali e con il silenzio liturgico, poi non si voti proprio e, prima di tutto, non si discutano gli argomenti rilevanti per le decisioni. La spiritualità così ammazza la sinodalità. Una persona, naturalmente, ne può ricavare un arricchimento per la propria coscienza e, a volte, anche una sensazione di pace spirituale, ma con ciò non si è assolutamente conseguito alcuno scopo della sinodalità, che consiste nel costruire relazioni reali, non immaginarie. E’ appunto ciò che mi pare sia accaduto durante la prima assemblea sinodale che si è fatta in parrocchia. Dopo le premesse spirituali  ognuno è stato invitato a dire la propria e tutto è rimasto come prima, non abbiamo discusso gli argomenti gli uni degli altri (del resto secondo le linee guida della CEI), nessuna nuova relazione  è stata creata e ci si è lasciati da estranei come prima, se prima si era estranei, o con il medesimo livello di conoscenza reciproca di prima, se ci si conosceva. I preti presenti nei gruppi nei quali ci si è divisi dopo l’assemblea plenaria prima hanno dichiarato che dovevano parlare solo le persone laiche e loro tacere – errore!- (come se il Popolo di Dio  fossero solo le persone laiche), chiamandosi fuori, e poi, sollecitati, hanno fatto sostanzialmente delle predicazioni. In questo modo la separazione verticale tra preti e persone laiche è rimasta: appunto, tutto è rimasto come prima.

  Il Sinodo delle Chiese del mondo ha come titolo: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. L’obiettivo è molto chiaro: costruire una Chiesa sinodale mediante una partecipazione che tenda all’intesa benevola (comunione) per svolgere più efficacemente la missione  per la quale siamo stati mandati in giro nel mondo, tra l’altra gente. E’ un Sinodo sulla sinodalità  s’è osservato, ma direi meglio: è un Sinodo per la sinodalità, vale a dire un sinodo nel quale si inscena la sinodalità, quindi  si iniziano a costruire relazioni solide. Il Sinodo sulla e per la sinodalità è già Chiesa sinodale in atto.

  Sì, certo, ora osserverete che anche nella spiritualità si generano relazioni, ma,  nella mia esperienza, anche quando accade, sono piuttosto labili e connotate da molti elementi immaginari. Si sogna  di essere in relazione, come quando siamo convocati dal Papa e andiamo in una grande piazza con migliaia di altre persone e ce ne torniamo a casa con l’idea di essere stati con il Papa. E un’impressione fallace. Abbiamo solo sognato di esserlo. Noi e lui.

  Parliamo di Chiesa sinodale e immaginiamo qualcosa che ci sembra chiaro. Ma andiamo sul pratico. Come si fa  una parrocchia sinodale? Se la gente viene e, lasciandosi, non pensa di rivedersi né cerca almeno di mettere nella propria rubrica telefonica i recapiti di qualche altra persona che ha incontrato, possiamo dire che questo sia l’inizio di un sinodalità parrocchiale, anche se ci si è riuniti in parrocchia?

  Io sono di quelli che vanno in chiesa, ma chi sono quelli che ci vanno con me? Frequentiamo da anni la stessa Messa, ma non abbiamo mai pensato di approfondire la conoscenza.

  Adesso ricordo un fatto che spero non offenda nessuno, ma che mi è rimasto in mente, per dare un’idea di quello a cui mi riferisco.

 C’era negli anni Settanta un partito di governo nel quale si cercava di costruire quello che oggi, nella nostra Chiesa, definiamo sinodalità, insomma di fare unità. C’era una comune ideologia, divisa in tanti gruppi. Ci furono alcuni che vennero in quel partito provenendo da altre formazioni e altri che uscirono perché insoddisfatti. Un parlamentare di quel partito, osservando sconsolato la cosa, se ne uscì, in un’intervista  su una rivista settimanale molto letta con questa frase: “Gente che va, gente che viene: questo partito è diventato come il cesso della stazione”.

 I sociologi definiscono le stazioni ferroviarie e gli aeroporti come  non luoghi, appunto posti dove la gente va e viene senza mai stringere vere relazioni personali. I rispettivi  cessi  sono non luoghi  al quadrato, perché, naturalmente, ognuno se ne sta sulle sue. Ebbene, le nostre chiese qualche volta  appaiono un po’ come dei  non luoghi, a prescindere dalla spiritualità che individualmente vi si pratica, e, anzi, nonostante essa. Decenni fa era molto peggio perché il celebrante parlava per la gran parte della liturgia una lingua ignota ai più e allora c’era il costume che le persone praticassero, nel frattempo, una spiritualità personale servendosi di appositi libriccini devozionali. Ma anche ora non è che vada poi molto meglio: in definitiva ci viene messo in mano uno spartito e recitiamo le formule indicate con una “R.”. Ecco che allora le persone che vanno in chiesa si mettono  a criticare le prediche dei celebranti, troppo lunghe, troppo corte, troppo complicate, troppo povere, e i canti e le musiche, chi vorrebbe addirittura il gregoriano con il suo latino incomprensibile ai più, chi i canti della sua infanzia, chi quelli di sempre, chi qualcosa di meno stantio: ma è per questo che si va in chiesa? E per che cosa  ci si va, in concreto? Decidiamolo lasciando però da parte i pipponi  di maniera che anche da parte nostra si cerca di solito di tirar fuori quando si viene interrogati sull’argomento.

 Cerchiamo di scoprirlo meglio.

  Se per noi in chiesa  conta solo la spiritualità, lasciamo perdere la sinodalità. Non è per noi.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

giovedì 30 dicembre 2021

Manuale operativo di sinodalità 1. L’inizio

 




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Manuale operativo di sinodalità

1.  L’inizio

 

 Quando si riesce a definire almeno sommariamente il contesto teologico di ciò che oggi si vuole intendere con sinodalità si pensa di essere a buon punto nel realizzarla, e invece non si è nemmeno iniziato.

   La teologia contiene molta immaginazione resa coerente dalla logica. La realtà è fatta di persone e delle loro società, che è tutt’altro. Finché si rimane nel campo della spiritualità personale è possibile che tutto fili liscio, perché noi abbiamo un’una buona capacità di interiorizzare i sogni altrui; quando invece si passa a cambiare le società cominciano i problemi, se non si riesce o non si vuole comprendere ciò che c’è e come veramente sono. Non sto ad argomentare ulteriormente sul punto: è un dato di esperienza. Inutile chiacchierarci sopra, si provi sul campo e si veda come va. Quello che ho detto è la ragione per la quale le riforme religiose non dovrebbero mai essere guidate da teologi, ma solo da loro ispirate. Storicamente purtroppo si è fatto diversamente. Nella nostra Chiesa ci sono stati certamente, ad esempio, Papi dissoluti, ma essi non fecero tanto danno quanto i Papi teologi. Capita anche noi, nella molto più piccola scala delle nostre collettività di prossimità, essenziali per la nostra vita di fede.

  Cominciamo con l’osservare che la sinodalità totale di cui ci parla papa Francesco  c’è veramente da poche parti. Va anche considerato che una vita realmente comunitaria non è praticabile se non in piccoli gruppi, quelli nei quali ci riesce a chiamare tutti per noi, e questo per nostri limiti cognitivi di specie non superabili. Costituiamo certamente collettività immensamente più grandi, caratterizzate dalle loro intense relazioni sociali, ma esse non potranno mai essere comunità, come lo fu il mio gruppo scout, o il nostro gruppo di Ac. Una comunità realizza quello che mio zio Achille, con altri suoi colleghi sociologi, chiamava mondi vitali, e ha un particolare effetto sulle persone, perché dà loro il senso della vita. Quest’ultimo risulta sostanzialmente da un complesso di emozioni, che sono molto importanti per gli esseri umani perché è in base ad esse che si prendono le decisioni non governate da semplici automatismi fisiologici. Questo rende chiaro che le collettività umane sono governate sempre  sulla base di emozioni e che un raccordo delle società più grandi con i mondi vitali è indispensabile. Le società totalitarie, come la nostra Chiesa a lungo è stata dall’Ottocento, cercano anche di controllarli.

  La costruzione della sinodalità va adattata alla collettività di riferimento, sia o non sia una comunità. Naturalmente in una comunità  è più semplice essere sinodali, ma rimanendo a quel livello più che altro si gratifica se stessi, non si producono in particolare quei cambiamenti particolarmente significativi dell’ambiente umano che definiamo storici.

 La nostra collettività di riferimento è la parrocchia.

  Nel diritto canonico viene ora descritta come una comunità, e anche, come già prima delle innovazioni prodotte negli anni ’80, come una istituzione. La nostra è società la quale, secondo stime attendibili, può ipotizzarsi coinvolga circa 8.000 persone di tutte le età, delle quali circa 1.000 vanno  regolarmente in chiesa, e poche decine l’animano  nei vari servizi istituiti, preti e diaconi compresi.  Questi ultimi esprimono il governo della parrocchia, che formalmente è accentrato nell’ufficio del parroco, ma nella pratica non potrebbe svolgersi senza la collaborazione di altri volenterosi.

  La prima cosa da osservare, all’inizio di una costruzione sinodale, è l’atteggiamento verso di essa del gruppo di governo della collettività. Quest’ultimo è un piccolo gruppo, che genera intense relazioni di mondo vitale. Nessuna meraviglia: anche lo stesso governo nazionale è un piccolo gruppo o il Consiglio di sicurezza  delle Nazioni unite, l’organo di governo collettivo che, formalmente,  è il più potente mai costituto nella storia dell’umanità. Quando si propone a un piccolo gruppo di governo di modificare il proprio modello di governo inevitabilmente si incontra una resistenza, e ciò a prescindere dal fatto che sia o non sia costituito da persone virtuose, dal punto di vista della religione o umano in generale.

 Una cosa è organizzare una specie di sondaggio cercando animare gruppi estemporanei che si radunano in base ad un appello e che rapidamente si sciolgono: è quello che s’è fatto finora nel nostro processo sinodale parrocchiale. Ben altra è cambiare veramente il modo di decidere le cose che riguardano tutti. Si ricorda il detto medievale secondo il quale le cose che riguardano tutti, devono essere decise da tutti. Il presidente del Meic, prof. D’Andrea, nella conferenza tenuta il 10 dicembre scorso su Zoom, ha osservato che questo principio è alla base della pratica democratica. Naturalmente, dal punto di vista storico, nella nostra Chiesa in quei tutti non si sono mai comprese veramente tutte  le persone di fede, anche quando si è voluti essere sinodali. Tutti  è stato sempre inteso nel senso delle persone alle quali nella società religiosa veniva riconosciuto un qualche potere collettivo, fossero del clero, religiosi, o anche sovrani o funzionari civili. La sinodalità che ora viene proposta va molto oltre. Tuttavia rimane il problema di incidere sul nostro piccolo gruppo di governo, sul quel mondo vitale  che finora, in definitiva, è stato la parrocchia, senza disarticolare la parrocchia come istituzione capace di suscitare anche una vita comunitaria, e questo è molto importante.

 Bisogna imparare dalla storia: le rivoluzioni, vale a dire i cambiamenti radicali di governo, basate su palingenesi, vale a dire sul proposito di spianare tutto ciò che c’era prima per ricostruire qualcosa di totalmente nuovo, non hanno mai funzionato. Anche qui non sto a dilungarmi, perché è cosa che deriva dall’esperienza storica ed è necessario che ciascuno si informi, in particolare facendo memoria dei suoi studi scolastici. Le società umane, come i viventi che le compongono, evolvono, non rinascono dal nulla. Dal nulla non viene fuori nulla.

 

In principio
Dio creò il cielo e la terra.
Il mondo era vuoto e deserto,
le tenebre coprivano gli abissi
e un vento impetuoso soffiava sulle acque.

[dal libro della Genesi 1, 1-2 – Gn 1,1-2 – versione TILCTraduzione interconfessionale in lingua corrente]

 

  Quando viene spiegato questo brano biblico, si fa osservare che si presenta un inizio che precedeva cielo e terra, in cui non  è che non ci fosse nulla: c’erano gli abissi, c’era il vento e c’erano le acque, un bel po’ di roba. Cerchiamo di seguire quell’antica saggezza che cerca di rendere l’idea di come tutto fu fatto agli inizi e abbandoniamo l’idea, che talvolta ho sentito correre in parrocchia, che occorre far piazza pulita di tutto, nelle persone e nella società, per poter costruire  secondo la nostra fede. Ho sempre molto disprezzato questo assurda pretesa di andare addirittura oltre ciò che si dice che Dio fece in principio,  perché, lo dico francamente a costo di scontentare qualcuno, è da stupidi, ma non solo, da cattivi. Così facendo, infatti si può fare veramente molto male alle persone, con il pretesto della religione. Del tutto a ragione, allora, una religione così verrebbe contrastata.

  Ci dicono che la sinodalità deve essere animata da una profonda spiritualità, ed certamente vero, ma essa va costruita, penso, principalmente su basi bibliche, per non cadere preda di fantasie malvagie, come purtroppo mi pare che sia accaduto non poche volte nella nostra tremenda storia ecclesiale.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

mercoledì 29 dicembre 2021

Sinodalità come processo di liberazione





 

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Sinodalità come processo di  liberazione

 

  La sinodalità ecclesiale viene presentata come metodo e come processo. Nell’era antica fu metodo e divenne processo. 

  Un metodo è uno schema per organizzare un’attività. Ad esempio si può decidere di iniziare l’esame collettivo di una questione, per decidere o dichiarare qualcosa come collettività, nominando un ufficio di presidenza, poi di continuare dando la parola per un tempo determinato a chi voglia dire la sua e raccogliendo  proposte  di deliberazione, e, infine, di concludere con una votazione su di esse, il cui risultato sia proclamato dall’ufficio di presidenza. Se ogni persona che fa parte della collettività ha diritto di dire liberamente la propria, di contribuire a presentare proposte di deliberazione (può infatti essere deciso che una proposta sia validamente presentata solo se appoggiata da più di una persona) e di esprimere un proprio voto che valga come quello delle altre persone, allora la decisione collettiva potrà essere considerata democratica, a condizione che non limiti irragionevolmente i diritti di libertà e  partecipazione dei consociati in futuro. Adottare sistematicamente il metodo democratico nelle decisioni collettive contrasta il formarsi e il consolidarsi di oligarchie sociali, sempre organizzate intorno a interessi per privilegi, e questo progressivamente  cambia la collettività di riferimento: il metodo genera un processo democratico. In progresso di tempo, i principi sociali libertari ed egualitari si rafforzeranno e aumenterà la forza sociale di resistenza all’arbitrio. Analogamente, la pratica costante di metodi non democratici basati su principi oligarchici la deprimerà, rafforzando le oligarchie. Per resistere alla forza delle masse dominate, storicamente le oligarchie si sacralizzarono, presentandosi come espressione di un ordine sociale voluto dal Cielo. La gerarchia ecclesiale è manifestazione di un’oligarchia sacralizzata. Storicamente non se ne hanno testimonianze affidabili prima del Secondo secolo, dunque non risale certamente al Fondatore, il quale né nella sua vita terrena né nelle sue manifestazioni da Risorto la organizzò. Quando gli venne chiesto qualcosa in merito, in particolare perché stabilisse chi sarebbe stato il più grande nel suo Regno, argomento tipicamente connesso alla presenza di una gerarchia, sappiamo bene come rispose:

 

 Intanto arrivarono a Cafàrnao. Quando Gesù fu in casa domandò ai discepoli: «Di che cosa stavate discutendo per strada?». 
  Ma essi non rispondevano. Per strada infatti avevano discusso tra di loro chi fosse il più grande. 

  Allora Gesù, sedutosi, chiamò i dodici discepoli e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, deve essere l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 

  Poi prese un bambino, e lo portò in mezzo a loro, lo tenne in braccio e disse: «Chi accoglie uno di questi bambini per amor mio accoglie me. E chi accoglie me accoglie anche il Padre che mi ha mandato».

[Mc 18, 33-37 - versione italiana TILC]

 

  L’istituzione di una gerarchia ecclesiale, e in particolare di una gerarchia clericalizzata, trova argomento nella tradizione storica, e, in particolare, per i cattolici ed altre confessioni cristiane, di quella sua parte che viene considerata come Tradizione avendo a che fare con i fondamenti nella fede.

  Tra i cattolici, poi, dal Seicento l’ordinamento gerarchico sacralizzato è stato molto concentrato intorno al Papato romano, e lo è tuttora, pur con limitati temperamenti che si è riusciti a realizzare in applicazione dei principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2º. Tra i cattolici, insomma, vi è un modo particolare di essere cristiani, nel senso di essere con il Papa regnante. In questa prospettiva il potere ministeriale del Papa romano è propriamente un regno, vale a dire quello di un sovrano assoluto che però governa anche sulle coscienze delle persone. I processi democratici avanzati che hanno caratterizzato le società organizzate su modello occidentale dal secondo dopoguerra ne hanno progressivamente emancipato le persone di fede che non vivono la religione inquadrate nella gerarchia del clero o in quelle degli ordini religiosi. Vale a dire che è quasi scomparso lo stigma sociale verso i dissenzienti, che fino agli anni Sessanta fu ancora piuttosto avvertibile. Ma, in base alle analisi sociologiche recenti, non può essere confermata l’idea che ciò si sia accompagnato ad un corrispondente distacco dall’affidamento nel soprannaturale secondo le concezioni cristiane. Vi è stata senz’altro una desacralizzazione sociale della gerarchia e delle sue decisioni, nel senso che non vengono ritenute, acriticamente, espressione di un ordinamento divino. La gente di fede, quindi, ha iniziato a vivere una teologia diversa da quella normativa predicata dalla gerarchia e questo è stato senz’altro espressione di una liberazione sociale della moltitudine dei credenti. La gerarchia ecclesiale, però, riconosce solo la propria, fondamentalmente ancora molto legata al metodo detto neoscolastico, che fa della fede unsistema di definizioni (è stato osservato che ciò fu alla base della triste imposizione ai teologi cattolici di un catechismo, nel 1992, concepito come legge della fede come in papa Pio 10°, non solo come ausilio nella formazione religiosa di base), e quindi ciclicamente sconfessa i fedeli, ma, d’altra parte, nel confronto con la modernità, è costretta, da almeno due secoli, a seguirne gli orientamenti, ad esempio nella considerazione della democrazia sociale. Questa credo sia la ragione fondamentale di ciò che viene indicato come crisi del clero e dei religiosi, per cui, almeno in Occidente, sempre meno persone accettano di assoggettarsi organicamente alla gerarchia ecclesiale. L’abbandono delle pratiche liturgiche formalizzate ne è un altro indicatore. Perché ci si dovrebbe andare a riunire intorno ad un potere che non ha più nulla da dire di veramente rilevante?

  Per il pesante centralismo gerarchico della nostra Chiesa, si poteva uscire da questa situazione solo con una decisione di un Papa regnante, che è venuta. Essa però, da sola, non poteva bastare, per la scontata resistenza della gerarchia ecclesiale, che attualmente ha il quasi completo dominio delle nostre comunità di fede e, questo è molto importante, di tutti i beni materiali che ne consentono l’effettività, al di fuori della cittadella vaticana e degli altri complessi romani controllati dal Papato in base al Trattato Lateranense. Occorreva istituire un metodo che consentisse di introdurre una reale partecipazione di tutta la gente di fede, in condizioni di libertà e di pari dignità. Il 2018 è stato l’anno cruciale, con la  pubblicazione, all’esito di tre anni di lavoro, del documento della Commissione teologica internazionale “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa” [marzo 2018] e  del nuovo statuto del Sinodo dei vescovi [Costituzione apostolica La comunione episcopale, del settembre 2018], che prevede la partecipazione strutturata delle persone laiche alla procedura preparatoria. A ciò si è accompagnata, in Italia, l’esortazione del Papa alla CEI e alle organizzazioni ecclesiali, rivolta nel corso del convegno ecclesiale del 2015 a Firenze, a intraprendere un Sinodo nazionale, che è attività molto diversa da quella del Sinodo dei vescovi, e, che, in particolare, consente più  ampi margini di auto-organizzazione. Questa esortazione è stata disattesa fino al marzo di quest’anno, dopo il duro rimprovero per l’inerzia formulato dal Papa nel discorso rivolto, il 30 gennaio 2021, ai

partecipanti  ad un incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale della CEI:

 

  Come nel dopo-Concilio la Chiesa italiana è stata pronta e capace nell’accogliere i segni e la sensibilità dei tempi, così anche oggi è chiamata ad offrire una catechesi rinnovata, che ispiri ogni ambito della pastorale: carità, liturgia, famiglia, cultura, vita sociale, economia... Dalla radice della Parola di Dio, attraverso il tronco della sapienza pastorale, fioriscono approcci fruttuosi ai vari aspetti della vita. La catechesi è così un’avventura straordinaria: come “avanguardia della Chiesa” ha il compito di leggere i segni dei tempi e di accogliere le sfide presenti e future. Non dobbiamo aver paura di parlare il linguaggio delle donne e degli uomini di oggi. Di parlare il linguaggio fuori dalla Chiesa, sì, di questo dobbiamo avere paura. Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio della gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano, le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non abbiamo paura. Non dobbiamo aver paura di elaborare strumenti nuovi: negli anni settanta il Catechismo della Chiesa Italiana fu originale e apprezzato; anche i tempi attuali richiedono intelligenza e coraggio per elaborare strumenti aggiornati, che trasmettano all’uomo d’oggi la ricchezza e la gioia del kerygma, e la ricchezza e la gioia dell’appartenenza alla Chiesa.

  Terzo punto: catechesi e comunità. In questo anno contrassegnato dall’isolamento e dal senso di solitudine causati dalla pandemia, più volte si è riflettuto sul senso di appartenenza che sta alla base di una comunità. Il virus ha scavato nel tessuto vivo dei nostri territori, soprattutto esistenziali, alimentando timori, sospetti, sfiducia e incertezza. Ha messo in scacco prassi e abitudini consolidate e così ci provoca a ripensare il nostro essere comunità. Abbiamo capito, infatti, che non possiamo fare da soli e che l’unica via per uscire meglio dalle crisi è uscirne insieme – nessuno si salva da solo, uscirne insieme –, riabbracciando con più convinzione la comunità in cui viviamo. Perché la comunità non è un agglomerato di singoli, ma la famiglia in cui integrarsi, il luogo dove prendersi cura gli uni degli altri, i giovani degli anziani e gli anziani dei giovani, noi di oggi di chi verrà domani. Solo ritrovando il senso di comunità, ciascuno potrà trovare in pienezza la propria dignità.

 La catechesi e l’annuncio non possono che porre al centro questa dimensione comunitaria. Non è il momento per strategie elitarie. La grande comunità: qual è la grande comunità? Il santo popolo fedele di Dio. Non si può andare avanti fuori del santo popolo fedele di Dio, il quale – come dice il Concilio – è infallibile in credendo. Sempre con il santo popolo di Dio. Invece, cercare appartenenze elitarie ti allontana dal popolo di Dio, forse con formule sofisticate, ma tu perdi quell’appartenenza alla Chiesa che è il santo popolo fedele di Dio.

  Questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo di comunità che dialoghino senza paura con chi ha idee diverse. È il tempo di comunità che, come il Buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione. Non dimenticatevi questa parola: compassione. Quante volte, nel Vangelo, di Gesù si dice: “Ed ebbe compassione”, “ne ebbe compassione”. Come ho detto al Convegno ecclesiale di Firenze, desidero una Chiesa «sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. […] Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza». Quanto riferivo allora all’umanesimo cristiano vale anche per la catechesi: essa «afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria, l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura» (Discorso al 55º Convegno nazionale della Chiesa Italia, Firenze, 10 novembre 2015).

  Ho menzionato il Convegno di Firenze. Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno  di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare.

 

   Il Papa ha stabilito metodi nuovi e ha concepito questo come parte di un processo di riforma che prevede come elemento essenziale la partecipazione libera di tutti i fedeli.

  Da diversi decenni è proprio la libertà da catene gerarchiche il connotato fondamentale di quei fedeli cristiani che ancora si vuole indicare come laici, vale a dire parti del Popolo di Dio. Si tratta di un primo importante riconoscimento del ruolo che essi hanno conquistato in particolare nella costruzione delle democrazie avanzate, che inglobano anche la pace nelle loro ideologie, oltre che libertà, uguaglianza in dignità e solidarietà sociale. In questo lavoro le persone laiche hanno esercitato ed esercitano un importante e reale Magistero su valori, che la nostra gerarchia sta attualmente condividendo, partendo da posizioni che storicamente furono assai critiche, fino all’accusa di eresia rivolta ai democratici cristiani europei all’inizio del Novecento.

  Dobbiamo chiederci però se in Italia le persone laiche siano realmente nelle condizioni culturali necessarie per partecipare ai processi sinodali che si sono attivati, dopo decenni nei quali venne loro presentata come virtuosa la scelta di tacere per non manifestare divisioni, che tuttavia rimanevano, irrisolte.

  E qui, credo, sta un importante campo di azione nel quale il MEIC – Movimento culturale di impegno culturale, organizzazione che fu interna all’Azione Cattolica e che ora rimane ad essa fortemente coordinata, pur nell’attuale statuto di autonomia, può manifestarsi di grande utilità.  Credo che si debba mettere in secondo piano il ruolo di conferenzieri consulenti ad uso prevalentemente della gerarchia,  per assumere invece un ruolo di guida, a livello locale e in cooperazione con altre istituzioni di caratteristiche analoghe, del processo di  liberazione nella nostra Chiesa non solo dei cosiddetti laici, ma di tutti, in modo, in particolare, che l’effettività della partecipazione secondo il metodo sinodale, che, come detto dal prof. D’Andrea  nell’incontro organizzato dal MEIC Lazio lo scorso 10 dicembre, significa democrazia più esigente e completa nel campo dei valori, consenta l’attivazione del processo di riforma richiesto dai tempi che viviamo. Vincendo per questa via le resistenze irragionevoli che la gerarchia ecclesiale, fisiologicamente conservatrice per ciò che s’è detto, certamente eserciterà, ed anzi sta già esercitando.

  È necessario scendere in campo con una certa autonomia, senza attendere di essere arruolati dall’episcopato con assegnazione di temi da sviluppare. In particolare, chi ha competenza professionale nel campo delle discipline giuridiche, dovrebbe aiutare la gente ad organizzare concretamente, redigendo statuti e manuali pratici, e a  condurre a termine il metodo sinodale, per produrre decisioni in ambito locale, fondamentalmente sull’esempio delle comunità di base.  Queste ultime furono apprezzate in un documento importante come l’esortazione apostolica Dell’annunzio del vangelo, diffuso nel 1975 dal papa Paolo 6º, definendone anche le condizioni,  ritengo ancora attuali, di validità:

 

LE COMUNITÀ ECCLESIALI DI BASE

58. Il recente Sinodo si è molto occupato di queste piccole comunità o «comunità di base», perché nella Chiesa d'oggi sono spesso menzionate. Che cosa sono e per quale motivo queste sarebbero destinatarie speciali di evangelizzazione e, nello stesso tempo, evangelizzatrici? 

  Fiorendo un po' dappertutto nella Chiesa, secondo le differenti testimonianze sentite al Sinodo, esse differiscono molto fra di loro, in seno alla stessa regione e, più ancora, da una regione all'altra. 

In alcune regioni sorgono e si sviluppano, salvo eccezioni, all'interno della Chiesa, solidali con la sua vita, nutrite del suo insegnamento, unite ai suoi pastori. In questo caso, nascono dal bisogno di vivere ancora più intensamente la vita della Chiesa; oppure dal desiderio e dalla ricerca di una dimensione più umana, che comunità ecclesiali più vaste possono difficilmente offrire, soprattutto nelle metropoli urbane contemporanee che favoriscono la vita di massa e insieme l'anonimato. Esse possono soltanto prolungare, a modo loro, a livello spirituale e religioso - culto, approfondimento della fede, carità fraterna, preghiera, comunione con i Pastori - la piccola comunità sociologica, villaggio o simili. 

  Oppure esse vogliono riunire per l'ascolto e la meditazione della Parola, per i Sacramenti e il vincolo dell'Agape, gruppi che l'età, la cultura, lo stato civile o la situazione sociale rendono omogenei, coppie, giovani, professionisti, eccetera; persone che la vita trova già riunite nella lotta per la giustizia, per l'aiuto fraterno ai poveri, per la promozione umana. Oppure, infine, esse radunano i cristiani là dove la penuria dei sacerdoti non favorisce la vita normale di una comunità parrocchiale. Tutto questo è supposto all'interno delle comunità costituite della Chiesa, soprattutto delle Chiese particolari e delle parrocchie. 

  In altre regioni, al contrario, comunità di base si radunano in uno spirito di critica acerba nei confronti della Chiesa, che esse stimmatizzano volentieri come «istituzionale» e alla quale si oppongono come comunità carismatiche, libere da strutture, ispirate soltanto al Vangelo. 

  Esse hanno dunque come caratteristica un evidente atteggiamento di biasimo e di rifiuto nei riguardi delle espressioni della Chiesa: la sua gerarchia, i suoi segni. Contestano radicalmente questa Chiesa. In tale linea, la loro ispirazione diviene molto presto ideologica, ed è raro che non diventino quindi preda di una opzione politica, di una corrente, quindi di un sistema, anzi di un partito, con tutto il rischio, che ciò comporta, di esserne strumentalizzate. 

  La differenza è già notevole: le comunità che per il loro spirito di contestazione si tagliano fuori dalla Chiesa, di cui d'altronde danneggiano l'unità, possono sì intitolarsi «comunità di base», ma è questa una designazione strettamente sociologica. Esse non potrebbero chiamarsi, senza abuso di linguaggio, comunità ecclesiali di base, anche se, rimanendo ostili alla Gerarchia, hanno la pretesa di perseverare nell'unità della Chiesa. Questa qualifica appartiene alle altre, a quelle che si radunano nella Chiesa per far crescere la Chiesa. 

  Queste ultime comunità saranno un luogo di evangelizzazione, a beneficio delle comunità più vaste, specialmente delle Chiese particolari, e saranno una speranza per la Chiesa universale, come abbiamo detto al termine del menzionato Sinodo, nella misura in cui: 
- cercano il loro alimento nella Parola di Dio e non si lasciano imprigionare dalla polarizzazione politica o dalle ideologie di moda, pronte sempre a sfruttare il loro immenso potenziale umano; 
- evitano la tentazione sempre minacciosa della contestazione sistematica e dello spirito ipercritico, col pretesto di autenticità e di spirito di collaborazione;

per esempio- restano fermamente attaccate alla Chiesa particolare, nella quale si inseriscono, e alla Chiesa universale, evitando così il pericolo - purtroppo reale! - di isolarsi in se stesse, di credersi poi l'unica autentica Chiesa di Cristo, e quindi di anatematizzare le altre comunità ecclesiali;

 - conservano una sincera comunione con i Pastori che e col Magistero, che lo Spirito del Cristo ha loro affidato; 
- non si considerano giammai come l'unico destinatario o l'unico artefice di evangelizzazione - anche l'unico depositario del Vangelo! -; ma, consapevoli che la Chiesa è molto più vasta e diversificata, accettano che questa Chiesa si incarni anche in modi diversi da quelli, che avvengono in esse; 

- crescono ogni giorno in consapevolezza, zelo, impegno, ed irradiazione missionari; 

- si mostrano in tutto universalistiche e non mai settarie.

  Alle suddette condizioni, certamente esigenti ma esaltanti, le comunità ecclesiali di base corrisponderanno alla loro fondamentale vocazione: ascoltatrici del Vangelo, che è ad esse annunziato, e destinatarie privilegiate dell'evangelizzazione, diverranno senza indugio annunciatrici del Vangelo.

 

  Nel discorso del Papa del gennaio di quest’anno all’Ufficio catechistico nazionale ho colto l’esplicito apprezzamento del  processo di rinnovamento della catechesi animato dai cattolici italiani negli scorsi anni Settanta, del quale l’esortazione apostolica citata fu un elemento centrale. Un’epoca difficile per l’Italia ma così viva nella nostra Chiesa, tanto diversa da ciò che c’è ora negli ambienti ecclesiali, che mi appaiono in genere invecchiati e demotivati, frustrati dal lungo inverno dal quale solo ora sembra di poter uscire.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.  

  

  

 

 

 

 

 

martedì 28 dicembre 2021

Gradualità

 




 

Per informarsi sul WEB sui cammini sinodali

 

Sito del Sinodo 2021-2023 (generale)

https://www.synod.va/it.html

Siti del cammino sinodale delle Chiese italiane

https://camminosinodale.chiesacattolica.it/

https://www.chiesacattolica.it/cammino-sinodale-delle-chiese-che-sono-in-italia-i-testi-approvati-dal-consiglio-permanente/

 

Gradualità

 

   Quanto ai processi sinodali avviati lo scorso ottobre se ne parla come di una riforma incipiente, di carattere sperimentale. Si vorrebbe iniziare a cambiare strada facendo, per poi trarre le prime conclusioni dopo qualche anno, in base  a quello che sarà successo. Esse però non chiuderanno il movimento, ne saranno solo un’altra tappa. Questa la profonda diversità da ciò che si è fatto in altre epoche storiche, in particolare da quelle  nelle quali il cambiamento è stato disposto nel corso di un concilio.

  Nei documenti statutari dei processi di riforma si è mantenuta una certa ambiguità di prospettive, per la quale chi pensa a ciò che si va facendo come ad una specie di sondaggio della gente può avere argomenti. Ma se consideriamo come  questa sinodalità  ci viene proposta dal  Papa, il quale le ha dato avvio, si comprende bene che è molto di più.

  Cominciamo con il dire che, proprio alla base, dove tutto si vuol far cominciare, vi sono notevoli spazi di auto-organizzazione: questo è già la realizzazione pratica  di una riforma. Si vuole che si parli liberamente, senza doversi adeguare ad una specie di copione da mettere in scena. Questo metodo in genere non viene mai seguito in ambito ecclesiale, salvo che in movimenti come la nostra Azione Cattolica che, dagli scorsi anni Sessanta, ne fa un proprio tratto caratterizzante.

  L’effettiva realizzazione di questa forma di libertà richiede una organizzazione di tipo francamente democratico, nella quale, quindi, appunto, vi sia libertà di parola, con l’obbligo però di argomentare e di discutere con le altre persone i ragionamenti proposti. Il presupposto è il riconoscimento della pari dignità delle persone dialoganti. Essa si basa, ci dicono i teologi, sulla comune dignità battesimale. È chiaro però che fino ad epoca recente quest’ultima non comportò la libertà di parola nella Chiesa. E ciò perché si riteneva che la Chiesa, mediante la propria gerarchia, organizzata intorno al clero, alla teologia ufficiale e agli ordini religiosi, avesse la prerogativa di definire e proclamare la verità, vale a dire ciò che si deve pensare e dire se si vuole essere riconosciuti come cristiani, e che quindi il resto dei persuasi in Cristo non avesse null’altro da fare che mettere in pratica e diffondere. Ora invece si chiede loro di esprimersi, e di farlo con libertà, e addirittura audacia, senza temere di essere accusati di fare confusione, senza l’obbligo di limitarsi a ripetere, e da questa esperienza si vorrebbero trarre argomenti per poi progettare il cambiamento.

  Quando si insegna la democrazia si parte, come in genere fanno le persone colte, dal chiarire l’etimologia della parola, la quale, come molte altre delle culture europee, viene dal greco antico, e comprende due altre parole di quella lingua che significano popolo e potere, entrambe con un connotato politico, nel senso che riguardano il governo della società. Si afferma quindi che democrazia sarebbe il potere del popolo.

  Ora, bisogna capire che quando ai tempi nostri, in Occidente, si parla di democrazia non si vuole intendere primariamente un sistema di potere, ma un sistema di valori. Un valore è un orientamento preminente e stabile  di una persona o di un gruppo di persone nel senso che li caratterizza e si vorrebbe sottratto alla variabilità contingente delle opzioni, regolate in base alle opportunità, alla convenienza, ed anche gli equilibri sociali del momento.

 Nella democrazia come oggi la si intende il valore fondamentale non è il potere del popolo, ma il fatto che in società ogni potere sia limitato, compreso quello stesso  del popolo. Gli altri valori non sono che specificazioni di questa idea base. Nella costruzione del governo democratico segue la definizione di procedure  per adottare validamente decisioni che vengano riconosciute come proprie della collettività di riferimento. Anche la procedura è un sistema di limiti, formali questa volta, o, altrimenti detto, rituali. In questo quadro emerge il principio secondo il quale la decisione collettiva attuata secondo procedure democratiche, che viene per questo definita deliberazione del gruppo di riferimento, deve riscuotere un consenso maggioritario. Questa regola limita il potere delle oligarchie sociali, ad esempio quello di potenti minoranze  basato sulla disponibilità giuridica di maggiori mezzi economici, e, in particolare, del potere di decisione nelle aziende. Ma, e questo è molto importante, i valori sono sottratti al potere di deliberazione delle maggioranze, in quanto principi di sistema. Un sistema di governo, e in questo senso politico, non può dirsi democratico se non pone limiti anche al dispotismo delle maggioranze, vale a dire ad un potere politico che pretenda, sulla base della sola forza delle masse, di disporre arbitrariamente dei valori. Per questo, ad esempio, secondo il nostro sistema costituzionale, che è espressione del costituzionalismo europeo contemporaneo, una larghissima maggioranza della popolazione non può imporre a minoranze anche molto ristrette costumi religiosi di qualunque tipo. Per questo vi sono norme specifiche che, su basi costituzionali, prevedono la libertà religiosa anche di gruppi molto piccoli e, addirittura, della singola persona, senza che possano validamente essere rovesciate da una qualche maggioranza politica.

  Il fondamento della democrazia politica come oggi la si intende, che si basa su un sistema di valori non disponibile da parte delle maggioranze, non è in genere compreso dal Magistero cattolico, che quindi è portato a diffamare la democrazia contemporanea solo come un sistema di procedure che rendono, considerando solo la  conta dei voti, i valori disponibili arbitrariamente da parte di maggioranze e a preferirle l’oligarchia gerarchica. Tuttavia può essere facilmente dimostrato ricordando realisticamente la nostra storia che i valori non sono stati assolutamente al sicuro nelle mani di quel tipo di oligarchia, e, in particolare, quelli evangelici. Le efferate e vaste brutalità riferibili alla politica della gerarchia ecclesiale furono storicamente determinate dalla volontà di annientare ogni dissenso, diffamandolo come eresia, quindi come colpevole lacerazione del Corpo, a prescindere da questioni di valori evangelici, in particolare anticipando arbitrariamente, contro il comando evangelico, la resa dei conti con ciò che veniva considerato zizzania sociale.

  Una conseguenza del principio democratico del limite ad ogni potere sociale è il principio di gradualitá dei processi di riforma sociale, che significa sforzarsi di estenderne il consenso nella base sociale non facendone solo oggetto di imposizione dall’alto, in particolare prevedendo fasi di sperimentazione che ne consentano una messa a punto secondo le particolarità delle società di riferimento.

  Ma, si potrebbe obiettare, se si è individuata una soluzione organizzativa valida, perché si dovrebbe tener conto delle resistenze sociali, trattenendosi dal sovrastarle con la forza? In altri termini, se si è definita una verità, perché non imporla ai renitenti? In effetti, fino ad epoca recente, nella nostra Chiesa si è agito appunto di forza, stabilendo l’obbligo di adeguarsi a ciò che veniva disposto che fosse creduto. In questa prospettiva, come ho osservato, verità era intesa come ciò che doveva essere creduto per essere riconosciuti come parte della Chiesa, in particolare come una certa definizione nominalistica della fede formulata dalla gerarchia. Sotto questo profilo nella nostra Chiesa ha imperato, e per certi versi tuttora impera, una tirannia della gerarchia. Ma i processi sinodali che si sono da poco aperti non riguardano questioni di definizione, ma vogliono sperimentare un nuovo sistema di relazioni ed è per questo che non sono stati principalmente arruolati dei teologi per guidarli e invece vi è stata applicata tutta la gente di fede, vale a dire, quindi, quella che affida al Cristo la propria vita. La gradualità di quei processi è connaturata a questo metodo, per il quale la sinodalitá ecclesiale prima che definita va scoperta.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli