Sinodo e Parlamento
Che differenza c’è tra il Sinodo dei vescovi e
un Parlamento?
Entrambi sono organismi politici, perché partecipano al governo della
società di riferimento. La politica è infatti il governo della società. E anche
il Sinodo si propone questo: in particolare, come è scritto nel Codice di
diritto canonico
di prestare “un’efficace collaborazione al Romano Pontefice, secondo i
modi da lui stesso stabiliti, nelle questioni di maggiore importanza”.
Il Parlamento è un’istituzione democratica, il Sinodo non lo è.
I membri del Parlamento rendono
presente il popolo e, in questo
senso, lo rappresentano. Vengono infatti eletti dai cittadini ai quali sono riconosciuti i diritti politici.
I vescovi, nel Sinodo, rendono
presenti solo se stessi e le conferenze episcopali che li hanno eventualmente
eletti. I vescovi sono stati istituiti dall’alto per governare una porzione del
popolo dei fedeli, ma non ne dipendono e non lo rappresentano. Partecipano al Sinodo per quel loro governare
e in quanto eletti dalle assemblee delle loro conferenze episcopali, per quelli
che lo sono. Nel Sinodo dei vescovi, i vescovi devono essere in maggioranza. Il
Papa può nominare altri membri, vescovi
e non, a sua discrezione; altri membri sono eletti da istituti religiosi
del clero: nessun membro del Sinodo è quindi
espressione rappresentativa del popolo dei fedeli. Quest’ultimo può essere
presente solo con varie figure di consulenti, senza alcun diritto, prima della
nomina, a presenziare o partecipare e,
naturalmente, senza alcun diritto a decidere.
Il Parlamento è espressione della partecipazione politica dei cittadini,
che si esprime però in molte altre forme, sedi e istituzioni: infatti non sono
solo i parlamentari a fare politica. Fondamentale nella democrazia
è un sistema di principi valoriali che comprende precisi limiti ad ogni potere
politico e, quindi, innanzi tutto quello che nessun potere politico debba
essere illimitato. Nelle democrazie
occidentali contemporanee quei valori riguardano anche diritti di libertà, di
espressione e a prestazione sociali, come, ad esempio, il diritto alla salute,
che tanto viene in rilievo di questi tempi di pandemia. Inoltre è essenziale la
costante partecipazione del popolo all’azione politica mediante i partiti e
altri gruppi esponenziali di orientamenti politici, ad esempio i sindacati o altre esperienze associative. L’Azione
Cattolica Italiana è uno dei maggiori di questi gruppi; in particolare opera
nel campo della formazione alla politica.
Il Sinodo dei vescovi è invece espressione dell’organizzazione
autocratica della nostra Chiesa, nella quale il potere del Papa non trova alcun
limite, quello dei vescovi è limitato solo da quello del Papa, in particolare
dal sistema normativo da lui deliberato e dai suoi atti di governo, e tutti gli
altri diritti affievoliscono di fronte al potere del Papa e dei vescovi. Questi
ultimi, quanto ai Sinodi diocesani, sono definiti unici legislatori, e tutti
gli altri, chierici e non, hanno solo
voto consultivo.
L’organizzazione autocratica della nostra Chiesa è un lascito della sua
storia, e un lascito molto antico. Fin dal Secondo secolo si affermò il modello
monarchico di episcopato. L’affermazione del Papato romano sugli altri
patriarcati fu molto più tarda. Essa fu costruita giuridicamente e
teologicamente come un impero religioso dall’Undicesimo secolo, e questo
produsse la separazione dei Patriarcati orientali e dell’Impero bizantino,
sotto la cui autorità si erano svolti nel Primo Millennio i Concili ecumenici
che avevano deliberato i principali nostri dogmi di fede.
Sento spesso precisare che il Sinodo non è un
Parlamento non solo nel senso che ho sopra precisato, ma nel senso che sarebbe
qualcosa di più. E si aggiunge che la Chiesa non è una democrazia. Effettivamente la nostra
organizzazione ecclesiale non è strutturata democraticamente, ma non c’è tanto
da esserne fieri.
La dottrina teologica sulla Chiesa presenta aspetti che non riguardano
principalmente la politica, ma la sua
natura. Trattando invece del suo governo, quindi della Chiesa come
organizzazione sociale, della sua politica e della sua struttura decisionale,
quindi del problema di chi comanda e in che misura e secondo quali principi, l’autocrazia
non appare conseguire necessariamente a quella teologia e, ai nostri tempi, è
sicuramente qualcosa di meno della democrazia. Nelle narrazioni evangeliche
non troviamo un’autocrazia simile, anche perché il Maestro non esercitò mai un
potere politico, pur definendosi “Re”. Il suo Regno, disse, non è di questo
mondo. L’autocrazia ci deriva dalla nostra lunga storia che, in quanto antica,
è anche ritenuta autorevole. Ed effettivamente la democrazia, come oggi la
intendiamo, è un fenomeno storico piuttosto recente, contro il quale, va detto,
il Papato romano ha strenuamente combattuto politicamente in varie parti del
mondo e, in particolare, in Italia, durante il processo di unificazione
nazionale che si concluse nel 1870 con l’abbattimento per conquista militare
del piccolo regno territoriale che il Papi avevano nel Centro Italia. Si arrivò
a scomunicare il Re e il Presidente del Consiglio dei ministri che ordinarono
quella conquista, salvo poi, circa un secolo dopo, definirla “provvidenziale”.
L’autocrazia è qualcosa di meno della democrazia perché non consente una reale
partecipazione del popolo ai processi politici.
Autocrazia e democrazia sono procedure politiche per la composizione dei
conflitti. La prima si basa sulla condivisa sottomissione al potere degli
autocrati che l’animano, la seconda sull’abolizione di ogni potere autocratico
e sul consenso su valori e limiti ad ogni potere e sulla dignità di ogni
cittadino.
La teoria delle situazioni di conflitto può essere sintetizzata come
segue:
Si parla di conflitto quando si manifesta
una situazione di contrapposizione tra persone o gruppi per un certo interesse
od orientamento sociale, dove il potere sugli altri è l’interesse più
importante perché mediante azioni collettive si possono conseguire risultati
maggiori.
La guerra, tra stati o civile all’interno di
uno stato, è un conflitto combattuto con
la violenza, quindi al di fuori di una procedura di composizione, in genere
quando le procedure esistenti hanno fallito e tra le parti in conflitto si
genera uno squilibrio significativo per cui una ritiene di poter prevalere
combattendo.
Le procedure predeterminano i criteri di
prevalenza politica senza che ci si debba fare guerra.
Bisogna
distinguere tra:
-conflitti all’interno
dei piccoli gruppi;
-conflitti tra grandi
gruppi;
-conflitti tra sistemi
politici (stati)
L’emotività interpersonale gioca un ruolo
prevalente solo nei primi.
Nei secondi prevalgono gli elementi culturali, in particolare quelli
mitici.
Negli ultimi prevalgono gli elementi
istituzionali.
I conflitti tra entità maggiori comprendono
gli altri.
La risoluzione di quelli tra entità maggiori
richiedono la risoluzioni di problemi istituzionali e culturali, oltre che
politici.
Quelli tra grandi gruppi la demitizzazione
delle contrapposizioni.
Quelli all’interno dei piccoli gruppi
l’avvicinamento e la conoscenza interpersonale: qui lo spirito religioso può
fare la differenza se favorisce l’avvicinamento, ma anche se non lo favorisce
demonizzando l’altra parte. Storicamente le religioni sono stante anche
controproducenti per la pace.
Poiché, a qualsiasi livello, siamo confinati
dal punto di vista interpersonale in piccoli gruppi, la dinamica dei piccoli
gruppi è molto importante anche nella risoluzione dei conflitti maggiori. Nelle
assemblee come i Sinodi o i Parlamenti si lavora in piccoli gruppi, in genere
chiamati commissioni o sottocommissioni, riservando alla sede plenaria solo
l’approvazione delle delibere finali.
La
bontà e gentilezza d’animo sono molto importanti nella risoluzione pacifica e
senza prevaricazione dei conflitti nei piccoli gruppi. Nei conflitti tra entità
maggiori è essenziale la capacità di elaborazione culturale, della quale quella
istituzionale e giuridica è
manifestazione.
In ogni conflitto la pacificazione senza
prevaricazione si ha solo se le parti si trovano in una condizione di stallo,
tale che nessuna di esse abbia la forza di prevalere totalmente senza subirne
conseguenze controproducenti, altrimenti questa forza verrà sempre esercitata. La storia purtroppo ce lo
dimostra. Paradossalmente, quindi, condizione della pace è di riuscire ad organizzare
un contropotere valido alla resistenza contro quello che preme per prevalere.
La lotta nonviolenta teorizzata e praticata da Ghandi in India dagli anni ’30
si basa su questo presupposto.
In una procedura di composizione dei
conflitti come tipicamente sono quelle democratiche, ma anche quelle sinodali,
il risultato è tanto più efficace quanto più le parti in causa vi sono
rappresentate realmente e raggiungono un effettivo consenso. Un conflitto
guerreggiato può essere prevenuto, risolto o spento, solo se le parti in causa,
realmente rappresentate, convengono sulla procedura di composizione,
rinunciando al conflitto combattuto.
Il Sinodo dei vescovi cattolici è scarsamente
rappresentativo del popolo dei fedeli e inoltre è soggiogato dall’autocrazia
papale. La composizione dei conflitti che si può ottenere con le sue procedure
potrebbe essere poco efficace. Inoltre le delibere che vi si approvano sono
soggette alle incognite della successione nel Papato: con un nuovo Papa
potrebbe cambiare tutto.
Si osserva però che nei Parlamenti spesso i
conflitti rimangono endemici, e questo è senz’altro vero in quanto essi non
vengono occultati o silenziati. Tuttavia
nelle democrazie Europee i processi democratici centrati sul Parlamenti
hanno portato al più lungo periodo di pace mai vissuto nel Continente.
Si parla di spirito sinodale dei fedeli,
ma non si spiega bene in che cosa consiste, visto che essi, in definitiva
contano poco o nulla. Significa
accettare di continuare a contare poco o nulla? Ma i fedeli sono divenuti
insofferenti di contare poco o nulla, in particolare dell’emarginazione della
donne. Questo, nel contesto democratico dell’Europa contemporanea determina una
situazione di conflitto tra fedeli e la gerarchia che il Sinodo potrebbe non
riuscire a comporre perché l’autocrazia gerarchia vi domina. D’altra parte
quest’ultima non domina nella società, nella quale si è quindi prodotto, con
riferimento a quel conflitto, una situazione di stallo.
Uno spirito
democratico è molto più definito:
significa rinunciare all’autocrazia, riconoscere alle altre persone e agli
altri gruppi pari dignità e libertà di espressione, rinunciando alla
prevaricazione ideologica.
Nello statuto diocesano dell’AC romana, l’AC è
definita palestra di democrazia e, in quello nazionale, un’esperienza popolare e democratica. L’AC, in
effetti, non è un’autocrazia e pratica a tutti i livelli la democrazia. Venne
costituita nel 1906 proprio per incidere sulla democrazia con i metodi della
democrazia. Partecipando al processo sinodale che la Chiesa italiana ha
iniziato da quest’anno, vi porterà sicuramente questa sua sensibilità, cercando
di elevare lo spirito sinodale
verso quello democratico, tenendo conto
naturalmente delle particolarità di quel corpo politico che è attualmente
l’organizzazione ecclesiale, la quale, ad esempio, è libera da tutti gli
assilli di potere che hanno gli stati e vorrebbe esercitare il governo come
colui che serve e secondo una certa mitezza, secondo le esortazioni evangeliche.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli