Resoconto della riunione in videoconferenza Google Meet del gruppo AC San Clemente
del 16-1-21, sui temi del percorso formativo di AC “Da corpo a corpo” – tappa
Abbracciare
Sabato 16 gennaio 2021 eravamo in 14, compreso
l’assistente ecclesiastico don Emanuele, collegati in videoconferenza Google
Meet per dialogare sui temi del percorso
formativo di AC “Da corpo a corpo”
e, in particolare, sulla tappa caratterizzata dal verbo Abbracciare.
All’inizio dell’incontro la presidente ci ha
informati che purtroppo è venuta a mancare la moglie del nostro caro Angelo. Il
giorno prima erano stati celebrati i
funerali in parrocchia. Abbiamo espresso le nostre condoglianze ad Angelo e
alla sua famiglia.
Poi è stata data notizia di alcune iniziative
diocesane programmate per l’inizio di gennaio. In particolare si è parlato
della Veglia per la pace dei giovani
di Azione Cattolica, che si sarebbe tenuta alle ore 18 di sabato 23 gennaio, in
diretta sulla pagina Facebook del Settore giovani di AC e su Youtube AGG Roma.
Lunedì 18 si sarebbe tenuto un webinar (seminario sul Web) sugli stili
di comunicazione non violenta.
Quindi la presidente ha introdotto il dialogo
sul tema abbracciare.
Abbiamo un po’ perso l’abitudine ad abbracciare
le persone e quando lo facciamo usiamo molta cautela. Ma ci sono altri modi per
abbracciare gli altri. L’incontro è focalizzato su queste modalità diverse per
abbracciare, e in particolare sulle esperienze di volontariato.
Abbiamo visto un video sull’associazione
chiamata Agata che aiuta i malati oncologici.
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Passa
il favore:
è nato tutto da qui, dalla volontà di passare agli altri il favore che da malati
si era ricevuto. La signora che presentava l’iniziativa ha narrato di essersi
ammalata nel 2015: non c’era intorno a lei un posto o una persona a cui
rivolgersi. Ma, nel suo percorso di malata incontrò quelli che definisce angeli
custodi in terra. Senza di loro, dice, non ce l’avrebbe fatta a reggere le
difficoltà della terapia. In quei mesi
di malattia, disse a se stessa che avrebbe dovuto restituire agli altri quello
che stava ricevendo. E così, da un
invito pubblico su Facebook nacque Agata. All’inizio erano in dieci
socie fondatrici. Chi è da solo nella malattia, che fa? Serviva Agata. E’
sostegno, sorriso, mano tesa. Servivano persone che volessero stare accanto ai
malati senza chiedere nulla in cambio, per il solo piacere di donare e di
donarsi a chi avesse bisogno. Agata nacque a gennaio 2017 a Marconia, in
provincia di Matera.
Al termine del primo anno di attività realizzò
il sogno di acquistare un pulmino con cui accompagnare i malati a effettuare la
terapia, in una struttura di Rionero, a 150 chilometri di distanza. Un percorso
che fino a quel momento non era coperto da alcun tipo di trasporto pubblico.
Un altro modo con cui Agata aiuta i malati è regalando delle parrucche,
per rendere meno angosciosa, specialmente per le donne, la perdita dei capelli
che consegue a certi tipi di chemioterapia (il motto è cento parrucche per
cento sorrisi).
Agata fornisce ai malati oncologici un sostegno
morale e materiale. Agata è diventata la spalla su cui il malato
oncologico, ma anche i suoi familiari, potessero posare la testa per riposare.
Un’altra volontaria ha parlato della sua
esperienza di accompagno dei malati alla terapia e ne ha parlato come di un
atto di amore, in cui anche i volontari ricevono amore. Fare volontariato è
molto gratificante.
Agata è un cuore grande.
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La presidente ha osservato che quello che accomuna
le esperienze di volontariato, come quella del CVS Centro volontari
della sofferenza di padre Novarese di cui ci aveva parlato la settimana prima
Antonietta, è il fare squadra, cioè non si fa mai volontariato da soli. Ci
si abbraccia, cioè si opera insieme. L’esperienza del volontariato accomuna
più persone, si espande, ciascuna non rimane isolato. Il bene si espande
coinvolgendo tante altre persone.
Ciascuno di noi ha avuto esperienze di
volontariato o comunque ne è stato testimone.
Antonietta
Ha raccontato che per tanti anni, nonostante
gli impegni di una famiglia numerosa, a fatto volontariato nel Centro Volontari
della Sofferenza. Portavano i malati, in carrozzina o in barella, nel Comune di
Re, in provincia di Vibo Valentia, in Calabria, per
gli esercizi spirituali. Lì c’è una grande casa, fondata da don Novarese. I
malati non erano autosufficienti, avevano bisogno di essere aiutati in tutto,
ma c’erano tantissimo volontari. Nella comunità di Re c’era una grande chiesa e
un gran parco intorno. Stava fuori di casa una settimana e naturalmente
preparava modo che il marito e i quattro figli avessero sempre da mangiare, in
particolare congelando le pietanze.
Il lavoro dei volontari cominciava preparando
il treno con cui i malati veniva portati in Calabria. Si viaggiava in treno per
tutta una notte. Bisognava assistere i
malti nel viaggio. Arrivati a Re, ad ogni volontario veniva assegnato il
proprio compito. Ad esempio ad Antonietta veniva assegnato tutto un piano per
farvi assistenza. Era bello. Si pregava. C’erano anche momenti di silenzio che
costavano molto ad Antonietta. Una volta le fu assegnata un’invalida che era
nata con problemi a causa del farmaco Talidomide. La mamma l’aveva abbandonata al
momento della nascita ed era cresciuta in un istituto. Non aveva più nessuno.
Antonietta la doveva assistere in tutto, portandola in braccio. Però tornava
tanto felice per quello che aveva fatto. I figli la canzonavano un po’: “mamma,
ti vediamo due alette!”.
Il marito all’inizio era un po’ preoccupato,
ma, dopo aver parlato con i volontari nella sede a via Giulia, qui a Roma, e
dopo aver visto che cosa si faceva a Re, si è convinto. Però pretendeva che
ogni giorno, la sera alle nove, Antonietta le telefonasse. E così facevano.
Dopo aver parlato con una volontaria qui a Roma e aver visto il film che spiegava
che cosa si faceva a Re, disse ad Antonietta: “Quella donna aveva il volto
del Signore”.
Continuava
anche a Roma ad accompagnare i malati, nel servizio macchina.
I
volontari pagavano da sé il costo del viaggio e del lro mantenimento durante il
servizio.
Don Emanuele
Ci ha detto che, da seminarista, anche lui fece
esperienza con il Centro Volontari di Sofferenza.
I Silenziosi operai della Croce, la congregazione,
una Lega sacerdotale mariana, fondata da don Novarese di dedica all’evangelizzazione
dei malati.
Anche don Novarese, beatificato l’11 maggio
2013, fu guarito da una grave malattia per intercessione della Madonna.
Il motto dell’organizzazione è L’ammalato
per mezzo dell’ammalato con l’aiuto del fratello sano. Chi evangelizza è lo
stesso malato, non è la persona sana. Nella
spiritualità del Centro Volontari della Sofferenza i malati sono corresponsabili
e partecipi, non solo nei momenti di
preghiera ma anche, ad esempio, in quelli di formazione e di svago. Ci sono
diversi tipi di gruppi CVS, ad esempio quello di avanguardia, quello di
animazione, quello attivo, quello centrale che funziona tutto il giorno e ogni
giorno, che di solito è al centro delle diocesi. Si dona, ma anche si riceve,
innanzi tutto la preghiera dei malati e poi la loro riconoscenza, il loro
sorriso. Il simbolo dell’associazione è una croce fiorita, che significa affrontare
la sofferenza con serenità, nella fede. Si dà molta importanza di sentirsi
fratelli e sorelle nella carità. Tra di loro i volontari si chiamano anche fratelli
e sorelle.
Mario
Ha raccontato la sua esperienza di assistito
dall’AIL, l’associazione per i malati ematologici, in cui facevano volontariato
diversi ex malati. Alla fine, questa solidarietà, lo faceva sentire come a casa
sua in ospedale. Anche tra i malati ematologici vi era molta solidarietà.
Sergio
Ha detto di sottoscrivere quanto narrato da
Antonietta, don Emanuele e Mario. La sua esperienza con i volontari è quella della
gioventù, nella Congregazione mariana. Andavano a trovare i bambini malati. La
visse da giovane con tanti altri giovani tutti sani. Si era allegri, nonostante
che gli ambienti in cui svolgevano il volontariato non fossero dei più allegri.
Ma anche vivere l’esperienza della malattia è
fondamentale: ci si accorge che nei reparti oncologici c’è una solidarietà, ma
anche di più, una empatia, una capacità di comunicare, di vivere sulla propria
carne quello che vivono anche gli altri.
Questa atmosfera di fortissima empatia non si riesce a vivere altrove, se non
passando per quell’esperienza.
Si vive sulla propria pelle quella che è la
cultura dello scarto. Si passa dall’essere professionisti, uomini che hanno una
loro capacità di reddito e di incidere sulla società, a persone che hanno bisogno
dell’infermiere per cambiarsi un cerotto, per pulirsi. Le persone che sono in
quei reparti sono eccezionali.
In Marco 10,16 Gesù tocca i bambini. Gesù li vuole toccare. C’è
la volontà di capire l’altro, il bambino. E dice anche che chi non accoglie il
Regno come lo accolgono loro non vi entrerà. Non vuol dire che vi
entreranno solo i bambini, ma anche chi si pone in quell’ottica, del bambino.
Pensa che questo sia stato scoperto anche recentemente da papa Francesco, nel
solco di un insegnamento che parte da Paolo VI in poi e di una cultura
avanzata, ad esempio di Edith Stein, Husserl, anche ad un Achille Ardigò [sociologo
bolognese cattolico, zio di Sergio], quando parlò di empatia, o al sociologo ed
economista statunitense Jeremy Rifkin, che disse che l’uomo ha una
dimensione empatica. Non lo disse un
sacerdote, ma un economista americano che in teoria dovrebbe essere tra i più
lontani da un approccio spirituale. Eppure lui lo scopre e quindi, appunto,
disse che l’uomo ha una dimensione empatica, non è possibile ridurlo a
quella monade capitalista, che porta avanti interessi legittimi che
determinerebbero la mano invisibile che regge l’economia. No, la mano invisibile
non c’è! Si deve riscoprire la dimensione empatica che ci unisce tutti,
perché la mano invisibile che ci governerebbe
per il meglio non c’è. Mi sembra che i testi proposti per la riflessione vadano
proprio in quella direzione.
Beatrice
Ci ha parlato dell’esperienza di volontariato
fatta con la sorella Giulia presso la Casa di accoglienza delle suore di Madre
Teresa nel convento di San Gregorio al
Celio. Un’esperienza faticosa e a tratti
anche frenetica. I volontari aiutavano al momento del pasto. Le suore sono molto
esigenti. Bisognava rispettare gli orari. Bisognava pulire le stoviglie in
tempo. E’ stata un’esperienza di servizio e accoglienza molto bella. Sono accolti
italiani e stranieri di molte etnie. Le suore aiutano nelle procedure di regolarizzazione
dell’immigrazione. Vi erano anche malati psichiatrici. Gli ospiti professano
diverse religioni. Si ha molto cura di rispettare le prescrizioni in materia di
cibi delle diverse religioni.
Gloriana
Ci ha parlato dell’esperienza di AC nel carcere
di Rossano, in provincia di Cosenza, ad iniziativa del gruppo di AC di Rossano.
I reclusi hanno riferito di essersi sentiti abbracciati e quindi, a loro volta, abbracciano tutta l’Azione
Cattolica, una realtà esterna al carcere che rappresenta la società pronta ad
abbracciarli finita la detenzione. Hanno detto di aver trovato in Azione
Cattolica una vera famiglia. Si sono
dovuti superare tanti ostacoli, anche burocratici.
Chiara
Ha
vissuto diverse esperienze di servizio. Il servizio è una dimensione
costitutiva dell’Azione Cattolica.
Ne ricorda due.
La prima quando in parrocchia, nel 2000, svolse
servizio nelle scuole della zona dove erano accolti giovani da tutti il mondo
venuti in Italia per il Grande Giubileo che si svolse quell’anno. Fu un’esperienza
gioiosa anche se comportava lavori umili e faticosi, come il fare le pulizie.
La seconda è stata una veglia della pace
diocesana, molto bella e per questo memorabile, in cui fece il momento di preghiera
in centro e poi si andò a portare i pasti caldi ai senza tetto a piazza Augusto
imperatore. Quell’esperienza spiega bene che non c’è separazione tra preghiera e
servizio. Anche abbracciare, facendo servizio, è una forma di preghiera.
Carlo
Ha raccontato che l’assistenza ai malati fu la
sua prima esperienza di volontariato, a diciott’anni, a Chieti, dove viveva con
la sua famiglia, già in Azione Cattolica da diversi anni. L’AC spingeva a fare
volontariato. Faceva il barelliere nell’UNITALSI, che portava i malati nei
santuari. Nel suo caso accompagnava i malati a Loreto o a Lourdes.
Ricorda che per molti anni alle veglie
diocesane dell’Azione Cattolica partecipò tutto il gruppo degli ospiti della
Casa di Accoglienza di San Gregorio al Celio.
Una
volta, al termine di un campeggio con i ragazzi dell’ACR della parrocchia di Santa
Maria della Mercede, una mamma venne a complimentarsi con i volontari dell’AC e
si stupì molto quando seppe che non venivano pagati.
L’AC è una grande esperienza di volontariato
educativo, fatta di 37.500 dirigenti e
50.000 educatori e animatori, tutti volontari. E dall’AC sono uscite vere e proprie
storie di santità e comunque persone riuscite, responsabili. Un grazie anche
all’AC, dunque!
Al termine don Emanuele ci ha impartito la benedizione.