Card. Bassetti: ascolto
riconciliato per un cammino insieme
Dal sito Web della
Conferenza Episcopale italiana 25-5-21
Pubblichiamo il testo dell’Introduzione del Cardinale
Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della
CEI, in apertura dei lavori della seconda giornata della 74ª Assemblea Generale
che vede riuniti a Roma, fino a giovedì 27 maggio, oltre 200 Vescovi
italiani.
Venerati e cari confratelli,
siamo lieti di ritrovarci insieme per la nostra Assemblea di maggio.
Permettetemi un’esclamazione, che sgorga dal profondo del cuore e che
sicuramente sarà da tutti voi condivisa: finalmente! È un avverbio che ben
descrive la soddisfazione per questo nostro con-venire tanto atteso. Finalmente
non esprime distrazione o evasione dalla realtà, ma è immersione profonda nelle
piaghe delle nostre comunità. Quanta solitudine, quanta tristezza, quanti
lutti… Pensiamo, in particolare, alla tragedia di Stresa-Mottarone, rinnovando
la nostra preghiera di suffragio per le quattordici vittime e per i loro
familiari; un pensiero affettuoso al piccolo sopravvissuto.
La nostra presenza qui, in questi giorni, vuole essere una carezza di conforto
per chi soffre o piange la perdita di un caro; vuole anche essere una carezza
di fiduciosa speranza, nella certezza che la morte non è mai l’ultima parola.
Ecco, allora: finalmente siamo riuniti tutti insieme, potendo così vivere e
rafforzare i vincoli della comunione e condividere la sollecitudine pastorale
per le nostre Chiese, per il nostro amato Paese, per le donne e gli uomini che
abitano questo tempo così difficile. Invochiamo su di noi e sui lavori che ci
attendono la luce e la grazia dello Spirito Santo. Ancora immersi nel clima
della Solennità di Pentecoste, che abbiamo celebrato domenica, lasciamoci
guidare in queste giornate dal brano del secondo capitolo del libro degli Atti
(cf At 2,1-11). Quell’episodio della Chiesa primitiva sostenga la nostra
riflessione, a partire da un dato di fatto: i discepoli su cui scende lo
Spirito il giorno della festa di Pentecoste sono gli stessi apostoli e
discepoli che avevano seguito Gesù nei tre anni della sua predicazione (cf At
1,12-14). È una comunità, dunque, che ha una sua piccola storia di fede da
raccontare. Nonostante le fatiche, i rallentamenti, le fughe in avanti e le
cadute, c’è un cammino percorso con Gesù e che può essere raccontato. Così
anche la Chiesa che è in Italia può raccontare la storia del suo cammino di
fede, che parla della fedeltà al Magistero del Papa e si sviluppa, in
particolare, dopo il Concilio Vaticano II, con alcune tappe significative, che
non vanno dimenticate.
La fedeltà al magistero del Vescovo di Roma
1. Il nostro pensiero devoto e affettuoso va anzitutto a
Papa Francesco, che abbiamo avuto la gioia d’incontrare e ascoltare ieri
pomeriggio. Gli siamo particolarmente grati per il sostegno alle nostre Chiese
e per la guida sicura, per la sollecitazione a essere Chiesa sinodale nel solco
tracciato dal Concilio Vaticano II, per l’invito espresso il 30 gennaio nel
Discorso pronunciato durante l’incontro promosso dall’Ufficio catechistico
nazionale: «Il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e
pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo
tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa». A caratterizzare lo stile, i
gesti e le parole del Papa è l’intero evento del Vaticano II. Francesco sta
scrivendo pagine preziose di recezione del Concilio, secondo quell’ermeneutica
della continuità e della riforma illustrata da Benedetto XVI (cf Discorso alla
Curia romana, 22 dicembre 2005). Da qui l’invito ad avere a cuore il «santo
popolo fedele di Dio, che – come dice il Concilio – è infallibile in credendo»
(cf Discorso all’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale, 30
gennaio 2021). Nel riprendere il Concilio, è soprattutto la Chiesa come
“popolo” a fare da perno al suo Magistero. Questa espressione a lui così cara,
il “santo popolo fedele di Dio”, è presente fin dall’inizio del suo ministero,
nella Evangelii Gaudium (cf nn. 119, 125 e 130); anzi, è presente fin dal primo
saluto ai fedeli radunati in Piazza San Pietro, la sera stessa della sua
elezione, quando – in un gesto indimenticabile – si è chinato domandando «la
preghiera del popolo… per il suo vescovo». In quelle poche parole s’incontrano
i grandi temi conciliari. “Popolo di Dio” è la categoria elaborata dal Vaticano
II per esprimere la natura aperta, universale e storica della Chiesa. Il
“popolo di Dio” non è una grandezza puramente sociologica, ma teologica,
pastorale e spirituale. Questo “popolo di Dio” è insieme “santo” e “fedele”. La
santità, che il capitolo V della Lumen Gentium libera dalle strettoie di
un’ascetica riservata a pochi e consegna, invece, all’intero “popolo di Dio”, è
illustrata nell’Esortazione Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), con
l’incisiva immagine dei “santi della porta accanto” (cf nn. 6-9), pienamente
recepita dai fedeli. Anche questa nota, potremmo dire questa dilatazione della
santità, è uno dei frutti più apprezzati del Concilio, che il Santo Padre sta
portando a maturazione. Nell’ultimo anno ci siamo resi conto ancora meglio,
purtroppo passando attraverso una drammatica pandemia, di come la santità sia
piantata nel terreno delle nostre comunità cristiane e civili; di come l’amore
di Dio operi nei cuori, anche al di là delle categorie con le quali siamo
abituati a ragionare: credenti e non credenti, cristiani e non cristiani,
praticanti o meno. Esiste una santità diffusa, che va raccolta e narrata. La recente
beatificazione di Rosario Livatino ne è ulteriore testimonianza. E, infine, il
popolo “fedele”, cioè radicato nella fede, infallibile in credendo, come
ricorda sempre il Papa riecheggiando Lumen Gentium n. 12. Sappiamo bene – e lo
stesso Santo Padre lo ha ribadito nel recente discorso all’Azione Cattolica
Italiana (30 aprile 2021) – che il “senso di fede” del “popolo di Dio” non si
esprime con semplici meccanismi democratici, perché non sempre l’opinione della
maggioranza è conforme al Vangelo e alla Tradizione. Piuttosto si alimenta con
l’umile accoglienza della Parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti, la
fraternità e la preghiera, ossia le quattro “assiduità” della prima comunità
cristiana (cf At 2,42). Occorre però sapere intercettare questo “senso di
fede”, saperlo ascoltare: a questo ci invita, ancora, Papa Francesco nel
discorso del 30 gennaio: «Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio
della gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano,
le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non
abbiamo paura». È, ancora una volta, il Concilio Vaticano II tradotto in
italiano.
Una storia che affonda le radici nel Concilio
Vaticano II
2. Cari confratelli, rileggiamo ora la nostra storia di
Chiesa, lasciandoci guidare dai frutti che abbiamo raccolto dall’albero del
Concilio. Le radici della nostra Conferenza Episcopale affondano proprio nel
terreno dissodato dal felice annuncio di San Giovanni XXIII. La prima Assemblea
Generale, con la partecipazione di tutti i Vescovi d’Italia, si svolge il 14
ottobre 1962. È stato un momento storico per l’Episcopato italiano, che avremo
modo di ricordare. Era stato preceduto dieci anni prima (8 gennaio 1952) da una
riunione, svolta con riservatezza, cui parteciparono i Presidenti delle
Conferenze regionali delle regioni conciliari. E venne seguito dieci anni dopo
(nel 1972) dal riconoscimento vero e proprio della identità della CEI come
istituzione, riformata dopo il Concilio, con un profilo pensato e voluto da San
Paolo VI per dare il giusto dinamismo e la capacità d’iniziativa alla Chiesa
che è in Italia, in comunione con il Papa, ma anche capace di assumersi le
proprie specifiche responsabilità. Nascono i piani pastorali e i Convegni
ecclesiali, di dieci anni in dieci anni. Coinvolgendo migliaia di persone nella
celebrazione e nella preparazione, questi risultano di fatto una sorta di
convocazione allargata della Conferenza stessa. Non è un caso che
l’elaborazione del primo Documento pastorale (“Evangelizzazione e Sacramenti”,
1973) e l’organizzazione del primo Convegno Ecclesiale (“Evangelizzazione e
promozione umana”, Roma 1976), nei primi Anni Settanta siano proprio
sincronizzati con il Sinodo dei Vescovi, un altro strumento voluto da Paolo VI
a livello di Chiesa universale, e si configurino appunto in senso sinodale. Con
un grande risultato: si conferma la scelta della pastorale
dell’evangelizzazione, intesa non solo come trasformazione ad intra della
Chiesa, per passare da comunità di praticanti a comunità di credenti
evangelizzati, ma anche come impegno di servizio e di trasformazione della
società italiana. La cifra della “promozione umana”, strettamente collegata
all’evangelizzazione, esprime bene questa intenzione pastorale-missionaria.
Il successo dell’esperimento degli Anni Settanta – anche con il confronto
dialettico che ne scaturisce, e che si ripropone nei successivi appuntamenti –
porta alla riproposizione dello schema, di decennio in decennio. E così, negli
Anni Ottanta, si dà vita a un nuovo Documento pastorale: “Comunione e comunità”
(1981). La scelta pastorale, da un lato, obbedisce a una precisa visione
ecclesiologica che ha ormai fatto propria l’idea della Chiesa come comunità di
credenti evangelizzati e, dall’altro, risponde alle tensioni di quegli anni. Il
secondo Convegno Ecclesiale nazionale (“Riconciliazione cristiana e comunità
degli uomini”, Loreto 1985) detta la linea pastorale che sarà attuata in Italia
per l’intero pontificato di San Giovanni Paolo II e che può essere sintetizzato
con le parole di Papa Wojtyla: è urgente «una sistematica, approfondita e
capillare catechesi degli adulti, che renda i cristiani consapevoli del
ricchissimo patrimonio di verità di cui sono portatori e della necessità di
dare sempre fedele testimonianza alla propria identità cristiana» (Giovanni
Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, Loreto, 11 aprile 1985).
Gli Anni Novanta, segnati dal tema “Evangelizzazione e testimonianza della
carità” (1990), vedono il rafforzamento dell’idea di una Chiesa che è attenta
ai dinamismi e alle problematiche della società italiana a cui vuole
fattivamente rispondere, facendosene carico. La responsabilità della Chiesa è
individuata nel suo essere una comunità che educa alla fede, nella
«consapevolezza che in Cristo ci è donata la verità che salva […] Così la
Chiesa rende anche un servizio eminente alla formazione delle persone dotate di
una propria precisa e consistente identità, e aiuta la nostra società e la
nostra cultura a resistere alla minaccia più grave che la insidia dal di
dentro, e che consiste nel rifiutare o nel mettere tra parentesi la questione
della verità dell’uomo, con tutte le sue enormi implicazioni culturali, etiche
e pratiche» (CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 8). Il terzo
Convegno Ecclesiale (“Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”,
Palermo 1995) sottolinea come l’accezione teologica della carità corrisponda
appieno alla proposta dell’evangelizzazione e imponga la necessità di un
discernimento comunitario-ecclesiale, inteso come un vero e proprio metodo di
azione pastorale. Solo così si può pensare a scelte pastorali che siano al
contempo condivise e profetico-creative.
Gli Anni 2000 ci consegnano, nei due Orientamenti “Comunicare il Vangelo in un
mondo che cambia” (2001-2010) ed “Educare alla vita buona del Vangelo”
(2010-2020), una vera e propria “conversione pastorale” che permetta alla
comunità cristiana di vivere una vita buona e bella, incentrata sul Vangelo, e
di essere connotata dalla missione già a partire dalle parrocchie che devono
assumere un “volto missionario”, definito nella Nota pastorale “Il volto
missionario delle Parrocchie in un mondo che cambia” (2004). Il quarto Convegno
Ecclesiale (“Testimoni di Cristo risorto, speranza del mondo”, Verona 2006)
richiama l’importanza di un’effettiva sinodalità nella vita delle Chiese e
centra l’azione pastorale-missionaria delle Chiese italiane in cinque ambiti di
vita personale e sociale: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità
umana, la tradizione, la cittadinanza. L’azione della Chiesa è così estroversa
– “in uscita” – a favore di tutti quegli ambiti culturali-esistenziali che
esprimono la concretezza della vita e l’esigenza di unità interiore. Il quinto
Convegno Ecclesiale (“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, Firenze 2015) con i
cinque verbi tratti da Evangelii Gaudium – uscire, annunciare, abitare,
educare, trasfigurare – traccia la rotta lungo cui navigare. Le parole di Papa
Francesco a Firenze sono la bussola: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta,
sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero
una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza.
Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà».
La ricchezza di questa nostra storia conferma che la sinodalità, come stile,
metodo e cammino, è perfettamente coerente con un percorso che abbraccia cinque
decenni, tanto più per la consapevolezza di un “cambiamento d’epoca” in atto.
Come nei primi Anni Settanta, quando si disegnò il metodo dei Documenti, poi
Orientamenti pastorali, verificati e rilanciati nei Convegni ecclesiali, così
oggi la Chiesa che è in Italia è chiamata a un discernimento che generi
conversione, comunione e corresponsabilità. Disegnare forme rinnovate è la
nostra responsabilità odierna. In continuità con la storia di una Chiesa di
popolo che, tanto più dopo le prove degli ultimi due anni, è chiamata a una
propulsione rinnovata, che guardi ai processi, punti sulle relazioni, a partire
dal concreto vissuto di ciascuno, sappia entrare con calore nelle pieghe della
vita delle donne e degli uomini per offrire parole e testimonianze di speranza.
[...]
Un “cammino sinodale” per
vivere il Noi ecclesiale
4. Cari confratelli, tornando al brano della Pentecoste,
non si può non rilevare che Pietro è un elemento di continuità tra il prima e
il dopo-risurrezione (cf At 1,13). Dopo la Pasqua, Pietro è ancora un destinatario
prediletto dell’affetto del Risorto e riceve il mandato di prendersi cura del
gregge del suo Signore (cf Gv 21,15-19). Qualche tempo dopo, continua a essere
un punto di riferimento per la neonata comunità. È lui, infatti, che prende la
parola e che fa maturare in tutti una decisione importante, come quella
d’integrare nel gruppo dei Dodici un nuovo componente dopo la scomparsa di
Giuda (cf At 1,15-26). Nonostante tutto, Pietro rimane per gli altri apostoli e
i discepoli colui che sa discernere le situazioni presenti e sa proporre nuove
soluzioni da praticare insieme.
Anche noi, grazie alla particolare identità della nostra Assemblea, abbiamo la
grazia di essere particolarmente uniti a Pietro: siamo grati al Vescovo di Roma
e nostro Papa per quanto c’incoraggia a fare costantemente. La Chiesa che è in
Italia – la nostra Chiesa, le nostre Chiese – non è mai stata e mai sarà in
contrapposizione a Pietro, al Suo Magistero, alla Sua Parola. Per questo, oggi,
come è sempre avvenuto nella nostra storia, ci sentiamo chiamati a vivere la
sinodalità, a disegnare un “cammino sinodale”.
Sì, si tratta proprio di un “cammino”, non semplicemente di un evento, perché
in gioco è la forma di Chiesa a cui lo Spirito ci chiama in particolare per
questo tempo. Il “cammino sinodale” rappresenta così quel processo necessario
che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre
meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile,
perché attento ai complessi cambiamenti in atto e desideroso di dire la verità
del Vangelo nelle mutate condizioni di vita degli uomini e delle donne del
nostro tempo. Poiché siamo tutti chiamati ad acquisire questo stile, occorre
che assumiamo con responsabilità la decisione di coinvolgerci in questo “cammino”
che, come comprendiamo bene, non può risolversi in adempimenti formali, né
soltanto nell’organizzazione di eventi che, a lungo andare, rischiano di
diventare, come ebbe a dire San Giovanni Paolo II, “apparati senz’anima,
maschere di comunione” (Novo Millennio Ineunte, n. 43).
Al contrario, la sfida che attende anzitutto noi Vescovi è quella di mettere in
campo percorsi sinodali capaci di dare voce ai vissuti e alle peculiarità delle
nostre comunità ecclesiali, contribuendo a far maturare, pur nella multiformità
degli scenari, volti di Chiesa nei quali sono rintracciabili i tratti di un Noi
ricco di storia e di storie, di esperienze e di competenze, di vissuti plurali
dei credenti, di carismi e ministeri, di ricchezze e di povertà. È uno stile
che domanda una serie di scelte che possono concorrere a rappresentare la forma
concreta in cui si realizza la conversione pastorale alla quale Papa Francesco
insistentemente ci richiama. È uno stile che vuole riconoscere il primato della
persona sulle strutture, come pure che intende mettere in dialogo le
generazioni, che scommette sulla corresponsabilità di tutti i soggetti
ecclesiali, che è capace di valorizzare e armonizzare le risorse delle
comunità, che ha il coraggio di non farsi ancora condizionare dal “si è sempre
fatto così”, che assume come orizzonte il servizio all’umanità nella sua
integralità. È un cambio di rotta quello che ci viene chiesto: le possibili
tappe del “cammino” ci permetteranno di familiarizzare con questo stile, perché
esso possa arrivare a permeare il quotidiano dei nostri vissuti ecclesiali.
Sono persuaso che tutti riconosciamo le ragioni che ci orientano nella
direzione del “cammino sinodale”. Prima fra tutte è sicuramente la cura del Noi
ecclesiale. Nei mesi passati, dopo la stretta del primo lockdown, alla
riapertura delle chiese, con la ripresa delle attività pastorali consentite
dalle norme per la limitazione dei contagi, si è fatto inequivocabilmente
chiaro un volto delle nostre comunità fatto di forme molteplici di appartenenza
all’unico Noi ecclesiale. Non è stato evidentemente un fenomeno generato dalla
pandemia. Quest’ultima lo ha solo scoperto, gli ha tolto ogni velo. E ci siamo
resi conto, ancora meglio, di come le nostre comunità cristiane siano popolate
da donne e uomini che interpretano figure plurali di esperienza credente, tutte
degne di essere riconosciute nell’appartenenza all’unica tessitura della rete
ecclesiale, la cui bellezza è data anche da questa multiformità. Da tale
prospettiva il “cammino sinodale” può essere davvero garanzia di un Noi
ecclesiale allargato, inclusivo, capace di favorire un reciproco riconoscimento
tra i credenti, all’altezza di dare forma storica alla figura conciliare di una
Chiesa “popolo di Dio”.
In una dinamica di Chiesa missionaria lo stile sinodale, lungi dal favorire
processi di arroccamento ecclesiale e clericale, al contrario muove la vita
delle comunità in una direzione di estroversione verso quelle periferie che, in
prima battuta, non sono poi così lontane ed estranee ai nostri vissuti
ecclesiali, ma che anzi vi appartengono in qualche modo. È evidente che questo
cammino di popolo deve conoscere il passo comune e la responsabilità condivisa
da parte di tutti. Penso, in questo momento, alla grande ricchezza di tanti
laici e laiche che esprimono, in una vita credente affidabile, un senso forte
di Chiesa e un servizio competente all’annuncio del Vangelo. Penso anche a
tanti altri che, con la loro testimonianza, sono presenti nei mondi della
cultura, della politica, dell’economia, e in essi rendono possibile la presenza
del Vangelo e della comunità dei credenti alla quale, d’altra parte, essi
recano il vissuto, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» (Gaudium
et Spes, n. 1) degli uomini e delle donne di oggi.
Il “cammino sinodale” delle nostre Chiese che sono in Italia ha, insomma,
davvero bisogno di tutti perché insieme si possa continuare a portare avanti la
missione che il Risorto continua ad affidare alla sua Chiesa.
Abbiamo bisogno di riconciliazione
5. Cari confratelli, nella scena della Pentecoste, che
sta guidando la riflessione, c’è un aspetto che colpisce molto. Come scrive
Luca: «Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad
alcune donne e a Maria, la madre di Gesù» (At 1,14). Maria, che aveva visto
morire suo figlio abbandonato dai suoi compagni di viaggio, adesso si trova a
pregare proprio con loro. È una delle immagini più belle e incoraggianti della
Chiesa delle origini: una comunità composta da peccatori riconciliati. Sono
esseri umani come tanti, che però sanno trovare motivi di comunione al di là
delle loro fragilità e delle differenti opinioni. La Risurrezione di Cristo
opera anche queste meraviglie. Ebbene, se qualcuno oggi mi chiedesse: “Di cosa
la nostra Chiesa e anche la nostra società hanno urgente bisogno?”.
Risponderei, senza esitazione, di riconciliazione, aggiungendo subito due
sottolineature.
La prima: la riconciliazione evoca in noi direttamente la persona di Gesù, che
ha fatto incontrare Dio e l’umanità in un abbraccio d’amore ormai indissolubile
(cf Rm 5,10; Ef 2,16; Col 1,12): la potremmo definire una riconciliazione
ecclesiale. Nella scena della Pentecoste, le donne e gli uomini riconciliati
sono il riflesso migliore della grazia del Risorto che si espande: le
inimicizie e i sospetti non sono dimenticati, ma sono vinti dall’esperienza di
un amore più grande. Le pagine successive di Atti ci raccontano di diversità di
vedute: ma la vita interiore dei protagonisti sarà così forte che si potrà
sempre trovare uno spazio di dialogo, di negoziato e di crescita insieme. O la
nostra Chiesa di domani sarà mistica o non sarà; o sarà aperta al dialogo o non
sarà; o sarà maestra di vita spirituale o non sarà; o sarà formatrice di
coscienze o non sarà. Non si tratta dunque di elaborare e poi offrire un
pensiero unico. Papa Francesco ci sprona a guardare in faccia la realtà e a
trovare soluzioni praticabili insieme, suggerendo il modello del poliedro, che
«riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro
originalità» (Evangelii Gaudium, n. 236).
La seconda sottolineatura riguarda la riconciliazione con il mondo. Lo Spirito
consente ai discepoli «di parlare in altre lingue» e agli ascoltatori
d’intenderli (cf At 2,4.8): qui la riconciliazione è sinonimo di empatia. Già
il Concilio aveva definitivamente mutato l’atteggiamento della Chiesa verso la
modernità: non più il sospetto o il rifiuto, ma il dialogo e la profezia. È
tempo di dare seguito a quel processo di confronto fiducioso e intelligente con
la società. Mentre emergono qua e là estremismi, che usano la violenza per
affermare le proprie idee, la comunità ecclesiale, tutta intera, porta il
contributo costruttivo della mediazione e della pace, della razionalità e della
carità, costruendo ponti di comprensione con tutti e prendendo sul serio le
domande antropologiche fondamentali.
Lo sguardo sulla realtà italiana e
internazionale
6. La Pentecoste ci indica poi la via del “realismo
spirituale”. Gli eventi drammatici, come la lapidazione di Stefano (cf At 7) o
la persecuzione dei cristiani di Gerusalemme (cf At 8,1), vengono posti senza
sconti sotto gli occhi del lettore. Così anche gli apostoli e i discepoli tra
cui Maria «si trovavano insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Il gruppo è
spaventato e ne ha ben donde: fuori da quella porta c’è una minaccia di morte
che incombe. Non è forse questo il sentimento che ci ha animato per mesi,
durante il periodo più acuto della pandemia?
«E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno XXXIV, 139), direbbe il Sommo
Poeta, di cui quest’anno ricordiamo il VII centenario della morte, guardando a
questo tempo di rinascita. Le sue parole sono presagio di un cammino nuovo, di
luce e speranza, dopo le tenebre precedenti.
«L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 145), ci
spronerebbe Dante quasi a smuovere le nostre volontà e i nostri desideri verso
quell’anelito a Dio che diventa visione rinnovata dell’umanità. Ne abbiamo
grande bisogno se pensiamo all’attualità italiana e internazionale.
Guardiamo, ad esempio, al cosiddetto inverno demografico. Papa Francesco nel
suo intervento agli “Stati generali della natalità”, organizzati venerdì 14
maggio dal Forum delle Associazioni Familiari, ha ricordato che «le cifre
drammatiche delle nascite e quelle spaventose della pandemia chiedono
cambiamento e responsabilità». Quella degli “Stati generali” è stata anche
l’occasione per un’assunzione d’impegno da parte del Presidente del Consiglio,
Mario Draghi.
Sono ormai più di trent’anni, che la nostra Conferenza puntualmente ricorda la
questione demografica: quello che allora si profilava e che con chiarezza
avevano illustrato gli esperti, oggi, per l’implacabile legge dei numeri, è
manifestamente presente a tutti. Per risalire la china servono ovviamente gli
interventi di carattere fiscale e amministrativo, riassunti ad esempio
nell’“assegno unico” in via d’implementazione per tutte le categorie di
lavoratori e lavoratrici, servono le politiche attive del lavoro soprattutto
femminile, rispettose dei tempi della famiglia e della cura dei figli. E a
proposito di lavoro, chiediamo un’attenzione perché questo avvenga sempre in
condizioni sicure. Basta morti sul lavoro! È un’emergenza da affrontare:
servono una strategia e una forte iniziativa nazionale che coinvolga tutti,
Governo, Istituzioni e cittadini. Ci auguriamo che si proceda in tal senso.
Guardando ancora alla questione demografica, è necessario un approccio
culturale e, mi si permetta, spirituale. Non sono in gioco gli schieramenti
politici e gli interessi, peraltro mutevoli, delle forze politiche. È in gioco
l’atteggiamento verso il futuro, nei confronti del quale l’inverno demografico
e il calo della fecondità denunciano uno strutturale malessere. Per scaldarsi
dal freddo dell’inverno, serve un modello di sviluppo chiaro nei principi e
negli indirizzi di fondo che sappia non solo farsi carico, ma armonizzare in un
quadro organico le varie stagioni della vita, dagli anziani ai bambini. Sulla
trasmissione e sullo sviluppo della vita e della famiglia non sono accettabili
soluzioni al ribasso.
Per questo la nostra Presidenza è intervenuta con un comunicato a proposito del
dibattito in corso sul disegno di legge recante “Misure di prevenzione e
contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso,
sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla
disabilità”. Ribadiamo come ci sia ancora tempo per un “dialogo aperto” per
arrivare a una soluzione priva di ambiguità e di forzature legislative.
Quanto a un nuovo sviluppo, che abbia chiari non solo i traguardi, ma anche i
valori, grande importanza riveste il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
(PNRR).
Può essere una occasione importante di crescita collettiva: vi sia la saggezza
di coinvolgere tutte le energie positive del Paese, che sono tante e, nello
stesso tempo, disperse. Non è nostra competenza entrare nelle determinazioni
tecniche: nello spirito, ad esempio, dell’“Economia di Francesco” e della
prossima Settimana sociale, è opportuno che le varie realtà operanti nel mondo
cattolico lo seguano con operosa attenzione proprio in ordine al “modello di
sviluppo”. Che è italiano e necessariamente europeo; l’Italia – in concreto, le
realtà sociali, istituzionali e culturali – è chiamata a dare un contributo più
vivace e propositivo.
Insieme con la lotta alla pandemia, attraverso la cura e la vaccinazione – due
braccia dello stesso impegno – il PNRR è al centro dei compiti programmatici
che ha assunto il governo sostenuto da un largo consenso parlamentare. Possa un
piano pluriennale di investimenti rappresentare quel tessuto connettivo robusto
e condiviso, su cui poi la dialettica e la polarizzazione politica si possano
sviluppare con responsabilità.
Questo Piano può inoltre diventare un’opportunità per rilanciare l’economia del
Paese, dando respiro e ristoro ad una società provata dalla persistente
emergenza sanitaria, che sta producendo effetti molto pesanti sulla situazione
socio-economica. Lo raccontano bene i dati raccolti dalla Caritas che delineano
un quadro con molte ombre: dal 1° settembre 2020 al 31 marzo 2021, le Caritas
hanno accompagnato 544.775 persone, in media, 2.582 al giorno. La maggioranza è
rappresentata da italiani (57,8%). Quasi una persona su quattro (24,4%) è un
“nuovo povero”, ossia una persona che non si era mai rivolta in precedenza alla
rete Caritas. Si tratta di 132.717 persone in totale, in media 629 nuovi poveri
al giorno. Nel corso di oltre un anno di pandemia si sono affacciati alle
Caritas almeno 453.731 nuovi poveri.
Guardando alla situazione internazionale, ci uniamo all’accorato appello del
Santo Padre affinché in ogni area di conflitto – e, in particolare, in Terra
Santa – tacciano le armi e ci si incammini sulla strada del dialogo e della
riconciliazione. Di fronte alla guerra, che il Papa ha definito «un fallimento
della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte
alle forze del male» (Fratelli tutti, n. 261), è necessario pregare ma anche
fare ogni sforzo per favorire la pace. Solo promuovendo la giustizia e lo
sviluppo, aiuteremo il Mediterraneo a tornare ad essere ciò che fu – come
auspicava Giorgio La Pira – ovvero luogo di incontro, di unione e di
arricchimento reciproco, e non di sofferenza, dolore e morte come accade ormai
da troppo tempo, spesso nell’indifferenza generale. Le cronache di questi
giorni rendono ancora più necessarie iniziative di condivisione e conoscenza
reciproca sullo stile di quanto abbiamo vissuto a Bari nel febbraio 2020. Per
questo, stiamo studiando un’altra occasione che possa far maturare ancora di
più la coscienza di quanto sia attuale il sogno di La Pira: il Mediterraneo,
culla delle civiltà monoteiste che egli chiamava «la triplice famiglia di
Abramo», è chiamato a riprendere il suo posto nella storia in un mondo sempre
più minacciato da guerre e distruzione.
Circa il fenomeno migratorio, la Conferenza Episcopale Italiana, attraverso i
suoi Uffici nazionali, ha garantito l’arrivo in Italia e l’accoglienza in
sicurezza di oltre mille profughi dal Medio Oriente e dall’Africa, dimostrando
che è possibile un’alternativa agli ingressi irregolari e alle morti in mare,
su cui un giorno sarà severo e inappellabile il giudizio di Dio: “Dov’è tuo
fratello?”.
Fare tempo e spazio alle domande degli uomini
e delle donne di oggi
7. Cari confratelli, questi dati ci ricordano che la
realtà non è qualcosa che è “là fuori” ed è semplicemente da riconoscere. Ogni
volta che guardiamo la realtà, lo facciamo con i nostri occhi. Se la nostra è
una lettura spirituale della vita, questo ci consente di vedere cose e
opportunità di amore che altri non vedono. Per questo, è importante esprimere
la nostra gratitudine a quanti sostengono lo sguardo verso la realtà con la
loro testimonianza: sacerdoti (durante la pandemia ne sono morti oltre 200);
religiosi e religiose; catechisti ed educatori. Pur nelle difficoltà e nelle
ristrettezze imposte dalla pandemia, mai è mancata la proposta liturgica e di
educazione alla vita cristiana. «La comunità evangelizzatrice si mette mediante
opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si
abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando
la carne sofferente di Cristo nel popolo. […] Accompagna l’umanità in tutti i
suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere» (Evangelii gaudium,
n. 24). È uno dei tratti della Chiesa in uscita, che – nonostante le
restrizioni – ha saputo muoversi verso l’umanità.
La scena della Pentecoste si conclude di fatto con l’accoglienza di nuovi
battezzati, che cominciano con il condividere alcuni capisaldi della vita cristiana:
il battesimo, l’eucaristia, il credo degli apostoli, la comunione fraterna e la
vita spirituale (cf At 2,41-46). Questo quadro tutto sommato idilliaco non è
l’unico. Più tardi sorgeranno diversità di vedute e dissensi nella Chiesa delle
origini. Eppure nel cosiddetto Concilio di Gerusalemme (cf At 15,1-35) quegli
uomini così diversi ma riconciliati sono riusciti a trovare una soluzione ai
conflitti, valida per sempre: da una parte, s’individua l’essenziale e su
quello si concorda una linea comune; dall’altra, si lascia spazio al carisma
personale su ciò che essenziale non è. La stagione che si sta aprendo
richiederà che soprattutto noi pastori abbiamo il cuore largo di chi sa
discernere, evitando gli estremi di un gretto massimalismo o di uno scialbo
minimalismo.
Cari confratelli, pensare la Chiesa in termini di riconciliazione significa
saper convergere su alcuni punti essenziali, valorizzando nel frattempo anche
la creatività e le nuove proposte. Una Chiesa in “cammino sinodale” sa dare e
fare tempo e spazio alle domande degli uomini e delle donne di oggi. Una Chiesa
in “cammino sinodale” genera uno sguardo positivo e accogliente.
Affidiamo i lavori di questa Assemblea all’intercessione della Vergine Maria,
del suo sposo Giuseppe e a tutti i Santi e le Sante patroni delle nostre
Chiese. Vi ringrazio di avermi ascoltato e di quanto vorrete osservare e
proporre.
Gualtiero Card. Bassetti
Arcivescovo
di Perugia – Città della Pieve
Presidente
della Conferenza Episcopale Italiana