Intervento del Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di apertura della 50° edizione
della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Trieste, 03/07/2024
Rivolgo un saluto di grande cordialità al
Presidente della Conferenza Episcopale, ai Vescovi presenti, al Nunzio
Apostolico; alle autorità di questa splendida parte dell’Italia, il Presidente
della Regione, il Sindaco, gli altri Sindaci presenti; a tutti voi,
ringraziandovi per l’invito e, soprattutto, per quello che fanno le Settimane
Sociali.
Democrazia.
Parola di uso comune, anche nella sua
declinazione come aggettivo.
È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore.
Le dittature del Novecento l’hanno
identificata come un nemico da battere.
Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera.
Insieme una conquista e una speranza che, a
volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a
sostegno di tesi di parte.
Non vi è dibattito in cui non venga invocata a
conforto della posizione propria.
Un tessuto che gli avversari della democrazia
pretenderebbero logoro.
L’interpretazione che si dà di questo ordito
essenziale della nostra vita appare talora strumentale, non assunto in misura
sufficiente come base di rispetto reciproco.
Si è persino giunti ad affermare che siano
opponibili tra loro valori come libertà e democrazia, con quest’ultima
artatamente utilizzabile come limitazione della prima.
Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi
sia, e quale, un’anima della democrazia.
O questa si traduce soltanto in un metodo?
Cosa la ispira?
Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo
delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità?
È un interrogativo che ha accompagnato e
accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa.
Alexis de Tocqueville affermava che una
democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali,
naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno.
Intervenendo a Torino, alla prima edizione
della Biennale della democrazia, nel 2009, il Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, rivolgeva lo sguardo alla costruzione della nostra
democrazia repubblicana, con la acquisizione dei principi che hanno inserito il
nostro Paese, da allora, nel solco del pensiero liberal-democratico
occidentale.
Dopo la “costrizione” ossessiva del regime
fascista soffiava “l’alito della libertà”, con la Costituzione a intelaiatura e
garanzia dei diritti dei cittadini.
L'alito della libertà, anzitutto, come rifiuto
di ogni obbligo di conformismo sociale o politico, come diritto
all’opposizione.
La democrazia, in altri termini, non si
esaurisce nelle sue norme di funzionamento, ferma restando, naturalmente,
l’imprescindibilità della definizione e del rispetto delle “regole del gioco”.
Perché - come ricordava Norberto Bobbio - le
condizioni minime della democrazia sono esigenti: generalità ed eguaglianza del
diritto di voto, la sua libertà, proposte alternative, ruolo insopprimibile
delle assemblee elettive e, infine, non da ultimo, limiti alle decisioni della
maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze e
impedire che queste possano, a loro volta, divenire maggioranza.
È la pratica della democrazia che la rende
viva, concreta, trasparente, capace di coinvolgere.
Quali le ragioni del riferimento all’alito
della libertà parlando di democrazia?
Non è democrazia senza la tutela dei diritti
fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di
diritto e alla democrazia stessa.
Il tema impegnativo che avete posto al centro
della riflessione di questa Settimana sociale interpella quindi, con forza,
tutti.
La democrazia, infatti, si invera ogni giorno
nella vita delle persone e nel mutuo rispetto delle relazioni sociali, in
condizioni storiche mutevoli, senza che questo possa indurre ad atteggiamenti
remissivi circa la sua qualità.
Si può pensare di contentarsi che una
democrazia sia imperfetta?
Di contentarsi di una democrazia a “bassa
intensità”?
Si può pensare di arrendersi,
“pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della
“cosa pubblica”?
Può
esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli
elettori? Per porre mente alla defezione, diserzione, rinuncia intervenuta da
parte dei cittadini in recenti tornate elettorali.
Occorre attenzione per evitare di commettere
l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare.
Occorre, piuttosto, adoperarsi concretamente
affinché ogni cittadino si trovi nelle condizioni di potere, appieno, prender
parte alla vita della Repubblica.
I diritti si inverano attraverso l’esercizio
democratico.
Se questo si attenua, si riduce la garanzia
della loro effettiva vigenza.
Democrazie imperfette vulnerano le libertà:
ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio
“un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la
rappresentatività e la volontà degli elettori.
Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate
ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.
Ci soccorre anche qui Bobbio, quando ammonisce
che non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di
diritti “in nome del dovere di governare”.
Una democrazia “della maggioranza” sarebbe,
per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti
di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà.
Al cuore della democrazia – come qui leggiamo
- vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le
espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà,
delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra
Costituzione.
Questa chiave di volta della democrazia opera
e sostiene la crescita di un Paese, compreso il funzionamento delle sue
Istituzioni, se al di là delle idee e degli interessi molteplici c’è la
percezione di un modo di stare insieme e di un bene comune.
Se non si cede alla ossessiva proclamazione di
quel che contrappone, della rivalsa, della delegittimazione.
Se l’universalità dei diritti non viene
menomata da condizioni di squilibrio, se la solidarietà resta il tessuto
connettivo di una economia sostenibile, se la partecipazione è viva, diffusa,
consapevole del proprio valore e della propria necessità, della propria
essenziale necessità.
Nel cambiamento d’epoca che ci è dato di
vivere avvertiamo tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel
funzionamento delle democrazie.
Oggi constatiamo criticità inedite, che si
aggiungono a problemi più antichi.
La democrazia non è mai conquistata per
sempre.
Anzi, il succedersi delle diverse condizioni
storiche e delle loro mutevoli caratteristiche, ne richiede un attento,
costante inveramento.
Nella complessità delle società contemporanee,
a elementi critici conosciuti, che mettono a rischio la vita degli Stati e
delle comunità, si aggiungono nuovi rischi epocali: quelli ambientali e
climatici, sanitari, finanziari, oltre alle sfide indotte dalla
digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.
Le nostre appaiono sempre più società del
rischio, a fronteggiare il quale si disegnano, talora, soluzioni meramente
tecnocratiche.
È tutt’altro che improprio, allora,
interrogarsi sul futuro della democrazia e sui compiti che le sono affidati,
proprio perché essa non è semplicemente un metodo, bensì costituisce lo “spazio
pubblico” in cui si esprimono le voci protagoniste dei cittadini.
Nel corso del tempo, è stata più volte posta,
malauguratamente, la domanda “a cosa serve la democrazia?”. La risposta è
semplice: a riconoscere – perché preesistono, come indica l’art. 2 della nostra
Costituzione - e a rendere effettive le libertà delle persone e delle comunità.
Karl
Popper ha indicato come le forme di vita democratica realizzino,
essenzialmente, quella “società aperta” che può massimizzare le opportunità di
costituzione di identità sociali destinate a trasferirsi, poi, sul terreno
politico e istituzionale.
La stessa esperienza italiana degli ultimi
trent’anni ne è un esempio.
Nei settantotto anni dalla scelta referendaria
del 1946, libertà di impronta liberale e libertà democratica hanno contribuito,
al “cantiere aperto” della nostra democrazia repubblicana, con la diversità
delle alternative, le realtà di vita e le differenti mobilitazioni che ne sono
derivate.
La libertà di tradizione liberale ci richiama
a un’area intangibile di diritti fondamentali delle persone, e alla
indisponibilità di questi rispetto al contingente succedersi di maggioranze e,
ancor più, a effimeri esercizi di aggregazione di interessi.
La libertà espressa nelle vicende
novecentesche, con l’irruzione della questione sociale, ha messo poi a fuoco la
dinamica delle aspettative e dei bisogni delle identità collettive nella
società in permanente trasformazione.
È questione nota al movimento cattolico, se è
vero che quel giovane e brillante componente dell’Assemblea Costituente, che fu
Giuseppe Dossetti, pose il problema del “vero accesso del popolo e di tutto il
popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a
quello economico e sociale”, con la definizione di “democrazia
sostanziale”.
A
segnare in tal modo il passaggio ai contenuti che sarebbero stati poi
consacrati negli articoli della prima parte della nostra Costituzione. Fra essi
i diritti economico-sociali.
Una riflessione impegnativa con l’ambizione di
mirare al “bene comune” che non è il “bene pubblico” nell’interesse della
maggioranza, ma il bene di tutti e di ciascuno, al tempo stesso; di tutti e di
ciascuno, secondo quanto già la Settimana Sociale del ’45 volle indicare.
Il percorso dei cattolici - con il loro
contributo alla causa della democrazia- non è stato occasionale né data di
recente, eppure va riconosciuto che l’adesione dottrinaria alla democrazia fu
condizionata dalla “questione romana”, con il percorso accidentato della sua
soluzione.
Ma già l’ottava Settimana Sociale, a Milano,
nel 1913, non aveva remore nell’affermare la fedeltà dei cattolici allo Stato e
alla Patria - quest’ultima posta più in alto dello Stato - sollecitando,
contemporaneamente, il diritto di respingere - come venne enunciato - ogni
tentativo di “trasformare la Patria, lo Stato, la sua sovranità, in altrettante
istituzioni ostili… mentre sentiamo di non essere a nessuno secondi
nell’adempimento di quei doveri che all’una e all’altro ci legano”. Una
espressione di matura responsabilità.
Il tema che veniva posto, era fondamentalmente
un tema di libertà - anche religiosa - e questo riguardava tutta la società,
non esclusivamente i rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede.
Ho poc’anzi ricordato la 19^ edizione
della Settimana, a Firenze, nell’ottobre 1945. In quell’occasione, nelle
espressioni di un giurista eminente – poi costituente - Egidio Tosato, troviamo
proposto il tema dell’equilibrio tra i valori di libertà e di democrazia, con
la individuazione di garanzie costituzionali a salvaguardia dei cittadini.
La democrazia come forma di governo non basta
a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: essa può
essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o di utilità
comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce.
Anche
da questo si è fatta strada l’idea di una suprema Corte Costituzionale.
Tosato contestò l’assunto di Rousseau, in base
al quale la volontà generale non poteva trovare limiti di alcun genere nelle
leggi, perché la volontà popolare poteva cambiare qualunque norma o regola.
Lo fece Tosato con parole molto nette: “Noi
sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la
volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si
considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere,
come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un
principe”. Esprimeva un fermo no, quindi, all’assolutismo di Stato, a
un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice.
La coscienza dei limiti è un fattore
imprescindibile per qualunque Istituzione, a partire dalla Presidenza della
Repubblica, per una leale e irrinunziabile vitalità democratica.
Guido
Gonella, personalità di primo piano del movimento cattolico italiano, e poi
statista insigne nella stagione repubblicana, relatore anch’egli alla Settimana
di Firenze del ’45, non ebbe esitazioni nel rinvenire nelle Costituzioni, una
“forma di vita – come disse - più alta e universale”, con la presenza di
elementi costanti, “categorie etiche” le definì, e di elementi variabili,
secondo le “esigenze storiche”, ponendo in guardia dei rischi posti da una
eccessiva rigidezza conservatrice e da una troppo facile flessibilità
demagogica che avrebbe potuto caratterizzarle, con il risultato di poter
passare con indifferenza dall’assolutismo alla demagogia, per ricadere indietro
verso la dittatura.
Su questo si basa la distinzione tra prima e
seconda parte della nostra Costituzione.
Il messaggio fu limpido: sbagliato e rischioso
cedere a sensibilità contingenti, sulla spinta delle tentazioni quotidiane
della contesa politica. Come avviene con la frequente tentazione di inserire
richiami a temi particolari nella prima parte della Costituzione, che del resto
– per effetto della saggezza dei suoi estensori – regola tutti questi aspetti
comunque, in base ai suoi principi e valori di
fondo.
La Costituzione seppe dare un senso e uno
spessore nuovo all’unità del Paese e, per i cattolici, l'adesione ad essa ha
coinciso con un impegno a rafforzare, e mai indebolire, l'unità e la coesione
degli italiani.
Spirito prezioso, come ha ricordato di recente
il Cardinale Zuppi, perché la condivisione intorno ai valori supremi di libertà
e democrazia è il collante irrinunciabile della nostra comunità nazionale.
Pio XII, nel messaggio natalizio del 1944, era
stato ricco di indicazioni importanti e feconde.
Permettetemi di soffermarmi su quel testo per
richiamarne l’indicazione che, al legame tra libertà e democrazia, unisce il
tema della democrazia connesso a quello della pace.
Perché la guerra soffoca, può soffocare, la
democrazia.
L’ordine democratico, ricordava il Papa,
include la unità del genere umano e della famiglia dei popoli. “Da questo
principio – diceva - deriva l’avvenire della pace”. Con l’invocazione
“guerra alla guerra” e l’appello a “bandire una volta per sempre la guerra di
aggressione come soluzione legittima delle controversie internazionali e come
strumento di aspirazioni nazionali”.
Un grido di pace oggi rinnovato da Papa
Francesco.
Non si trattava di un dovuto “irenismo”, di
uno scontato ossequio pacifista della Chiesa di fronte alla tragedia della
Seconda Guerra Mondiale.
Era, piuttosto, una ferma reazione morale che
interpreta la coscienza civile, presente certamente nei credenti – e, comunque,
nella coscienza dei popoli europei - destinata a incrociarsi con le sensibilità
di altre posizioni ideali.
Prova ne è stata la generazione delle
Costituzioni del Secondo dopoguerra, in Italia come in Germania, in Austria, in
Francia.
Per l’Italia gli art. 10 e 11 della nostra
Carta, volti a definire la comunità internazionale per assicurare e pervenire
alla pace.
Sarebbe stato il professor Pergolesi, sempre a
Firenze 1945, ad affermare il diritto del cittadino alla pace, interna ed
esterna, con la proposta di inserimento di questo principio nelle Costituzioni,
dando così vita a una concezione nuova dei rapporti tra gli Stati.
Se in passato la democrazia si è inverata
negli Stati – spesso contrapposti e comunque con rigidi, insormontabili
frontiere - oggi, proprio nel continente che degli Stati è stato la culla, si
avverte l’esigenza di costruire una solida sovranità europea che integri e
conferisca sostanza concreta e non illusoria a quella degli Stati membri. Che
consenta e rafforzi la sovranità del popolo disegnata dalle nostre Costituzioni
ed espressa, a livello delle Istituzioni comunitarie, nel Parlamento Europeo.
Il percorso democratico, avviato in Europa
dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, ha permesso di rafforzare le
Istituzioni dei Paesi membri e di ampliare la protezione dei diritti dei
cittadini, dando vita a quella architrave di pace che è stata prima la Comunità
europea e adesso è l’Unione.
Una più efficace unità europea - più forte ed
efficiente di quanto fin qui siamo stati capaci di realizzare – è oggi
condizione di salvaguardia e di progresso dei nostri ordinamenti di libertà e
di uguaglianza, di solidarietà e di pace.
Tornando alla riflessione sui cardini della
democrazia, va sottolineato che la democrazia comporta il principio di
eguaglianza – poc’anzi richiamato dal Cardinale Zuppi - perché riconosce che le
persone hanno eguale dignità.
La democrazia è strumento di affermazione
degli ideali di libertà.
La democrazia è antidoto alla guerra.
Quando ci chiediamo se la democrazia possiede
un’anima, quando ci chiediamo a cosa serva, troviamo agevolmente risposte
chiare.
Lo sforzo che, anche in questa occasione, vi
apprestate a produrre per la comunità nazionale, richiama le parole con cui il
Cardinale Poletti, nel 1988, alla XXX assemblea generale Conferenza Episcopale,
accompagnò, dopo vent’anni, la ripresa delle Settimane Sociali: “diaconia della
Chiesa italiana al Paese”.
Con il vostro contributo avete arricchito, in
questi quasi centoventi anni dalla prima edizione, il bene comune della Patria
e, di questo, la Repubblica vi è riconoscente.
La nostra democrazia ha messo radici, si è
sviluppata, è divenuta un tratto irrinunciabile dell’identità nazionale -
mentre diveniva anche identità europea - sostenuta da partiti e movimenti, che
avevano raggiunto la democrazia nel corso del loro cammino e su di essa stavano
rifondando la loro azione politica nella nuova fase storica.
Oggi dobbiamo rivolgere lo sguardo e
l’attenzione a quanto avviene attorno a noi, nel mondo sempre più raccolto e
interconnesso.
Accanto al riproporsi di tentazioni
neo-colonialistiche e neo-imperialistiche, nuovi mutamenti geopolitici sono
sospinti anche dai ritmi di crescita di Stati-continente in precedenza meno
sviluppati, da tensioni territoriali, etniche, religiose che, non di rado
sfociano in guerre drammatiche, da andamenti demografici e giganteschi flussi
migratori.
Attraversiamo fenomeni – questi e altri - che
mutano profondamente le condizioni in cui si viveva in precedenza e che è
impossibile illudersi che possano tornare.
Dalla dimensione nazionale dei problemi - e
delle conseguenti sfere decisionali - siamo passati a quella europea e, per
qualche aspetto, a quella globale.
È questa la condizione della quale siamo parte
e nella quale dobbiamo far sì che a prevalere sia il futuro dei cittadini e non
delle sovrastrutture formatesi nel tempo.
All’opposto della cooperazione fra eguali si
presenta il ritorno alle sfere di influenza dei più forti o meglio armati - che
si sta praticando e teorizzando, in sede internazionale, con la guerra,
l’intimidazione, la prevaricazione - e, in altri ambiti, di chi dispone di
forza economica che supera la dimensione e le funzioni degli Stati.
Risalta la visione storica e la sagacia di
Alcide De Gasperi con la scelta di libertà del Patto Atlantico compiuta dalla
Repubblica nel 1949 e con il suo coraggioso apostolato europeo.
Venti anni fa, a Bologna, la 44^ Settimana si poneva il tema dei
nuovi scenari e dei nuovi poteri di fronte ai quali la democrazia si trovava.
È necessario misurarsi con la storia, porsi di
fronte allo stato di salute delle Istituzioni nazionali e sovranazionali e
dell’organizzazione politica della società.
Nuovi steccati sono sempre in agguato a minare
le basi della convivenza sociale: le basi della democrazia non sono né
esclusivamente istituzionali né esclusivamente sociali, interagiscono fra loro.
Cosa ci aiuta? Dare risposte che vedono
diritti politici e sociali dei cittadini e dei popoli concorrere insieme alla
definizione di un futuro comune.
Vogliamo riprendere per un attimo l’Enciclica
“Populorum progressio” di Paolo VI: “essere affrancati dalla miseria,
garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, salute, una
partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione,
al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini, godere di una
maggiore istruzione, in una parola fare conoscere e avere di più per essere di
più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi – diceva -, mentre un gran numero
di essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio questo
legittimo desiderio”.
Vi è qualcuno che potrebbe rifiutarsi di
sottoscrivere queste indicazioni?
Temo di sì, in realtà, anche se nessuno
avrebbe il coraggio di farlo apertamente.
Anche per questo l’esercizio della democrazia,
come si è visto, non si riduce a un semplice aspetto procedurale e non si
consuma neppure soltanto con la irrinunziabile espressione del proprio voto
nelle urne nelle occasioni elettorali. Presuppone lo sforzo di elaborare una
visione del bene comune in cui sapientemente si intreccino – perché tra loro
inscindibili - libertà individuali e aperture sociali, bene della libertà e
bene dell’umanità condivisa. Né si tratta di una questione limitata ad ambiti
statali.
Mons. Adriano Bernareggi, nelle sue
conclusioni della Settimana Sociale del ’45, - l’abbiamo poc’anzi visto nelle
immagini - argomentò, citando Jacques Maritain, che una nuova cristianità si
affacciava in Europa.
L’unità da raggiungere nelle comunità civili
moderne non aveva più un’unica “base spirituale”, bensì un bene comune terreno,
che doveva fondarsi proprio sull’intangibile “dignità della persona umana”.
Questa la consapevolezza che è stata alla base
di una stagione di pace così lunga – che speriamo continui - nel continente
europeo.
Continuava l’allora Vescovo di Bergamo, “la
democrazia non è soltanto governo di popolo, ma governo per il popolo”.
Affrontare il disagio, il deficit democratico
che si rischia, deve partire da qui.
Dal fatto che, in termini ovviamente diversi,
ogni volta si riparte dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza,
da cui trova origine una partecipazione consapevole.
Perché ciascuno sappia di essere protagonista
della storia.
Don Lorenzo Milani esortava a “dare la
parola”, perché “solo la lingua fa eguali”. A essere, cioè, alfabeti
nella società.
La Repubblica ha saputo percorrere molta
strada, ma il compito di far sì che tutti prendano parte alla vita della sua
società e delle sue Istituzioni non si esaurisce mai.
Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla
prova della “alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia.
Prova, oggi, più complessa che mai, nella
società tecnologica contemporanea.
Ebbene, battersi affinché non vi possano
essere più “analfabeti di democrazia” è causa primaria e nobile, che ci
riguarda tutti. Non soltanto chi riveste responsabilità o eserciti potere.
Per definizione, democrazia è esercizio dal
basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme.
Vi auguro, mi auguro, che si sia numerosi a
ritrovarsi in questo cammino.