Dimensioni medie
Nei gruppi con la maggiore intimità di
relazioni, come accade in una famiglia,
cambiare è difficile.
Nei
grandi gruppi le relazioni tra le persone sono superficiali, ma la struttura
sociale è resa rigida dal diritto e dai miti che gli sono collegati.
I
processi di riforma sono possibili solo
a partire da gruppi di medie dimensioni con relazioni non totalizzanti e non troppo rigide nei ruoli. Il piccolo
gruppo che, secondo i racconti evangelici, si muoveva agli inizi con il
Maestro, seguendolo nel suo peregrinare tra la gente, mi sembra fosse di quel
tipo.
Se si vuole innescare una riforma sociale,
non bisogna pretendere che le relazioni interpersonali si rafforzino oltre un
certo limite. E il gruppo di riferimento deve poter avere una certa libertà di
liberarsi da vincoli formali e anche di poter ripensare creativamente la
mitologia sociale di riferimento. Nella
comunità che si formò intorno a Francesco d’Assisi all’inizio del suo
innovativo ministero, troviamo qualcosa di simile.
Un gruppo di riformatori deve mantenere la
capacità di avere legami interpersonali verso l’esterno. Questo gli è precluso
se costituisce legami troppo forti verso l’interno. Difficilmente una comunità
in cui si cerca di instaurare reali rapporti fraterni, non limitandosi a “chiamarsi”
fratelli e sorelle, riuscirà a sperimentare processi di riforma.
Noi, per ragioni fisiologiche, abbiamo
limitatissime capacità di legami forti, e ciò significa anche che, nonostante
le buone intenzioni, più ci prendiamo cura delle altre persone meno saranno le
persone di cui riusciremo a prenderci cura. Chi è stato genitore o ha dovuto
occuparsi di un anziano non autosufficiente lo sa bene. Riformare una società
significa prendersi cura di un gran numero di persone contemporaneamente.
Questo comporta che il diventare più buoni
non serve per la riforma sociale, se si va troppo in là nel cercare di
diventarlo. Un riformatore sociale non potrà essere, quindi, veramente un
santo, come si immagina che un santo debba essere. Ma è necessario, in fondo,
che non lo sia, o altrimenti la sua riforma fallirà. La memoria delle figure
dei santi riformatori, tra i quali
alcuni Papi, è in gran parte di natura
mitologica.
Una
parrocchia, in quanto istituzione rigidamente regolata dal diritto, non può
essere di per sé catalizzatrice di riforme. Ma, in quanto organizzazione di
gruppi intermedi, al suo interno possono manifestarsi esperienze sociali di
riforma, delle dimensioni giuste e con
la giusta forza dei legami interpersonali, né troppo intensa né troppo labile.
La nostra parrocchia negli scorsi anni Settanta fu percorsa da moti di questo
tipo.
D’altra parte, per come lavora la nostra
mente a causa delle strutture organiche che la manifestano, siamo confinati non
solo in piccoli gruppi ma anche in gruppi di coetanei per trovare ciò che si
può indicare come “senso della vita”.
Questo perché solo tra coetanei è
possibile l’intimità che serve. Ma nessun processo di riforma può espandersi se
non riesce a coinvolgere generazioni diverse. Un bel problema, che viene di
solito presentato come quello del ricambio generazionale, ma che è
meglio definire come quello dell’integrazione generazionale.
Le generazioni sono separate da
confini piuttosto rigidi, che variano di cultura in cultura.
Un confine si varca con la
pubertà ed ha una certa universalità, essendo collegato a modifiche
fisiologiche fondamentali. Nella nostra cultura ce n’è uno intorno ai 25 anni e
un altro intorno ai 45. Ce n’è uno, piuttosto evidente, intorno ai 70 e un altro
verso gli 80. Crescendo si passa dall’uno all’altro dei gruppi generazionali.
Chi cresce nella nostra Chiesa trova spesso il vuoto dopo i 25 e fino ai 45/50
e allora non cresce nella fede.
Al nostro gruppo, dagli anni ’90 circa è stata
negata in parrocchia la possibilità di integrazione generazionale. Si volle
puntare su altre esperienze sociali caratterizzate da legami di tipo familiare,
con un marcato orientamento patriarcale, che naturalmente persero la
capacità di coinvolgere chi si trovava
all’esterno. Questo aggravò la frattura
con il quartiere, che aveva anche altre cause, in particolare nel fatto che i
giovani giunti tra noi apparivano meno acculturati alla religione o addirittura
per nulla. Una questione più che altro di obsolescenza dei modelli religiosi
del passato, per cui essere religiosi sembra non servire più a nulla.
L’integrazione generazionale richiede mediatori culturali, ma nell’attuale
situazione non è facile esserlo. La fascia d’età tra i trenta e i quaranta è
cruciale. È lì che si manifestano i mediatori culturali intergenerazionali più
validi. È gente molto impegnata con famiglia e lavoro, che non perde tempo su
ciò di cui non vede utilità o possibilità di sviluppo. Con essa i nostri anacronistici
modelli religiosi non funzionano bene. Essi tuttavia vengono pervicacemente e
inutilmente riproposti.
Fin dall’antichità la riforma sociale venne
presentata come un lavoro di tessitura. Qualche volta però la si presenta come
un rattoppo. Come insegnò il Maestro, così non può funzionare [Lc 5,36].
Ne processo sinodale che lentamente dovrebbe
iniziare Italia, la parrocchia potrebbe fare la sua parte inducendo gruppi di
tirocini riformatori di medie dimensioni, caratterizzati da una certa libertà e
informalità di programmazione, da legami interpersonali non totalizzanti e da capacità
di integrazione intergenerazionale. A volta si punta su comunità-famiglie, ma
non vanno bene, perché in famiglia c’è poca libertà e infatti i giovani devono
distaccarsene. Non servono in tempi di riforma, ma solo in quelli di
conservazione. I giovani, giustamente, le temono e i meno giovani cercano di
collocarsi sempre nel ruolo di padri e madri, suscitando la repulsione negli
altri.
Mario Ardigó – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli