Aspetti spirituali del processo
sinodale
Nella nostra pratica religiosa si comincia ad
evocare l’effetto spirituale in quattro contesti:
1)Quando non si
vorrebbero approfondimenti su come si sia arrivati a certe decisioni;
2)Quando intorno si
manifesta l’esigenza di cambiamenti organizzativi, ma si preferirebbe che la
gente continuasse a sopportare quello che c’è;
3)Quando si propongono o
si fanno, presentandole come religiosamente doverose, o anche solo accettabili,
delle stranezze, come si dice in pensieri, parole, azioni od omissioni;
4)Quando si vorrebbe
suscitare o vivere l’agápe, che è quando le persone decidono di vivere
collaborando pacificamente costruendo una società benigna e solidale.
Solo nell’ultimo senso il riferimento
“spirituale” ha basi veramente evangeliche. Ed è così che dovrebbe essere
inteso trattando di un processo sinodale finalizzato a riforme organizzative.
Ma raramente accade. Gli usi più frequenti sono quegli altri. In fondo si
vorrebbe convincere la gente, in particolare quella delle persone laiche che ha
scarsissima voce in capitolo, che quel camminare insieme in cui si fa
consistere l’atteggiamento sinodale può farsi cambiando poco o nulla. Il camminare
insieme ce se lo figura, poi, come un muoversi di un gregge dietro
dei pastori, quando invece la metafora pastorale evangelica non voleva
tanto descrivere un assetto gerarchico, secondo il quale la maggior parte delle
persone sono ridotte appunto a gregge, ma l’idea che in ogni cosa
bisogna seguire anzitutto il Pastore celeste, e questo è ciò che si
definisce anche con il celebre detto dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare
ciò che è di Cesare. Così posto, il principio ha addirittura portata
rivoluzionaria, e così fu inteso ai tempi del Maestro. Certamente i suoi
discepoli del tempo non se ne sentirono spinti a seguire docilmente il
Sommo Sacerdote, che nella Giudea di allora certamente era pastore in
senso spirituale.
Ma, continuando come si fa ora, probabilmente
la nostra Chiesa tenderà a dissolversi, in un processo che in Europa è stato
piuttosto veloce negli ultimi cinquant’anni, e forse rimarrà ancora, forse, la
strumentalizzazione politica della religione, quella che il Papa,
nell’enciclica Fratelli tutti su cui abbiamo dialogato quest’anno, ha
scritto di temere molto.
Questa dissoluzione è già storicamente
avvenuta, ad esempio in Asia Minore, nel Vicino Oriente e nel Nord Africa dal
Settimo secolo, tra popoli che sembravano saldamente radicati nella nostra fede,
la cui culla, possiamo dire, fu nella
Siria del 1^ secolo, profondamente ellenizzata, in particolare tra Damasco e
Antiochia. È appunto a Damasco che Saulo di Tarso (antica città dell’Asia
minore) fu mandato da una visione soprannaturale per recuperare la vista, in
una comunità di discepoli che là vi era (At 9,3-25).
La struttura organizzativa della nostra
Chiesa è divenuta anacronistica e obsoleta, essendo stata pensata in gran
parte tra l’Undicesimo e il Tredicesimo
secolo. Serve fondamentalmente ad amministrare gli ingenti patrimoni
ecclesiastici che ci sono in molte parti del mondo e il personale
ecclesiastico, a organizzare liturgie sacre per celebrare solennemente le stagioni dell’anno e gli eventi principali
della vita delle persone (nascita, ingresso nel mondo adulto, matrimonio,
morte), a curare la formazione etica dei più giovani. A quest’ultima ci si
sottopone e si viene mandati con la
riserva mentale che ad un certo punto, più o meno dalla stagione dei primi amori,
la si abbandonerà in massima parte, e che, anzi, deve andare così, altrimenti la
piena integrazione sociale non si conseguirebbe mai.
Con tutte le ragioni, il Papa pensa che
tutto questo sia troppo poco e spinge quindi per un processo di riforma che
consenta un’azione ecclesiale più incisiva. Spesso però questi appelli vengono
intesi come esortazioni a migliorare l’efficacia della propaganda religiosa, il
proselitismo, per portare più gente in Chiesa. Così si risponde immaginando
predicazioni più coinvolgenti dal punto di vista emotivo e liturgie
artisticamente più belle. Non volendo cambiare nulla nell’organizzazione che
vede la maggior parte delle persone coinvolte come spettatrici o al più come
comparse, si insiste molto sul sacro, diciamo sugli effetti speciali, del
quale sono espressioni la spiritualità delle personalità e dei santuari
miracolanti e la cosiddetta religiosità popolare. Ed è a questo punto
che si rampognano i dissidenti accusandoli di scarsa spiritualità e invitandoli
ad una maggiore passività nei confronti dei supposti prodigi spirituali.
L’attivismo viene scoraggiato solo se pretende maggiore partecipazione, o
meglio, visto che raramente partecipazione vi è ma al più consulenza, l’introduzione
di vere procedure partecipate di decisione.
Nonostante quello spiritualismo le
cose vanno male, la gente non si sente coinvolta e, tutto sommato, non sente
nemmeno più il bisogno di esserlo, che invece era molto forte negli scorsi anni
Settanta.
Perché il sacro cristiano non funzione
più come un tempo, nonostante che la gente sia, in genere, tutt’altro che razionale nelle sue credenze,
in particolare sia tuttora atterrita da potenze superne, con prevalente tendenza
superstiziosa o magica?
C’entra
la secolarizzazione?
C’entra sicuramente.
La secolarizzazione non consiste nel
fatto che la gente non creda più
al soprannaturale che agisce nel nostro mondo. La gente ci crede tuttora,
eccome se ci crede, anche se non proprio nel soprannaturale descritto dalla
nostra teologia. Sotto questo profilo la nostra società è purtroppo assai poco
secolarizzata. Dico purtroppo perché la gran parte delle credenze
soprannaturali correnti sono del tutto infondate e sorreggono la convinzione di
poter cambiare gli eventi sociali e della natura con riti, e, in particolare,
riti sacrificali.
Si ha secolarizzazione,
che è il contrario della sacralizzazione, solo quando
un’organizzazione di un potere sociale viene imposta come voluta da un dio, o comunque
da una potenza soprannaturale. La sacralizzazione viene imposta per sottrarre
il potere sacralizzato alla critica sociale. L’assetto del potere sacralizzato e le sue decisioni divengono quindi non
negoziabili, pena l’ira della potenza soprannaturale che li patrocina.
Ciò che non è sacralizzato, o non lo è più
essendolo stato (essendo stato quindi secolarizzato), può invece essere
messo in discussione. I processi democratici moderni sono stati potentemente
secolarizzanti. E tuttavia anch’essi hanno comportato sacralizzazioni. Il
principio di uguaglianza in dignità tra tutte le persone umane è una di
esse, in particolare riconoscendo quella dignità, senza distinzione di etnia, cultura,
religione, lingua, orientamento sessuale, opinioni politiche, condizioni sociali
ed economiche, quindi in modo assoluto Quel principio ha però una
singolare natura di sacralizzazione
secolarizzante, perché limita, rispetto alle persone,ogni potere sociale
e le sue sacralizzazioni.
La
sacralizzazione della gerarchia cattolica nel suo attuale assetto non è più
socialmente credibile e confligge con il principio di pari dignità delle
persone che è alla base delle democrazie avanzate europee contemporanee. Si
rivendica quindi da parte delle persone religiose emarginate dalla partecipazione la possibilità di
metterlo in discussione in un processo realmente partecipativo.
La storia degli assetti gerarchici della
nostra Chiesa, che sono mutati moltissimo nei duemila anni della nostra fede è
in particolare dall’Undicesimo secolo, dimostra che essi sono costruzione
sociale che può farsi risalire alle origini solo nel mito, perché nulla del
genere ci fu nei primi decenni, nelle magmatiche prime esperienze comunitarie
della nostra fede. Ciò che è costruzione sociale richiede sempre riforma, per
renderlo adatto a confrontarsi con le metamorfosi sociali, che sono incessanti,
per il susseguirsi delle generazioni, nessuna delle quali è l’esatta copia
delle precedenti, e l’evoluzione delle culture, anche per il loro intersecarsi.
Oggi il problema sociale con cui ci si deve
confrontare è quello della reale partecipazione di tutte le persone religiose
alle decisioni ecclesiali. Questo richiama l’aspetto spirituale che ho
ricondotto all’agàpe. In particolare, il pervicace patriarcalismo che
denota ancora la nostra gerarchia
ecclesiale umilia le donne in un modo che sempre più è sentito come
intollerabile dagli stessi laici uomini. Tuttavia, con rampogne di natura
spiritualistica si vorrebbe mettere tutto e tutti a tacere. Eppure il nostro
vangelo ci spinge a far nuove tutte le cose.
Per alcuni, spiritualizzanti, la religione
può funzionare soli in assetti di potere sacralizzato, insomma dove ci si
convince che, assoggettandosi completamente ad un certo potere religioso, le
cose, personali e sociali, volgeranno al meglio. Non era questo, naturalmente,
lo spirito della riforma religiosa promossa negli anni Sessanta, durante il
Concilio Vaticano 2^. Sostanzialmente essa è fallita per le resistenze opposte
dalla gerarchia nei vent’anni che seguirono. Anche il minimo cambiamento sembrò
troppo. Si fecero un passo avanti e due indietro e, ad un certo punto, il
processo di riforma fu addirittura sospeso temendo di non riuscire più a controllarlo.
Un grido di allarme venne realisticamente lanciato dai vescovi italiani nel
2005, prevedendo ciò che poteva seguire, l’inaridimento. Da allora sono passati
sedici anni in cui ancora, in Italia, s’è riusciti a fare poco. La stessa nuova
struttura normativa sul Sinodo dei Vescovi appare inadatta a suscitare quel
moto di riforma dal basso a cui sembra pensare il Papa. Tanto è vero che per il
Cammino sinodale della Chiesa tedesca si è scelto di innovare sfruttando in
maniera creativa i poteri di autorganizzazione.
Certo, il processo sinodale deve essere svolto
con ordine. Stranezze avventate
possono sempre manifestarsi in religione, secondo una di quelle concezioni di
spiritualità di cui scrivevo all’inizio. Ma tra questo lavorare con ordine e il
non far nulla con pretesti spiritualistici ce ne corre.
Purtroppo noi persone religiose siamo poco
abituati a costruire società decidendo insieme. Bisogna imparare facendone
tirocinio.
Mario Ardigó – Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma