Enciclica Fratelli
tutti - di papa Francesco - 3OTT20
capitolo 7° [numeri dal 225 al 270] Percorsi di un nuovo incontro
sintesi ristretta e sintesi estesa
Sabato 8 maggio, ore 16:45, 20° riunione in Google Meet del gruppo AC San Clemente per dialogare sul settimo capitolo dell'enciclica "Fratelli tutti".
Trovate link e codice di accesso nella Lettera ai soci che è stata inviata via email e che in questi giorni è stata consegnata per posta ai soci che ancora non ci hanno comunicato un recapito email.
Sintesi ristretta
1. C’è
bisogno di artigiani della pace per
rimarginare le ferite sociali e avviare processi di guarigione. Sono necessari nuovi incontri, per risolvere i
precedenti conflitti. Di questi ultimi occorre fare memoria penitenziale [purificazione
della memoria la chiamava Giovanni
Paolo 2°], vale a dire veritiera: la
verità storica chiara e nuda.
Fare pace significa
lavorare insieme, pur senza pretendere di omogeneizzare la società.
La base della pace è
il desiderio di condividere invece di dominare per accaparrarsi la maggior
ricchezza possibile.
La pace è possibile
dove ciascuno si sente veramente a casa.
Costruire la pace è un processo, un percorso verso la pace. E’ un lavoro
artigianale, che proprio perché tale
può coinvolgere tutti. Esso deve essere condotto senza tregua, non ha un punto
finale. Al suo centro vi deve persona umana, la sua altissima dignità e il
rispetto del bene comune.
La pace non è solo assenza di guerra, ma
l’impegno continuo a riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la
dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli.
2. In
ogni gruppo umano vi sono lotte di potere.
Mai Gesù Cristo ha invitato a fomentare la
violenza o l’intolleranza.
Ma non si tratta di proporre un perdono
rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a
qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza
eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad
essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile.
Perdonare non vuol dire permettere che
continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un
criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con
forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la
dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. Ciò che conta è non
farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del
nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una
trafila di vendette.
Ci
sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi errori e
peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si
ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa
trasparente, sincera e paziente.
Da chi
ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di
“perdono sociale”. La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può
imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il compito di
promuoverla.
Non è possibile decretare una
“riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di
coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di
perdonare in nome degli altri?
3. Non possiamo
permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto
accaduto di male nel passato: quella memoria che è garanzia e stimolo per
costruire un futuro più giusto e fraterno.
Quando vi sono state ingiustizie da ambo le
parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver avuto la stessa
gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da parte delle
strutture e del potere dello Stato non sta allo stesso livello della violenza
di gruppi particolari.
E’ facile oggi cadere nella tentazione di
voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare
avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce
senza una memoria integra e luminosa.
Quando
c’è qualcosa che per nessuna ragione dobbiamo permetterci di dimenticare,
tuttavia, possiamo perdonare.
Se
il perdono è gratuito, allora si può perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed
è incapace di chiedere perdono.
Quanti perdonano davvero
non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza
distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso.
Il perdono non ammette l’impunità,
ma è quello che permette di cercare la
giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia
di dimenticare.
4. La guerra è la negazione di tutti i
diritti e una drammatica aggressione all’ambiente.
Per
impedirla bisogna assicurare il dominio
incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni
uffici e all’arbitrato.
Ma
ciò esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli interessi
particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Se
la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere quando risulta
favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze incontrollabili che
danneggiano gravemente le società.
Facilmente
si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie,
difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione.
Non
possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi che comporta
probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si
attribuisce, a causa dello sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche e
delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie con le
quali si è dato alla guerra un potere
distruttivo incontrollabile. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile
sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una
possibile “guerra giusta”.
La
guerra non può essere utilizzata come
strumento di giustizia.
Dobbiamo
anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando
esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia
fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate
su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o
di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere.
5. Oggi affermiamo con chiarezza che la pena di morte è inammissibile e
la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il
mondo. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati
oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale
che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni
carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della
libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.
Le paure e i rancori facilmente portano a
intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di
considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento
sociale. C’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici.
Il
fermo rifiuto della pena di morte mostra fino a che punto è possibile
riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e ammettere che abbia
un suo posto in questo mondo. Poiché, se non lo nego al peggiore dei criminali,
non lo negherò a nessuno, darò a tutti la possibilità di condividere con me
questo pianeta malgrado ciò che possa separarci.
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Sintesi estesa
1. C’è bisogno di artigiani della pace per rimarginare le ferite sociali e avviare
processi di guarigione. Secondo il Papa, per ottenere questo risultato sono necessari nuovi incontri, per risolvere i precedenti conflitti. Di questi
ultimi occorre fare memoria penitenziale [purificazione della memoria la chiamava Giovanni Paolo 2°], vale a dire veritiera: la verità storica chiara e nuda. Altrimenti gli accordi di pace non
saranno mai sufficienti e si ripresenterà la tentazione della vendetta.
Non ci possono
essere giustizia e misericordia senza la verità storica sui conflitti. La
verità storica significa la narrazione nuda
di ciò che è successo.
2. Fare pace significa lavorare
insieme, pur senza pretendere di omogeneizzare la società.
Nell’identificare
problemi sociali bisogna riconoscere che gli altri apportino una prospettiva
legittima, senza pregiudizi su ciò che consideriamo loro passati errori:
occorrono considerarli per la promessa che portano in sé, fonte di speranza.
La base della pace è il desiderio di condividere invece di dominare per
accaparrarsi la maggior ricchezza possibile.
La pace è possibile dove ciascuno si sente
veramente a casa, come in una famiglia, dove tutti contribuiscono al
progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare
l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. La società, invece,
rimane qualcosa di anonimo, che non coinvolge, non impegna.
Costruire
la pace è un processo, un percorso verso la pace. Ma non può essere
progettato intellettualmente, né basta deliberare nuove norme: è un lavoro artigianale, che proprio perché tale può coinvolgere tutti. Esso
deve essere condotto senza tregua, non ha un punto finale. Al suo centro vi
deve persona umana, la sua altissima dignità e il rispetto del bene comune. La
violenza sociale non è una via d’uscita e quel processo è esposto alla
manipolazione politica.
La pace
non è solo assenza di guerra, ma l’impegno continuo a riconoscere, garantire e
ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri
fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione,
comprendendo anche coloro che stanno peggio, gli ultimi, i poveri, gli
scartati. Anch’essi devono essere coinvolti in un processo di pace basato sull’amicizia
sociale. Questo richiede di avvicinarli, perché solo la vicinanza consente l’amicizia.
3. In ogni gruppo umano vi sono lotte di potere.
Mai Gesù
Cristo ha invitato a fomentare la violenza o l’intolleranza. Egli stesso condannava
apertamente l’uso della forza per imporsi agli altri: «Voi sapete che i
governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non
sarà così» (Mt 20,25-26). Nel vangelo ci è comandato di perdonare.
Tuttavia, quando riflettiamo sul perdono,
sulla pace e sulla concordia sociale, ci imbattiamo in un’espressione di Cristo
che ci sorprende: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra;
sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo
da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici
dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10,34-36). Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai
propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che
degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però
amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e
neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo
buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è
togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che
continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un
criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con
forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la
dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa
male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno
malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la
pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera.
Quando
i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che possono significare il
rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non
rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto,
superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e
paziente. La lotta tra diversi settori, quando si astenga dagli atti di
inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta
discussione, fondata nella ricerca della giustizia.
San Giovanni Paolo II ha affermato che la Chiesa «non intende condannare
ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella
storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono
inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender
posizione con decisione e coerenza»[ dall’enciclica Il Centenario - Centesimus annus - 1991- n.14].
Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e
crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”. La
riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una
società, anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito
strettamente personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può
rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la
società e la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia non è possibile decretare una
“riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di
coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di
perdonare in nome degli altri?
4. Non va dimenticata la Shoah, il tentativo attuato durante la Germania nazista di
annientare l’ebraismo europeo; non vanno dimenticati i bombardamenti atomici
attuati dagli statunitensi contro le città giapponesi Hiroshima e Nagasaki.
Non possiamo
permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto
accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più
giusto e fraterno. E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi
e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti
altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. Vanno ricordati
sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci.
Quando
vi sono state ingiustizie da ambo le parti, va riconosciuto con chiarezza che
possono non aver avuto la stessa gravità o non essere comparabili. La violenza
esercitata da parte delle strutture e del potere dello Stato non sta allo
stesso livello della violenza di gruppi particolari.
E’ facile oggi cadere
nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e
che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai
avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa.
Non
mi riferisco solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in
mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono stati capaci di recuperare la
dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono,
la fraternità. Fa molto bene fare memoria del bene.
Il perdono non implica il dimenticare.
Diciamo piuttosto che quando c’è qualcosa che in nessun modo può essere negato,
relativizzato o dissimulato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa
che mai dev’essere tollerato, giustificato o scusato, tuttavia, possiamo
perdonare. Quando c’è qualcosa che per
nessuna ragione dobbiamo permetterci di dimenticare, tuttavia, possiamo
perdonare. Il perdono libero e sincero è una grandezza che riflette
l’immensità del perdono divino. Se il
perdono è gratuito, allora si può perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed è
incapace di chiedere perdono.
Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma
rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro
del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della
distruzione.
Il perdono, non ammette
l’impunità, ma è quello che permette di
cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né
nell’ingiustizia di dimenticare.
5. La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione
all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre
proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e
tra i popoli.
A tal fine bisogna assicurare il dominio
incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni
uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni
Unite, vera norma giuridica fondamentale.
Ma ciò esige di non mascherare intenzioni
illegittime e di non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo
al di sopra del bene comune mondiale. Se la norma viene considerata uno
strumento a cui ricorrere quando risulta favorevole e da eludere quando non lo
è, si scatenano forze incontrollabili che danneggiano gravemente le società,
i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite
irrecuperabili per la comunità globale.
Facilmente si opta per la guerra avanzando
ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive,
ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli
ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità
di una legittima difesa mediante la forza militare, con il
presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di
legittimità morale». Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione
troppo larga di questo possibile diritto.
Non possiamo più pensare alla guerra come
soluzione, dato che i rischi che comporta probabilmente saranno sempre
superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce, a causa dello sviluppo
delle armi nucleari, chimiche e biologiche e delle enormi e crescenti
possibilità offerte dalle nuove tecnologie con le quali si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile.
Davanti a tale realtà, oggi è molto
difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di
una possibile “guerra giusta”. Ogni guerra lascia il mondo peggiore di
come lo ha trovato, è un fallimento della politica e dell’umanità. La guerra
non può essere utilizzata come strumento di giustizia. Nel nostro
mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si
vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro
fortemente connesse nello scenario mondiale. Mai più la guerra!
Dobbiamo anche chiederci quanto sia
sostenibile un equilibro basato sulla paura, quando esso tende di fatto ad
aumentare la paura e a minare le relazioni di fiducia fra i popoli. La pace e
la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di
sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale
annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere.
Gesù
Cristo, che di fronte a un discepolo eccitato dalla violenza disse con
fermezza: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono
la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52). Questa reazione di Gesù,
che uscì spontanea dal suo cuore, supera la distanza dei secoli e giunge fino a
oggi come un costante richiamo.
5. Oggi affermiamo con chiarezza che la
pena di morte è inammissibile e la Chiesa si impegna con determinazione a
proporre che sia abolita in tutto il mondo. Tutti i cristiani e gli uomini di
buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della
pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al
fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana
delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.
Fin
dai primi secoli della Chiesa, alcuni si mostrarono chiaramente contrari alla
pena capitale.
Le paure e i rancori facilmente portano a
intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di
considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento
sociale. C’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate,
che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce
o interpreta come minacciose.
E’
impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro
mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la
vita di altre persone. Particolare gravità rivestono le cosiddette esecuzioni
extragiudiziarie o extralegali, che sono omicidi deliberati commessi da alcuni
Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o
presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e
proporzionato della forza per far applicare la legge.
Il fermo rifiuto della pena di morte mostra
fino a che punto è possibile riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano
e ammettere che abbia un suo posto in questo mondo. Poiché, se non lo nego al
peggiore dei criminali, non lo negherò a nessuno, darò a tutti la possibilità
di condividere con me questo pianeta malgrado ciò che possa separarci.