INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Questo blog è un'iniziativa di laici aderenti all'Azione Cattolica della parrocchia di San Clemente papa e manifesta idee ed opinioni espresse sotto la personale responsabilità di chi scrive. Esso non è un organo informativo della parrocchia né dell'Azione Cattolica e, in particolare, non è espressione delle opinioni del parroco e dei sacerdoti suoi collaboratori, anche se i laici di Azione Cattolica che lo animano le tengono in grande considerazione.

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

SUL SITO www.bibbiaedu.it POSSONO ESSERE CONSULTATI LE TRADUZIONI IN ITALIANO DELLA BIBBIA CEI2008, CEI1974, INTERCONFESSIONALE IN LINGUA CORRENTE, E I TESTI BIBLICI IN GRECO ANTICO ED EBRAICO ANTICO. CON UNA FUNZIONALITA’ DEL SITO POSSONO ESSERE MESSI A CONFRONTO I VARI TESTI.

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mercoledì 30 marzo 2022

Storia bizzarra

 

Storia bizzarra

 

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[da: Norbert Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino 1979]

 

 La storia umana è troppo complicata perché il suo disegno possa essere abbracciato con una immagine; oppure è tanto complicata che non potendo esporla in concetti dobbiamo accontentarci di immagini approssimative (ma in questo caso dobbiamo essere ben consapevoli della differenza che passa tra un’immagine e un concetto).

[…]

 l’abbandono di una via bloccata (ed obbligata) della storia è una necessità (naturale)  o un compito (umano)? O, in altre parole, noi non proseguiamo perché il proseguire è impossibile, oppure perché è moralmente condannevole o economicamente  disutile, o comunque inopportuno, e quindi non è impossibile, ma indesiderabile? Come vedremo, questa domanda è importante per distinguere atteggiamenti diversi di fronte alla guerra. Per ora basti notare che di fronte alle vie bloccate della storia sono possibili due atteggiamenti diversi: l’esaurimento di una istituzione può essere oggetto di una mera constatazione (o, che è lo stesso, di una previsione, se l’esaurimento è soltanto in corso), oppure di un progetto, cioè di un programma di lavoro che si ispira a certe valutazioni dei fini, dei mezzi, dei rapporti tra mezzi e fini.

 

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 Che cosa è la guerra? E’ l’organizzazione politica di una violenza collettiva per distruggere beni e vite di un’organizzazione considerata nemica fino alla sua resa, o allo sterminio totale se la stessa esistenza in vita di chi la esprime viene considerata intollerabile (nella Bibbia si narra di ordini divini di sterminio).

  Spesso tuttavia si paragonano le stati e altre organizzazioni che si fanno guerra alle aggressioni tra le persone: tuttavia questa è un’immagine approssimativa, e in fondo insoddisfacente. La differenza la fa la politica. Nella violenza tra persone ognuno mantiene la libertà di decidere se proseguire o non: questa non  è guerra. Guerra è quando si deve  combattere e non si ha scelta. La guerra viene sempre  ordinata.

  Così una persona può essere individualmente incline alla violenza, ma manifestarsi contraria alla guerra in generale, o  a una qualche guerra particolare. Nella violenza tra le persone non  è implicata la politica, quindi il governo della società in cui si è immersi, come invece lo è sempre  nella guerra. Alla guerra ordinata dai capi politici di uno stato o di un’altra organizzazione ai quali si è soggetti non ci si può sottrarre. Nella nostra Costituzione ciò viene espresso con le parole dell’art.51, 1° comma: «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Il secondo comma ordina l’obbligatorietà  del servizio militari, sia pure nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. Questo va tenuto presente nello scagliarsi contro i soldati degli eserciti nemici: si tratta di persona che, come noi, non hanno avuto scelta.

  Quando in quell’articolo della Costituzione si parla di sacro, non si fa riferimento alla religione: si vuole intendere che a quel dovere di fare la guerra quando è ordinato non è ammesso sottrarsi per decisione personale, per nessun motivo. Nell’Occidente europeo avanzato, però, leggi prevedono il diritto all’obiezione di coscienza: allora una decisione personale di non partecipare alla guerra in armi viene riconosciuto, a certe condizioni (non esclusivamente pe scelta personale), ma, comunque, in genere alla guerra si deve  partecipare, anche se non usando armi. Storicamente ha fatto eccezione la Gran Bretagna, nella quale in genere non vi fu la leva obbligatoria e ci si arruolò volontariamente, spesso spinti da una fortissima pressione sociale in quel senso. Una volta arruolati in armi, però, si perde la facoltà di decidere: si fa come viene ordinato.

  Così è accaduto nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina. Nella prima  è stato ordinato di invadere e nella seconda di resistere all’invasione: in entrambi i casi, che si invada o ci si difenda, lo si fa aggredendo il nemico e cercando di distruggerlo.

 Ci sono trattati internazionali in materia di guerra che cercano di limitarne le efferatezza, ma l’esperienza insegna che spesso sono violati.

  La guerra è sempre decisa  e la si combatte obbedendo. E questo anche se ci si arruola volontari. Ci si arruola per obbedire, perché è così che si fa la guerra e non c’è un modo diverso di farla.

 Si dice che la prima vittima della guerra è la verità, ma non sono d’accordo: la prima vittima della guerra è la libertà. Da essa deriva anche la perdita della libertà. Scrisse la filosofa Simone Weil che in guerra si diventa schiavi della forza. Si è come trascinati dagli eventi.

  E tuttavia la guerra, in quanto evento politico, non è mai del tutto necessitata: in una certa misura rimane sempre influenzabile dalle dinamiche sociali, e quindi prevenibile.

  Si pensava che una guerra tra l’Europa occidentale e la Russia fosse divenuta impossibile, in quanto avrebbe comportato l’uso delle armi nucleari e quindi l’effetto MAD (in inglese significa pazzo, ma è anche l’acronimo dell’espressione Mutual Assicured Destruction, in italiano reciproco assicurato annientamento, nessun vincitore possibile dunque). Come constatiamo in questi giorni, quel tipo di guerra non è per nulla impossibile, fondamentalmente perché i belligeranti si sono costruiti una illusoria fiducia di poterla controllare. Ma, appunto, è proprio questo che è impossibile nel caso della guerra, come la storia dimostra: una guerra non è mai  controllabile, risolvendosi in una esplosione incontrollata di violenza. Questa illusione di controllo viene comunemente chiamata realismo, che è l’atteggiamento che più favorisce la guerra. Per realismo  ci si arma, e per realismo  si decide di invadere e di resistere combattendo in armi, e questo anche se astrattamente consapevoli dell’effetto MAD. Resistere  in quel modo  è virtuoso si dice. Ma anche se ciò porta al proprio annientamento? Di fatto, difficile non resistere in armi a chi aggredisce in armi in una guerra. Soprattutto quando si dispone di armi tremende, in virtù delle quali si confida di poter respingere l’aggressione.

 Ma il corso della storia, anche quello delle guerre, è dunque qualcosa che ci sovrasta, per cui noi si è come pupazzi a recitare in una specie di teatro una storia che noi non abbiamo scritto? In altre parole, è possibile progettare la pace?

  La storia dell’Europa occidentale tra il 1945 e quest’anno, dimostra che sicuramente è possibile. Lo abbiamo fatto e potremmo rifarlo, e, aggiungo, avremmo potuto farlo anche in questa occasione.

  E’ che la minaccia della guerra ci ha colti in un momento particolare, in cui avevamo mente solo per noi stessi, per la faccenda della pandemia di Covid 19. L’Ucraina è uno stato extracomunitario, nei confronti del quale, fino ad un mese fa, ci barricavamo nei nostri confini. Nessuno tra gli stati dell’Europa Occidentale, e tanto meno l’Unione Europea, ha tentato di intromettersi prima che fosse troppo tardi. Gli eventi sono rimasti nelle mani della Russia, dell’Ucraina e di una superpotenza extraeuropea estremamente bellicosa, gli Stati Uniti d’America. Quest’ultima e la Federazione Russa sono a un passo di una guerra catastrofica, che certamente trascinerebbe anche noi dell’Unione Europea. Come andrebbe a finire quella guerra lo sappiamo: MAD. E allora com’è che da noi i mezzi di comunicazione di massa ci spingono all’intervento e in Russia spingono a sostenere l’invasione? Come sarebbe nel giro di pochi giorni lo dimostra l’Ucraina di oggi: quello saremmo noi, ma, appunto, non nel giro di un mese, ma di pochi giorni, o addirittura ore, perché così funziona la guerra con l’impiego delle armi nucleari.

 Il Papa ha certamente visto giusto quando ci ha dato dei pazzi.

  C’è però una differenza rispetto ad altre epoche. L’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America, l’Ucraina e la Federazione Russa, sì anch’essa stando alla sua Costituzione, sono sistemi democratici, dove la politica, in certa misura può essere influenzata dalle masse, quelle che hanno più da perdere dall’estendersi della guerra. I soldati non hanno scelta: devono combattere perché così è stato loro ordinato; ammazzare o essere ammazzati, dal nemico o dalla giustizia del proprio stato. Ma ai cittadini, nell’esercizio della politica democratica,  è rimessa in definitiva la scelta ultima tra guerra e pace: in democrazia è una responsabilità comune, condivisa. Lo insegnò Lorenzo Milani. Qualcosa si può dunque ancora fare. Solo che ci si lasci interrogare dalla coscienza. E non ci si lasci suggestionare da immagini approssimative che paragonano la guerra alla violenza tra individui.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

 

 

 

martedì 29 marzo 2022

Tolleranza o dialogo?


Tolleranza o dialogo?


   Da poco è stato pubblicato da Editrice Vaticana il libro di Adrien Candiard Tolleranza? Meglio il dialogo. Il titolo riassume la tesi svolta dal l'autore. In particolare egli ritiene che il dialogo sia meglio  della tolleranza perché lascia sopravvivere le differenze. Si richiama in questo ad un'idea di Papa Francesco, che ha corollari virtuosi ed altri meno. Secondo questi ultimi il dialogo è ammesso solo se lascia più o meno integre le differenze.
  Ora, se osserviamo le dinamiche sociali, possiamo renderci conto facilmente che sempre quando le differenze convivono senza scontrarsi si attenuano. La convivenza pacifica tra diversi realizza sempre, in tempi o meno lunghi, un risultato di questo tipo, mentre nello scontro le differenze vengono accentuate anche a scopo simbolico, per farne una bandiera dei gruppi contrapposti e per costruirci sopra mitologie belliche.
  In questo quadro la tolleranza è la base e già il principio del dialogo, non un suo opposto, e deve sussistere anche quando poi si decida di dialogare. Tuttavia passare al dialogo richiede qualcosa di più, una certa fiducia nei vantaggi della cooperazione. 
  Nella nostra parrocchia, ad esempio, dagli anni '80 vi sono gruppi aspramente contrapposti, che diffidano gli uni degli altri e si temono. Tuttavia vi è una certa condizione di tolleranza reciproca, dovendosi condividere spazi, attrezzature, liturgie, ma non si è mai passati al dialogo vero e proprio. Nondimeno, la lunga consuetudine reciproca ha attenuato un po' l'asprezza delle differenze, mantenute deliberatamente anche per motivi ideologici. Quindi ci si tollera. Il dialogo richiederebbe però di estendere la tolleranza fino a programmare attività comuni in cui si possa lavorare insieme, non solo essere platea. Frequentarsi più da vicino. E tuttavia questo non è possibile, fondamentalmente perché la frequentazione degli altri viene ritenuta contaminante, per alcuni, o minacciosa per altri.
 Il dialogo non è solo questione di discorsi, di parole e argomenti. La base del dialogo è quando si decide di frequentarsi per conoscersi meglio, perché  si pensa di poterne trarre vantaggi. Oggi in parrocchia non vediamo l'utilità della frequentazione reciproca. Ogni gruppo basta a se stesso. Questo è emerso molto chiaramente negli incontri sinodali che andiamo facendo. C'è chi teme che frequentando gli altri si perderebbe la rigida disciplina di gruppo che si vuole praticare e chi teme di esservi costretto.
  Questi problemi non sorgono solo in religione: caratterizzano ogni società umana. A volte in religione sono esasperati dalla mitologia fantasiosa inglobata nelle fedi. È cosa che riscontriamo anche accostando la Bibbia. Certamente molte storie della Bibbia ci presentano gruppi di israeliti fortemente intolleranti, ma anche momenti di sincero dialogo con non israeliti. A volte il dialogo con questi ultimi o anche solo la pietà verso di essi sono considerati peccaminosi, altre volte virtuosi. E Gesú? Proveniva dalla Galilea, dove convivevano più o meno pacificamente diverse culture e i Vangeli narrano storie di dialogo e pietà verso  non israeliti, addirittura verso un ufficiale dell'esercito romano occupante. E tuttavia di solito si osserva che Gesù rimase fino all'ultimo un israelita del suo tempo, un tempo complesso. Dopo la Risurrezione, però, i cristiani vivendo tra alte genti si distaccarono sempre più marcatamente dal giudaismo delle origini. L'assimilazione reciproca tra alcuni cristianesimi e l'ellenismo fu alla base del lungo successo dei cristianesimi nel mondo Mediterraneo dell'epoca e poi, in genere seguendo la via dell'espansione degli imperi europei, in tutto il mondo.
 Oggi alcune importanti differenze che caratterizzano fra loro i cristianianesimi dipendono dai regimi politici che ne hanno sorretto l'espansione.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.

   
  
  

domenica 27 marzo 2022

Religioni e guerra

 

Religioni e guerra

 

 Una religione che giustifichi la guerra, o addirittura inciti ad iniziarla,  perde il diritto di essere rispettata. In un regime democratico deve essere trattata come fenomeno criminale e la coscienza democratica spinge a contrastarla.

 L’argomento è tornato di stringente attualità in Europa. Gerarchi cristiani, infatti, sono tornati a incitare alla guerra. Nei loro confronti, e solo verso di loro, sento il dovere personale di cristiano di ripudiare ogni ecumenismo.

  Certo, bisogna realisticamente riconoscere che, in situazioni estreme, la guerra possa essere inevitabile, ma tuttavia rimane un male anche per chi, subendola, la combatte. Il fatto di aver iniziato a combatterla difendendosi  non la giustifica, ne tanto meno la santifica, perché la guerra, ogni guerra, si fa aggredendo, ed è insensato (e ipocrita) parlare di armi difensive.

  Così, in definitiva, è insensato anche parlare, come ancora si fa nella teologia cattolica di guerra giusta. Ogni  guerra, sempre,  è ingiusta.

 Come scrisse la filosofa Simone Weil, grande anima, l’uso della forza rende schiavi della forza. Ogni guerra rende schiavi tutti coloro che la combattono. Non esistono, quindi, guerre di liberazione. L’unica vera liberazione è quella dalla guerra, che inizia quando si inizia a costruire la pace vera, che tra i cristiani si chiama agàpe, che  è il comandamento più grande.

  La lotta nonviolenta, insegnata e praticata dall’indiano Mohāndās Karamchand Gāndhī (Mahatma – grande anima), l’afroamericano Martin Luther King jr, e in Italia da Aldo Capitini, Lanza del Vasta, Lorenzo Milani, è l’unica alternativa reale ed efficace all’insensatezza della guerra. Per quella via l’India venne liberata dal gioco coloniale britannico e, in gran parte, l’Europa orientale dall’asservimento al regime imperialista sovietico, come pure fu iniziata la vera liberazione degli afroamericani statunitensi. Ciò dimostra la sua efficacia.

 

  Penso che per quelle di voi che appartengono alla mia generazione sia insopportabile vedere quello che è successo e sta succedendo in Ucraina. Ma purtroppo questo è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica. La storia degli ultimi settant’anni lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po’ dappertutto; fino ad arrivare a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero. Ma il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri.

La vera risposta dunque non sono altre armi, altre sanzioni. Io mi sono vergognato quando ho letto che non so, un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare.

[dal discorso di papa Francesco alle partecipanti e ai partecipanti all'incontro promosso dal Centro Femminile Italiano  tenuto a Roma il 24-3-22]

 

   Sono in profonda consonanza con queste parole del Papa, nelle quali molto efficacemente vengono sintetizzate le ragioni della guerra che di questi tempi ha colpito l’Europa, ma anche di tutte le guerre.

 Contro religioni delinquenziali che in qualsiasi modo rendono plausibile la guerra è doverosa la lotta  non violenta. Quest’ultima, però, è resa oggi più difficile dall’impressionante macchina massmediatica che ci spinge alla guerra, arrivando a screditare come melma  e fauna coloro che ancora insistono nel ripudiarla (nella linea dei nostri principi costituzionali). Dagli organismi politici che dirigono la guerra si fa ampio uso della falsificazione storica e della strumentalizzazione religiosa. L’altro giorno un personaggio politico ancora in auge ha osato usare l’esortazione evangelica del papa Giovanni Paolo 2° nel suo primo rivolgersi al mondo nel suo altro ministero:

«Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!»

per rafforzare lo spirito bellico, facendo di quel “Non abbiate paura”, una sorta di slogan da Marine.

  E dall’altra parte si è osato disonorare la fede evangelica coinvolgendola in fantasie malvage di restaurazione di una “Nuova Roma” per rendere schiavo il mondo.

  Mi sono formato al pacifismo nonviolento negli anni ’70. Ho ancora e sempre nel cuore il canto dei nonviolenti di allora We shall overcome – Ce la faremo. Con esso concludo. Coraggio!

Mario Ardigò -

 

sabato 26 marzo 2022

" Forme sostanziali e storiche del cristianesimo " - Convegno del MEIC su Zoom del 25-3-22 - relatore: prof. don Pasquale BUA

 

venerdi  25 MARZO 2022   ore 18-20

Convegno su piattaforma ZOOM 

" Forme sostanziali e storiche del cristianesimo "

relatore: prof. don Pasquale BUA

Direttore Istituto Teologico Leoniano di Anagni

E’ professore di  teologia dogmatica

 

Sintesi di Mario Ardigò, dagli appunti presi nel corso della relazione

 

-non rivista dal relatore-

 

1. Quando si parla di forme sostanziali e storiche del cristianesimo la tentazione è di considerare sostanza e storia come opposte. Riferirsi alla  forma assume una accezione negativa.

  E’ possibile distinguere la forma sostanziale da quella storica? Platone era convinto di sì: distingueva una essenza  che superava la storia. Oggi non si è più di questo avviso. La sostanza, il quid, si dà solo nella storia. La storia è il modo di darsi della realtà. Esistono solo sostanze storiche. Le formr storiche influiscono sulla sostanza.

  Però c’è un’eccedenza della sostanza rispetto alla storia. E’ un traguardo mai raggiunto. Nella storia la realtà tende verso se stessa.

2. Gesù non ha mai spiegato una volta per tutte la sostanza del cristianesimo. Ha raccolto intorno a sé donne e uomini: il cristianesimo   è un fatto storico. Non c’è una sua sostanza immutabile. Però il cristianesimo non si può indentificare con una  forma storica. Nel suo divenire fa capolino un nocciolo irriducibile che preme oltre la storia, irriducibile alle sue forme storiche.

 Bisogna guardarsi da due estremi, entrambi riduttivi.

  Da una parte la chiesa invisibile  dei protestanti e dall’altra la società perfetta  della Controriforma. Nella prima concezione si distingue la Chiesa dalle sue forme storiche, per cui diventa invisibile. Il credente è istruito da Dio solo, senza alcuna influenza sociale: è infallibile in quanto istruito da Dio. Perché avrebbe bisogno di una comunità che lo istruisca? Dio è percepito nell’intimo con l’aiuto della Parola. Non vi è più nessun fine ragionevole della Chiesa visibile. La Chiesa è estranea alle sue forme storiche istituzionale.

  La reazione cattolica. Cita san Roberto Bellarmino. Nella sua concezione si crede che nella Chiesa si trovino tutte le virtù, ma non si richiede ancora interna al credente, ma solo la professione esterna e la comunione ai sacramenti: la Chiesa è una società visibile, individuata attraverso le sue forme storiche istituzionali, come l’impero romano. La Chiesa è identificata con le sue forma storiche.

 Cita poi la Lumen Gentium, 8°: cerca un equilibrio tra ciò che è storico e ciò che è istituzionale. Cristo ha costituito la sua Chiesa, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde la verità e la grazia. La Chiesa celeste e quella terrestre risultano di un duplice elemento umano e divino, analogamente al Verbo incarnato: è una realtà complessa (v. anche Sacrosantum Concilium 2).

  L’elemento divino è il principale, che ha a che fare con Cristo: rende la Chiesa una realtà spirituale. Poi, indissolubilmente unito, un elemento umano, un organismo fatto di istituzioni gerarchiche.

 La Chiesa non trascende la società, ma non è nemmeno un organismo politico tra gli altri, proprio perché realtà complessa.

  La complessità della Chiesa deriva dalla complessità della figura di Cristo.

   Nel Cristo c’è da un lato la storicità: veramente uomo. Vivo strumento di salvezza, di cui il divino si serve. E’ la legge dell’Incarnazione. Per la Chiesa le sue forma storiche non sono un ostacolo alla realizzazione della sua essenza, e nemmeno un rivestimento esteriore: attingiamo il mistero della Chiesa attraverso le sue forme storiche. Nella Chiesa Cristo continua a salvarci al modo umano. E’ il paradosso della Chiesa (De Lubac). Ha bisogno di forme storiche, ma nessuna forma storica la esaurisce, per cui la Chiesa ha bisogna di continua riforma – ecclesia semper reformanda (detto di derivazione protestante).

  E’ come l’asintoto, linea che si avvicina incessantemente ad un’altra linea ma senza mai raggiungerla.

 3. Che cos’è la riforma? E’ il  tentativo di adeguare la Chiesa alla sua natura più profonda (Guardini).  La riforma tende ad adeguare la forma attuale della Chiesa al suo modello dell’essenza. Quest’ultima può solo essere intravista. L’essenza può essere presentita, ma mai conosciuta, finché saremo nella storia. Con un duplice sguardo, indietro e in avanti, si può presentire l’essenza della Chiesa.

 Come Gesù voleva la sua comunità (Gerhard Lohfink)?

  Lohfink evidenzia tre tratti.

  Comunità fraterna ma con precisi incarichi di responsabilità, composta di fratelli e sorelle, ma con alcuni in specifici incarichi, posti al di sopra degli altri.

 Comunità accogliente, con vocazione trasnazionale, aperta a tutti, abbattendo separatezze etniche, sociali, sessuali. Ma è una comunità che non può tollerare il peccato al proprio interno: chiede ai peccatori di convertirsi.

 Comunità orante. Prega ma non si estranea alla società: in ginocchio e in piedi.

 L’essenza della Chiesa come presentata nei Vangeli è complessa. I Vangeli non sono un trattato sulla Chiesa, narrano ma non spiegano. Bisogna salvaguardare le tensioni, senza schiacciare un polo su un altro.

 Guardini fece un bilancio di tutte le ricerche sul Gesù storiche, tese a capire che cosa Gesù fosse stato realmente. Sostiene che sono tutte fallite. I loro autori lessero i Vangeli con le loro lenti. Così accade con la Chiese: cerchiamo nella Chiesa quello che vogliamo trovare, a conferma di ciò che pensiamo della Chiesa.

  La forma della Chiesa deve certo essere attinta guardano indietro, a Gesù, ma anche guardando davanti, all’escaton. La Chiesa è nella storia ma non della storia: la sua realtà rifulgerà solo alla fine della storia. Anche noi personalmente capiremo la nostra realtà solo alla fine.

  Nell’oggi della storia la Chiesa è chiamata ad anticipare la sua figura definitiva futura (Metz – Moltmann): la Chiesa è chiamata a specchiarsi in un futuro che ancora non c’è e che Gesù ha preannnunciata, memoria futuri. Un futuro preannunciato.

 La Chiesa si avvicina di più alla sua forma escatologica:

-      nella liturgia, pregustiamo la communio sanctorum, sotto il velo del simbolo;

-       nella carità (qui l’escaton è realizzato in antcipo);

-      nella testimonianza fino all’estremo.

4. Forma storiche del Cristianesimo

 Si ispira ad un articolo di Giuseppe Alberigo, che scrive di tre forme. Ne aggiunge però un’altra, la prima.

 La Chiesa ha attinto la sua fisionomia dalla storia, in mancanza di uno statuto preciso dato da Cristo (la imitatio imperii, l’imitazione delle altre forme di governo è stata una necessità e una tentazione). Le forme storiche del potere non devono essere assunte acriticamente, senza uno sforzo di purificazione interna.

   La Chiesa non solo dà, ma riceve dal mondo, in particolare le sue forme storiche istituzionale. A volte il mondo la precede (ad esempio il principio di uguaglianza, da cui ora l’uguaglianza battesimale).

Le quattro forme storicamente assunte dalla Chiesa:

-      la forma familiare, Chiesa domestica,

-      la forma imperiale,

-      la forma monarchica,

-      la forma democratica.

 Tutti questi modelli hanno vantaggi e limiti. Nessun modello esaurisce la Chiesa.

4.1 La prima è attestata in san Paolo e nei primi secoli, la Chiesa si edifica come famiglia di famiglie, formata da gruppi ridotti di persone, che possono vantare una conoscenza reciproca e sulla condivisione dei beni, anche se non mancano personalismi e scismi. E’ una Chiesa incarnata in un luogo (ad es. La Chiesa di Laodicea), che però cerca di darsi forme che superino il localismo. Crescendo il cristianesimo diventa improponibile.

4.2 La Chiesa imperiale è quella della cristianità: a partire da Costantino e addirittura fino al 20° secolo vi è connubio tra Chiesa e potere politico. E’ come se il cristianesimo avesse cambiato pelle (Barth). I suoi capi sono capi politici, i suoi membri godono di garanzie e riconoscimenti. E’ più libera perché non perseguitata, ma meno libera perché condizionata dal potere politico.

4.3. Chiesa monarchica: è la Chiesa gregoriana (da Gregorio 7°, il Papa che produsse  la svolta nell’Undicesimo secolo), che però trova espressione anche nell’Ottocento. Si propone un rigido centralismo: ha nel vescovo di Roma una garanzia di cattolicità universale, ma che si riduce alla diocesi del Papa. Ecclesiologia come papologia (Congar), come antidoto agli scismi. E’ la Chiesa dell’uniformità.

4.4 Chiesa democratica: oggi si fa strada nel pensiero teologico. Già il dire che sinodalità non è democrazia, come nel documento preparatorio sul Sinodo, significa che non manchino i punti di contatto.

 Una Chiesa democratica è una Chiesa di uguali, chiesa della fraternità e della sororità, basato sul battesimo. Principio anche di distinzione perché esistono pastori e maestri, attraverso i qali Cristo continua  a rendersi presente.

  E’ una Chiesa dal basso, di designazione elettiva. Imparare a fare più spazio ai processi elettivi è un’opportunità per consentire alla base di sentirsi più rappresentata. Può essere utile a passare dal potere all’autorità. Ma nella Chiesa le funzioni vengono dall’alto.

   L’intero popolo di Dio dispone del sensus fidei che rende tutto il popolo infallibile nel credere. Ma non ci si ascolta solo tra esseri umani soltanto, ma bisogna prestare attenziona anche allo Spirito.

 E’ una Chiesa di tutti. Ci si affranca dal demone del clericalismo. Se però non ci si limita a sostituire le elite clericali con elite laicali. Oggi stiamo vivendo ad un crisi della democrazia, proprio perché non ha portato a un potere di tutti, ma a portato a un ceto di professionisti della politica. Il passaggio da preti a laici potrebbe non far uscire da un potere elitario.

5. La riforma senza scisma secondo Congar) richiede quattro condizioni:

- primato della carità e dimensione pastorale

- non isolarsi

- pazienza

- il rinnovamento è sempre un ritorno alle origini, non un adattamento meccanico alle novità.

  Come cristianesimo abbiamo sempre la necessità di scrutare i segni dei tempi, a non fuggire la storia (luogo della salvezza), a non farci intrappolare dalla storia.

  Cento anni fa Guardini pubblicava Il senso della Chiesa: la Chiesa è una realtà divino-umana, ciò che è contingente in essa si lega al duraturo.

 

venerdì 25 marzo 2022

Dialogo, via della pace

 

Dialogo, via della pace 

 

[…] quando si verifica una lacerazione lì dove la vita richiede unità, occorre attivarsi per ritrovarla, per sanare la lacerazione. Tuttavia […] l’integrità non la si può ritrovare percorrendo la via della censura, dell’emarginazione o dell’esclusione della parte da cui si sono prese le distanze.

 Questa intuizione di fondo sostiene l’accostamento della dimensione interiore a quella esteriore, interpersonale o tra gruppi sociali che sia: dove sorge un conflitto che conduce ad una estraneità, a voler tornare a vivere, occorre ricordare a se stessi che la via dell’espulsione e dell’epurazione non risana e non restituisce integrità.

 E’ in forza di questa intuizione che sorge la domanda su come sia possibile riconciliarsi con il proprio passato, con un’altra persona o come possano riavvicinarsi parti sociali che per motivi diversi si sono  distanziate al punto da squalificarsi reciprocamente come “disgraziate”.

 

 L’idea soci-politica che maggiormente vive di questa intuizione, e che specularmente muore quando si appanna, è quella di “bene comune”.

 Per gli autori personalisti del Novecento tutto questo era molto chiaro. Emmanuel Mounier [filosofo francese, 1905-1950] sosteneva ad esempio che la comunità andasse concepita come una “persona di persone”: “Una comunità –annotava- è una persona nuova che unisce molte persone con il loro stesso cuore. Non è una moltitudine. Non si può contare una pura comunità. Chi sapesse osservarla con sguardo competente coglierebbe ognuno nella sua irriducibile originalità e l’insieme come una orchestra. Una società è durevole solo se tende a questo modello” [da: Rivoluzione personalista e comunitaria, 1935]. In un certo senso veniva messa in rilievo proprio la percezione del profondo impoverimento, quasi della amputazione a cui si va incontro quando la communitas risolve i propri conflitti interni imboccando la via dell’esclusione di una parte, quando si immagina di poter trovare la via della pace civile mettendo al bando l’una o l’altra della componenti sociali in tensione. Ogni forma di espulsione segna cioè un collasso di cui la comunità inevitabilmente risente in profondità, anche se a livello superficiale l’allontanamento di alcuni può essere temporaneamente avvertito come un allentamento della tensione.

 Il collasso riguarda proprio la percezione del “comune”: lì dove si fa strada l’idea di poter ritrovare l’integrità del bene attraverso la via dell’espulsione di una o alcune parti, quel che viene colpito è proprio l’intuizione dell’unità sociale, della appartenenza alla stessa communitas. Tolta o indebolita questa intuizione, anche l’idea che vi sia un bene comune sfuma: ogni parte si concentra per massimizzare il proprio vantaggio, i propri obiettivi, avviando una dinamica di contrasti sempre più accesi in cui il bene privato (individuale o del proprio gruppo) rimane l’unico orizzonte.

 Forse noi, oggi, ci stiamo già muovendo in questo scenario.

[…]

 In un certo senso potremmo considerare che oggi il bene comune ha bisogno di ritrovare un’evidenza dei suoi preliminari: occorre riscoprire quel che esiste già di comune tra le persone e tra i gruppi sociali che si raccolgono attorno a obiettivi o rivendicazioni particolari che li vedono contrapposti.

 Riscoprire il comune è anzitutto una questione di ascolto tra le parti: così come ciascuno, per venire a capo di un vissuto problematico, ha bisogno di sondare più attentamente se stesso, la propria storia e le proprie convinzioni, allo stesso modo è probabile che parti sociali in contrasto debbano ritrovare anzitutto i modi per ascoltarsi più distesamente.

 

[da: Giovanni Grandi, “Il conflitto e la (possibile?) riconciliazione”, in Dialoghi, trimestrale dell’Azione Cattolica, n.4/2014]

 

 

 Dialoghi, si chiama il trimestrale culturale dell’Azione Cattolica, e questo nome indica insieme un orientamento e un impegno. Infatti il dialogo è, a tutti i livelli, il metodo dell’Azione Cattolica.

  A volte, nella storia di una collettività, viene il tempo dei bilanci. Accade anche a noi, quest’anno. Possiamo essere soddisfatti di molte cose che sono state realizzate. Ma nel campo del dialogo  siamo piuttosto carenti. Non dialoghiamo tra noi e con il quartiere e non formiamo al dialogo. Si lavora in gruppi di tendenza che fanno vita separata gli uni dagli altri. Non ci si conosce e, tra gruppi di opposto orientamento, si è sospettosi e si diffida  gli uni degli altri.

 Secondo alcuni orientamenti, si pretende che i nuovi arrivati, entrando, lascino alla dogana tutto ciò che hanno realizzato nella loro vita e accettino di essere ricostruiti, obbedendo a dei formatori che pretendono di sapere e poter ricostruire  la vita della gente.

 In genere, il nostro ambiente sociale è visto come meno accogliente di quelli che sono stati realizzati da altre parti.

 Nel corso di una esercitazione che abbiamo fatto qualche riunione fa nel gruppo di Azione Cattolica, da uno dei gruppi di lavoro è emersa la proposta di accogliere amichevolmente le persone all’entrata della chiesa parrocchiale, per ridurre la sensazione di estraneità reciproca.

 E’, innanzi tutto, deficitaria una cultura del dialogo. Il dialogo è visto come fonte di contaminazione. Non dialogo, ma amore servirebbe. Ma poi, questo amore di cui tanto ci si riempie la bocca, senza la capacità di dialogare con gli altri, che amore è? Alla fine tutto si risolve in una maggiore solidarietà nel proprio gruppo di tendenza, quello in cui non c’è bisogno di dialogare perché è fatto di persone che la pensano tutti in uno stesso modo, selezionate proprio su questa base.

 Il dialogo è una sfida e un rischio. Non si sa, dall’inizio, come andrà a finire. Non lo si può programmare, bisogna essere aperti a sviluppi imprevisti. Esso implica una vera scoperta  dell’altro, non una sua semplice assimilazione. A volte, invece, si concepiscono le collettività come dei mostruosi cannibali che  digeriscono le persona al loro interno. Questa è storicamente la concezione totalitaria del sociale. La collettività in cui entra ti cambia. Accadeva, ad esempio, nel sistema educativo del fascismo storico, negli scorsi anni Venti e Trenta. Benché a volte non se ne abbia chiara coscienza, non è questo il rapporto sociale consigliato in religione. Noi infatti non siamo rigenerati dalle collettività di fede in cui siamo inseriti, ma dall’alto. Nelle collettività di fede troviamo un aiuto, degli alleati, ma di esse siamo nel contempo ne siamo anche responsabili. Esse infatti non hanno un unico volto, ma tanti volti, e anche il nostro. Esse sono come le facciamo. E spesso finiscono per deludere, come osservò una volta Joseph Ratzinger. Per questo in religione si suole dire che devono sempre essere aggiustate, adattate. Come per i singoli, anche per le collettività i lavoro di conversione  non  è mai finito. A somiglianza di quello personale (nessuno si converte  da solo), anche quello sociale richiede il dialogo, relazioni attive e positive tra la gente di una collettività, il confronto franco tra varie esperienze di vita. Quand’è che deve cominciare questo impegno? Da subito, da bambini, fin dal primo giorno del catechismo dell’infanzia. E deve durare tutta la vita. Al dialogo di conversione bisogna fare tirocinio, bisogna fare pratica, come in tutte le altre attività sociali. Si sbaglia e ci si corregge. Ricordo che suscitò grande impressione, in tutti noi che in piazza San Pietro lo vedevamo per la prima volta da Papa, quando san Karol Wojtyla, presentandosi dalla facciata della basilica di San Pietro con i paramenti pontificali, ci disse “Se sbaglio, mi corigerete”, intessendo quindi, sull’esempio dei suoi predecessori, un dialogo con la folla di fedeli che era convenuta là sotto.

 Da noi si dà troppa importanza all’uniformità. Sembra che sia apprezzato un certo conformismo. Gli annunci  che ogni anno facciamo per invitare gli adulti alla formazione religiosa di secondo livello si assomigliano un po’ tutti, di anno in anno. Non vi pare? E parlano di esperienze che sono tanto diverse dalla mia e probabilmente anche da quella di diversi altri. Com’è che le nostre non possono mai essere rappresentate?

 Del resto quest’apprezzamento dell’uniformità traspare anche dagli arredi della chiesa parrocchiale. L’architettura dice molto di una collettività. La gente di fede in mezzo alla quale mi sono formato era più multiforme, diciamo così, e non considerava l’uniformità un valore molto importante. Sono cresciuto in collettività in cui i volti delle persone erano ben distinguibili e tuttavia rimanevano volti di persone di fede: tutte insieme, quelle persone, lavoravano come in un’orchestra, erano riconoscibili come un gruppo-persona. Del resto, possiamo in questo imparare dalla natura. Non c’è un albero uguale ad un altro, guardiamo ad esempio i bei pini di viale Val Padana, a cui siamo molto affezionati, nel quartiere, tanto che siamo collettivamente insorti quando li volevano abbattere per realizzare dei parcheggi sotterranei.  Ma tutti quei pini, lungo il viale, benché diversi gli uni dagli altri, danno un’idea di unità.

 A me piace l’architettura della basilica della Sagrada Familia (=la Sacra Famiglia), a Barcellona – Spagna, che l’architetto Antoni Gaudì volle progettare ad imitazione della natura, in particolare di un bosco. La vedete nella foto qua sopra: una fantastica multiformità, che però dà l’idea dell’unità. L’opera, dopo oltre un secolo, non è ancora finita. Si perde molto tempo nei dettagli. Farla in cemento armato, con un progetto di linee più semplici avrebbe preso molto meno tempo. E’ così anche con le collettività sociali. Il lavoro non finisce mai. Se si ha fretta, il risultato poi delude un po’.

 Ieri a cena, ci è venuta l’idea di invitare tutti i lettori del blog per una pizza, una sera. La pizza è un incontro sociale che funziona sempre. Quanti posti dovremmo prenotare? Non abbiamo una precisa idea dei nostri interlocutori. Siamo molto curiosi su di loro. Chissà se poi risiedono tutti nel nostro quartiere…

 

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.

mercoledì 23 marzo 2022

La riforma a partire dalla gente

 

La riforma a partire dalla gente

 

    Nella Chiesa cattolica ci sono problemi ecclesiali causati dalla gerarchia e altri dalla gente. Tra  i primi il pesante clericalismo che può rendere insopportabile la frequenza ecclesiale, le bizzarrie in materia di relazioni d’amore e procreazione, la strumentalizzazione del sacro a fini di politica ecclesiale, la propensione a raggiungere concordati  con gli altri poteri sociali; tra i secondi l’ipocrisia per cui non si vuole andare oltre l’apparire, la credulità verso narrazioni magiche sul sacro, la conoscenza superficiale del vangelo e della storia delle Chiese cristiane, la ritualizzazione della religione, la sacralizzazione religiosa della posizione sociale propria e del gruppo di riferimento a scapito degli altri, l’incapacità di lavorare insieme agli altri su un piano di parità e argomentando ragionevolmente.

   Gerarchia e gente sono collegate, anche se la prima si considera ancora autoreferenziale, capace di esistere per se stessa, anche perdendo la gente. La gente pensa di non poter esistere a prescindere dalla gerarchia così com’è, mentre ciò che le è veramente essenziale è il servizio del pastore: spesso si riferisce alla “Chiesa” intendendo la gerarchia.

  Storicamente la gerarchia ecclesiastica si è affermata come una organizzazione rigida del potere sacro, che è quello di stabilire chi è dentro e chi fuori della Chiesa e in pace  con essa  e con il Cielo, basata su  definizioni normative dei contenuti di fede, su un ceto specializzato che ha l’esclusiva di quel potere e che è distinto per gradi e sulla regola che l’inferiore deve obbedienza al superiore. In questo contesto, il clero viene considerato radicalmente diverso dal resto della gente di fede, un corpo sacro, nel senso di sottratto alla critica sociale in relazione al suo mandato dal Cielo. Da ciò che si sa questo sviluppo è stato abbastanza precoce e va situato a cavallo tra il Primo e il Secondo secolo e si è consolidato nel Quarto secolo, quando alla gerarchia ecclesiastica vennero attribuiti poteri pubblici dello stato.

  L’esperienza storica ha dimostrato chiaramente che una riforma ecclesiale di questo assetto della politica della Chiesa non può essere condotta a termine dalla gerarchia stessa. Essa, in altre parole, è incapace di riformare se stessa. Nel corso del Concilio Vaticano 2°, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, tuttavia, la gerarchia ha enunciato i principi di una riforma ecclesiale, le definizioni che potevano guidare quel processo, introducendone di nuove che abilitavano la gente ad un ruolo più attivo nelle cose ecclesiali. Tuttavia il sistema di potere gerarchico è rimasto da allora più o meno lo stesso.

  In Europa la vera novità è venuta dal processo di secolarizzazione, che non significa non credere  più nel soprannaturale, ma affrancarsi dai poteri ecclesiastici, in questo desacralizzandoli, e desacralizzare quelli civili. Ciò che è sacro  è sottratto alla critica sociale, desacralizzare  è ammetterla più ampiamente. Dal punto di vista lessicale, la secolarizzazione è quel processo per cui una persona o una cosa escono dall’area del sacro e vengono ridotte al secolo, vale a dire nella condizione di tutte le altre. Dal Quarto secolo la sacralizzazione dei poteri politici secondo la fede cristiana, definita  normativamente proprio a quell’epoca, fu un aspetto molto importante della vita religiosa e politica e costituisce ciò che viene chiamato radici cristiane  dell’Europa.

  Prendendo realisticamente atto di tutto ciò, papa Francesco ha ordinato, con il suo potere gerarchico che sulla carta è assoluto (di fatto non lo è, ma comunque è molto forte), un processo di riforma del quale sia partecipe tutta la gente di fede e, anzitutto, vorrebbe che quest’ultima fosse ascoltata. Naturalmente, una volte che tutto è finito nelle mani della gerarchia, quest’ultima ha organizzato le cose in modo da ascoltare solo quello che ritiene debba essere detto.  Con il che li processo salterebbe. E tuttavia non deve sottovalutarsene le opportunità. Il problema è che, noi gente, siamo ancora poco preparati a lavorare insieme a processi di riforma secondo i principi del Concilio Vaticano 2°. E’ proprio del lavorare insieme che abbiamo poca esperienza: di solito siamo solo una platea nel teatro delle liturgie praticate dal clero. Inoltre, quando ci ritroviamo insieme, emergono i nostri peculiari difetti, che ho sopra ricordato.

  I teologi sostengono che, tutti insieme, noi gente  e il clero gerarchizzato, avremmo qualcosa come un intuito  per procedere come si deve nelle cose di fede. Io ne ho sempre preso atto, pur non ritenendola cosa particolarmente evidente, anzi. Se ne parla, usando espressioni latine sacralizzanti, come   di sensus fidei  o di sensus fidelium, espressioni che significano che quell’intuizione  di cui dicevo è diffusa in tutti  i fedeli, in blocco, anche se non specificamente a questo o a quello, salvo il Papa, che la manifesterebbe in massimo grado.  Beh, che vi devo dire?, speriamo sia come dicono. Ma certo l’intuizione  deve essere corroborata con l’acquisizione di conoscenze specifiche, riflesse, tematizzate  come si dice, perché altrimenti tutto rimane al livello di emozioni.

  In effetti, dai processi innescati dal moto di riforma del Concilio Vaticano 2°, sono emerse esperienze sociali   nuove tra i fedeli cattolici, alcune, in base ai risultati, piuttosto buone, altre meno, altre ancora francamente deleterie, a prescindere dalle buone intenzioni, che quasi sempre ci sono. Da qui sono emerse le novità più interessanti in materia di riforma. La sinodalità diffusa che si è cercato di produrre nella prima fase dei cammini sinodali, mondiale e nazionale, in corso da noi può essere l’occasione per migliorarci e per portare contributi più validi ad una trasformazione della nostra Chiesa perché diventi più libera e partecipata da tutti.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli