Verso il processo sinodale
I nostri
vescovi non credono nel Sinodo come
processo di riforma ecclesiale. Lo si capisce perché vi mettono al centro la riconciliazione mediante ricomposizione basata su un nucleo di principi comuni, che in
definitiva richiamano i valori non
negoziabili sui quali si basò la
strategia politica della C.E.I. sotto la presidenza di Camillo Ruini
(1991-2007).
L’idea che papa Francesco ha del Sinodo mi pare diversa. Innanzi tutto è
centrata sulla riforma e poi non sulla ricomposizione
mediante riduzione ideologica delle
diversità, ma sul mantenimento delle diversità all’interno di un nuovo schema
di politica ecclesiale che è quello del popolo
- comunità.
Negli anni ’70 la teologia del popolo fu connotata dalla convinzione che
l’affidamento personale alla religione dovesse essere sorretto in un contesto
di comunità coesa, non solo dalla soggezione alle istituzioni e alla dottrina.
E’ stato osservato che la gente crede anche alle stranezze più inverosimili in
una situazione collettiva in cui molti altri intorno manifestano di credere
nelle stesse cose. Questo orientamento fu portato agli estremi nei movimenti neo-tradizionalisti, che sotto
quell’aspetto innovarono molto pur all’interno di una mitologia che faceva
riferimento alla tradizione, essenzialmente vista in opposizione specificamente
alla teologia del laicato del Concilio Vaticano 2°. La loro strategia estrema è
fallita: la nostra parrocchia, sotto questo aspetto, ne può essere considerata
l’esempio. Ma fallì anche quella più blandamente comunitaria che fu alla base
del rinnovamento della catechesi dagli anni ’70.
Il problema è questo: una comunità molto coesa, costruita sul modello
della famiglia, satura la capacità di relazioni interpersonali dei suoi
componenti, che per la fisiologia della nostra mente è limitata, e appare
quindi chiusa verso l’esterno. Non è adatta per l’azione missionaria.
E’ stato osservato che i
neo-tradizionalisti si sono manifestati capaci di costruire una loro
tradizione, a differenza dei conciliari.
Quindi abbiamo abbondanza di giovani preti neo-tradizionalisti. Patrocinando
vescovi provenienti dai ranghi del proprio clero i neotradizionalisti cercano
di influire sugli orientamenti degli episcopati nazionali e di contare anche
nella scelta dei Papi. Finora la gerontocrazia che controlla quelle nomine non
ha lasciato loro molto spazio, ma la situazione potrebbe cambiare. Ad eccezione
di parte dell’America Latina, l’episcopato extraeuropeo appare di orientamento
neotradizionalista.
2. Le questioni principali che dovrebbero
essere affrontate in una riforma di tipo sinodale, quindi non imposta da una
qualche autocrazia, sono quelle della libertà personale, in tutti gli aspetti,
del ruolo delle persone laiche e, in particolare, delle donne, e della
democrazia, l’unica alternativa all’autocrazia. Quella relativa al laicato si
riflette necessariamente sul clero. Non è possibile, infatti, istituire sedi di
co-decisione senza riformare l’autocrazia del clero.
Non credo che si possa arrivare a una vera riconciliazione tra gli
orientamenti conciliari e neotradizionalisti,
secondo l’auspicio del nostro episcopato, ma è senz’altro possibile risolvere i
contrasti secondo principi democratici, nel senso inteso dalle democrazie
contemporanee, il che comporta innanzi tutto la rinuncia a demolire ed
estromettere chi la pensa in modo diverso. La democrazia, come oggi la si
intende, e la si intende anche secondo l’influsso notevolissimo che vi hanno
avuto i cristiani dagli anni Cinquanta, è un sistema di limiti secondo valori,
essendo questi ultimi sottratti alla legge della maggioranza. I principi
fondamentali limitano anche il popolo e le maggioranza. Uno di essi è che nessun potere sociale deve
essere illimitato: significa ripudiare
qualsiasi autocrazia. Un altro è quello dell’uguaglianza in dignità che
comporta la libertà della persona: di coscienza, di pensiero, di parola, di azione
sociale. Un altro ancora è il rispetto della socialità della persona e quindi
delle formazioni sociali da essa espresse. C’è naturalmente anche la
libertà religiosa, nei due aspetti di libertà della religione e dalla religione. L’accettazione di quest’ultima è
ancora piuttosto ostica al nostro episcopato nazionale. La nega sulla base del
principio maggioritario che in altri campi rifiuta: gli italiani sarebbero in
maggioranza cattolici. La statistica lo smentisce e allora le si ribadisce che,
a fini di imporre costumi religiosi, non bisogna considerare la pratica
liturgica e l’adesione ai valori non
negoziabili (che sarebbero negazione dell’aborto, della procreazione
assistita, dell’eutanasia, delle unioni civili omosessuali e i finanziamenti e
privilegi fiscali per le istituzioni cattoliche, un campionario piuttosto
ristretto all’apparenza) ma un generico e blando riferimento alla spiritualità
dei miracoli e delle persone e santuari miracolanti e al culto della persona
dal papa. Naturalmente quanto conta i fedeli per attribuire qualche limitata
corresponsabilità la nostra gerarchia è molto più esigente e sembra che non le
vada mai bene come i laici si presentano. Cerca laici remissivi, emarginando
duramente quelli che non lo sono, ma poi si lamenta della loro remissività.
Cerca di inculcare nei laici la docilità
e poi si duole del loro clericalismo.
Nell’Introduzione del card. Bassetti alla recente Assemblea
generale della C.E.I, conclusasi lo scorso 27 maggio, c’è una dura critica
della democrazia, concepita essenzialmente come metodo decisionale basato sulla
maggioranza, il che metterebbe in pericolo i valori evangelici. Storicamente
questi ultimi però sono stati lesi ben più gravemente dall’autocrazia
clericale. Le democrazie, al contrario di quell’autocrazia, si sono dimostrate
capaci di rapide ed effettive riforme e hanno anche molto attenuato certe
asprezze antireligiose che si manifestarono nella Francia rivoluzionaria nel
Settecento. La più spettacolare di queste riforme, una cosa mai vista nella
storia dell’umanità, è costituita dal processo di unificazione europea, che si
è fatto prendendo molto come riferimento la dottrina sociale e, in particolare,
il principio di sussidiarietà
caratteristico della dottrina sociale pontificia dagli anni ’30. In quel
processo hanno avuto infatti una parte essenziale i democratici cristiani, che
ancora ne hanno la direzione.