Noi, organismi della
natura
Spesso non abbiamo un’immagine realistica di
noi stessi. Questo pregiudica la costruzione sociale.
In religione ci insegnano a distinguere noi
dai puri spiriti. Noi non siamo puri spiriti.
Lo sviluppo delle società umane presenta
aspetti che lo accomunano a quello delle
altre specie viventi, comprese quelle vegetali.
Questo perché siamo organismi, nei quali gli elementi culturali, frutto della nostra
mente e dell’interazione sociale, interagiscono con quelli naturali. Se non
fanno i conti con questo, le costruzioni sociali falliscono.
Ad esempio: un teologo, con la sua sola
scienza, non riuscirà a costruire una Chiesa, nonostante si sia fatta un’idea
piuttosto precisa e coerente di come dovrebbe essere.
Da ragazzo, curiosando in una libreria,
trovai e acquistai un saggio del genetista francese Jacques Monod dal titolo Il
caso e la necessità, del quale all’epoca si parlava. Monod sviluppava anche
argomenti filosofici, riguardanti quindi il senso della vita umana.
Iniziava dicendo che non era facile
distinguere nettamente nel mondo ciò che era artefatto, quindi costruzione
consapevole, da ciò che non lo era. Un extraterrestre che fosse riuscito a
giungere fino a noi, scriveva, si sarebbe trovato in difficoltà, senza avere
altre informazioni da noi, che di solito non ci troviamo in imbarazzo sulla
questione.
Monod faceva l’esempio di un favo di un
alveare di api. La regolarità e ripetitività della sua struttura e la sua
funzionalità ne manifestano la natura di
artefatto, di costruzione. Noi sappiamo che viene prodotto dalle api. Se però
quell’extraterrestre prendesse in
considerazione le caratteristiche biologiche delle api, noterebbe che esse
presentano regolarità, ripetitività e funzionalità analoghe a quelle del favo e
potrebbe concludere che anche le api sono artefatti. Questa è la conclusione a
cui arrivano le religioni che hanno il mito di una creazione (che esprime in modo immaginifico la convinzione che il
mondo non sia governato dal caso, ma abbia un senso) e indicano appunto quegli
elementi per convincere a credergli.
In realtà sappiamo che le molecole biologiche
presentano la caratteristica di poter
dal luogo, a certe condizioni, a strutture con quelle proprietà, in un modo che presenta
analogie con la formazione dei cristalli. Quei processi si attivano da dentro, mentre, ad esempio, se scolpiamo una pietra
per farne un utensile o un oggetto d’arte applichiamo una forza da fuori. Noi siamo fatti di molecole
biologiche. Siamo, in questo senso, organismi.
La nostra mente, che ci rende possibile dire “io”, galleggia dentro il nostro organismo e ne è non
tanto un prodotto, ma una manifestazione. Ciò che ci dà sia la sensazione di abitare il nostro corpo che quella di essere in molti
dentro di noi: quest’ultima è più realistica. E anche quella che ci sia
qualcuno o qualcosa che ci spinge da dentro:
anche in questo caso la seconda sensazione è la più realistica.
Che ne consegue?
Che, poiché siamo organismi, non è possibile pianificare la costruzione di una
società applicando semplicemente una forza dall’esterno, come se si trattasse
di scolpire una pietra, perché da dentro ci sono processi che spingono e noi
non ne abbiamo il controllo se non in minima parte. Non basta avere un progetto
che ne descriva la struttura e le finalità: bisogna rispettare le dinamiche
degli organismi che si vuole consociare.
Non si tratta tanto di allevare, al modo di un pastore, o di coltivare, come fa l’agricoltore: essi lavorano rispettando la
biologia delle specie di cui si occupano, ma non si aspettano da esse
l’autodeterminazione. Invece una società
umana non è veramente tale se non è
capace di autodeterminazione collettiva, e questo vale anche per la nostra
Chiesa. Questa capacità è la risultante dell’interazione di moltitudini di
organismi, ciascuno dei quali capace in certa misura di autodeterminazione ma
anche confinato in un certo contesto naturale, ad esempio secondo l’età, le
caratteristiche etniche e, prima di tutto, i propri limiti cognitivi organici,
che definiscono la sua attitudine a comprendere la realtà intorno a lui, ma anche portato, per natura, a cercare di
superarli in un’interazione sociale.
Certe metafore organiciste, come quelle che
assimilano l’intera società ad un corpo, invece che come l’interazione tra
molti organismi capaci ciascuno di una certa capacità di autodeterminazione, sviano un po’ nella
comprensione, presentandola come un solo organismo, nel quale la facoltà
decisionale, l’autodeterminazione, sarebbe concentrata solo in una parte, come la testa lo è in un corpo umano.
Non è questa, tuttavia, la realtà delle società umane. I loro orientamenti sono
determinati da interazioni sociali basate sulla forza dei gruppi che le
animano, intesa come la capacità di influire sugli altri sottomettendoli o persuadendoli.
In genere gli orientamenti sociali si basano su transazioni, quindi accordi in cui ciascuno riconosce in parte le
pretese altrui trovando conveniente collaborare per un bene comune, o su prevaricazione, quando le forze sono
sbilanciate e un gruppo riesce a prevalere sugli altri.
Chi ha esercitato un qualche potere sociale
lo sa bene: non basta l’investitura formale, occorre conquistare
incessantemente credito sociale per ottenere che i sottoposti si conformino
agli orientamenti di chi pretende di dirigere, ma raramente questo riesce del
tutto, quindi la struttura sociale effettiva diverge sempre da come la si era
progettata.
E qui si manifesta un grosso problema: non siamo organismi esattamente come le api né come le pecore. La nostra mente ci fa diversi. E tuttavia non cessiamo di essere simili a loro nella nostra biologia. Vorremmo costruire grandi società come quelle delle api, ma la singolarità della nostra mente ci confina in ambiti più ristretti, nei piccoli gruppi dove possiamo appagare il nostro bisogno di relazioni più significative di quelle che le api hanno tra loro. Questo ci avvicina alle pecore, ma la nostra mente limita molto la nostra attitudine ad essere individui gregari e la relativa pace del gregge non ci soddisfa del tutto. Impariamo l’umanità nei piccoli gruppi, ma per sopravvivere abbiamo bisogno di organizzarne di molto più grandi. Tuttavia non possiamo passare direttamente alla grande scala, perché, se non mediata da un piccolo gruppo, ne perdiamo il senso. E non basta che un piccolo gruppo sia piccolo per produrre senso: occorre che noi vi troviamo la possibilità di vivere relazioni significative caratterizzate da una certa intimità, cosa che, ad esempio, non accade tra fasce d’età molto distanti. La produzione di senso non ha a che fare solo con il nostro intelletto, non è solo un’attività mentale, richiede una vicinanza sociale fisica, e questo è dovuto al fatto che siamo, appunto, organismi. Ecco la ragione per la quale, come abbiamo sperimentato in questo tempo di pandemia, le relazioni meramente virtuali, telematiche, non danno veramente senso alla vita e, dunque, non sono del tutto relazioni. Fossimo puri spiriti, forse basterebbero. A noi serve quello che indichiamo con l'espressione calore umano, che non indica semplicemente un fenomeno termico, ma quell'intimità tra organismi che dà senso alla vita, perché non siamo puri spiriti e la nostra mente è manifestazione del nostro essere organismi.
Mario Ardigò
- Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli