Giaccardi/Magatti,
La scommessa cattolica, Il Mulino, 2019 – scheda di lettura – 7
«Sarebbe un errore […] rigettare il
contributo critico della modernità» scrivono i nostri autori «che per molti aspetti sfonda porte che
già dentro la Chiesa erano aperte». Si, è vero. La Chiesa ha imparato molto dalla modernità,
ad esempio il rispetto della persona umana, durante lo sviluppo dei processi
democratici che tuttavia a lungo avversò, ma si è ancora piuttosto lontani dal
realizzare un’organizzazione ecclesiale che lo manifesti in modo compiuto. E
così in diversi altri campi.
C’è ancora un bello scarto tra il
modello evangelico e la prassi. «Identificare il messaggio di Cristo con l’esigenza di
regolazione della vita sociale non è forse una riduzione pericolosa per lo
stesso Vangelo?», si chiedono gli autori. Porre una propria opinione sotto
forma interrogativa è prassi consueta negli ambienti sociali con poca libertà,
nei quali si è sottoposti alle imprevedibili bizzosità di certe autorità paterne.
A questo punto gli autori affrontano la
questione del tipo di organizzazione istituzionale che corrisponde al modello di fede
secondo adesione, di cui avevano descritto i problemi. «Non si tratta di dire qui se il modello
fosse giusto o sbagliato», scrivono. Perché non è il caso? Non è il caso
di dire con parresia, vale a dire con
franchezza, che un modello sostanzialmente antievangelico, che per di più ha
creato tanta sofferenza e grandi problemi a tante grandi anime religiose, fosse sbagliato? Gli autori non ne
spiegano la ragione. Accennano ad
un’organizzazione i cui interessi e principi si sono sovrapposti e
confusi con gli interessi dei detentori del potere, disposti anche a soprusi,
violenze, ingiustizie, pur di difendere i propri privilegi. E questo non è
stato sbagliato? Diciamolo dunque: è
stato ed è sbagliato.
Gli autori non approfondiscono, ma l’opera
non ha le dimensioni e le caratteristiche per farlo. Però dà spunti utili per
proseguire.
Si passa poi a criticare la soggettività
malata dei nostri tempi, che da un lato
vorrebbe fare da sé e dall’altro è consapevole di essere in balia di eventi che
non controlla.
Questo voler fare da sé porterebbe ad un certo
disordine, per cui ai tempi nostri non si parla più di virtù. Dal lato delle istituzioni, il fare spazio a questo tipo di
soggettività, avrebbe portato, secondo gli autori, ad una attenzione eccessiva
verso le procedure e i riti vuoti di significato. Questo sarebbe un effetto
della secolarizzazione, quindi della desacralizzazione del potere. Gli autori si riferiscono
alle democrazie? Se è così, non tengono conto che esse sono sistemi basati su
valori, non su procedure, anche se le procedure sono essenziali per presidiare
quei valori, per evitare l’arbitrario dispotismo. Il valore fondamentale delle
democrazie è infatti il limite di ogni potere: il rifiuto di qualsiasi potere
che pretenda di essere assoluto, quindi non criticabile, non negoziabile, autocratico.
L’organizzazione ecclesiastica cattolica, il
cui potere, secondo un’obsoleta ideologia di impero religioso ideata mille anni
fa, si basa sulla propria sacralizzazione, si trova spiazzata in questo
contesto.
E un po’ come al tempo della Riforma
protestante, della quale gli autori sembrano non apprezzare l’alto valore
religioso, quando i riformatori centrarono la propria critica contro un
dispotismo sacralizzato anti-evangelico: mantenere il modello dell’adesione richiederebbe
una politica autoritaria, se non addirittura violenta, che oggi, però,
il contesto democratico impedisce di ricreare. I processi democratici privandola
del proprio potere temporale e di molta dell’influenza sugli altri poteri
civili sottrassero alla Chiesa
cattolica l’arma dei boia, che, ad esempio, sotto l’ultimo Papa-Re, Pio 9^, proclamato beato nel 2000, fu
piuttosto usata contro i rivoluzionari irredentisti repubblicani.
Una via proposta è quella di allearsi con
le forze politiche che promettono di difendere
religiosi. Essa è anche la via dei fondamentalismi religiosi che, ad
esempio, hanno portato diverse Chiese cristiane statunitensi ad appoggiare il
regime del presidente Donald Trump. Questo modello però, osservano gli autori,
è molto pericoloso per la Chiesa cattolica (che l’ha già seguito al tempo del
fascismo mussoliniano), perché si ritroverebbe con le mani legate e anche ricattabile,
insomma potrebbe essere considerato come un vero e proprio patto con il diavolo. Esso però è stato largamente praticato dalle
Chiese cristiane e, in particolare, da quella cattolica. I concordati, gli accordi
strutturati al modo di quelli tra stati, ma conclusi tra il Papato e uno
stato, spesso sono stati qualche volta proprio qualcosa di simile, ad esempio i
concordati conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia sotto egemonia fascista e
nel 1933 con il Reich Germanico, già
sotto dominio nazista. La Santa Sede, il Papato romano, in quest’ultimo fu
rappresentata da Eugenio Pacelli, che poi divenne papa nel 1939.
L’Italia quindi non ne è stata immune, osservano eufemisticamente i nostri autori,
i quali, ad un certo punto, osservano che però i Papi non ambirono mai il
potere politico, cosa che storicamente mi sembra difficilmente argomentabile,
anche tenendo conto della durissima resistenza opposta dal Papato contro il
nuovo Regno d’Italia dopo essere stato spossessato del suo piccolo regno
temporale nel Centro-Italia, con capitale Roma, che era motivata proprio dalla
pretesa di riavere uno stato, ottenendone poi dal Mussolini un simulacro nella
Città del Vaticano, con il che, finalmente, si considerò chiusa la questione,
in una conciliazione di cui oggi non
si va più tanto fieri.
Quel modo di procedere, di federarsi con i
potenti della Terra trattando con loro da pari, che per circa Settecento anni
era stato alla base dell’influenza politica del Papato romano, non funzionò più
tanto bene nelle relazioni con le democrazie, anzi si rivelò spesso
fallimentare, a causa del manifestarsi di una certa scristianizzazione tra gli
europei dicono alcuni, o dell’assimilazione dei processi democratici tra i cristiani, sostengono altri. In Italia e
in Germania, infatti, andò meglio per la presenza di forti partiti
democristiani, quello italiano molto influenzato dal Papato.
Ma se, in definitiva, delusero quegli accordi con
i potenti della Terra che erano piuttosto antievangelici (certamente non fu
quello l’atteggiamento del Maestro verso i potenti della sua terra), bisognerebbe
vedere in quel risultato un segno incoraggiamento del permanere della fede,
mentre di solito lo si considera negativamente.
A questo punto, i nostri autori propongono un
modello diverso di manifestare fede e appartenenza, finalmente in sintonia con
il vangelo, ma anche con le conquiste della modernità: quello della fede come affidamento, fondato sul
nostro essere viventi che creano società, per i quali dunque lo stabilire
relazioni è molto importante.
Siamo liberi
in relazione, quindi aperti agli
altri. A questa apertura il vangelo offre una risposta antropologica, l’esempio
del Maestro e le sue esortazioni, sulla quale poi le istituzioni
ecclesiastiche hanno costruito una dottrina normativa: la salvezza sta nell’andare
verso gli altri, senza i quali non possiamo vivere pienamente.
Detto questo, la proposta degli autori non è
ancora ben articolata. Che cosa comporterebbe in pratica?
E qui il discorso si collega con la tappa del
Sollevare del percorso formativo di Azione Cattolica,
che richiama anche l’idea della Chiesa in
uscita e della Chiesa come ospedale da campo
che ricorre nel pensiero di papa Francesco.
Il modello di ecclesiologia per adesione proponeva un’autorità a cui gli altri dovevano
appunto aderire. Quest’altro si basa
sulla concezione di un’autorità sollecita e amorevole, al modo del Padre
misericordioso della parabola evangelica, un’autorità che si manifesta
soprattutto nell’autorizzare. La posizione dei fedeli cambierebbe per la
maggior libertà nell’ideare il nuovo che sarebbe loro concessa. Ma mi pare
difficile immaginare che la sterminata schiera di nostri padri ecclesiali possa
veramente adeguarvisi.
Nell’affidamento,
la fede servirebbe a creare un certo
modo di essere secondo il quale dovremmo agire in sintonia con la vita in cui siamo immersi. Il discorso
andrebbe sviluppato molto. Come fare, in
pratica? Ad esempio nella vita di una parrocchia.
Bisognerebbe agire per cambiare il cuore degli
esseri umani e quindi le loro società, quindi dal basso e con moto diffusivo.
“Altresì dichiariamo - fermamente - che le
religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio,
ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spagimento di sangue”, si legge, ricordano in nostri autori, nel Documento sulla fratellanza umana per la
pace universale e il bene comune sottoscritto da papa Francesco e l’imam di
al-Azhar, Ahmad al-Tayyb, ad Abu Dhabi il 4-2-19. Intesa come proposito per il
presente e il futuro, quell’affermazione è molto significativa; se vuole
riferirsi al passato, mi pare difficilmente dimostrabile.
Gli autori ricordano il pensiero dell’eclettico
filosofo catalano Raimon Panikkar Alemany (1918-2010), nato da padre induista e all’induismo
molto legato, benché cristiano, che parla del declino del cristianesimo come lo
abbiamo conosciuto, molto legato all’esercizio del potere politico, verso un’epoca di cristiania, molto più basata sull’interiorità. La grande sfida del
futuro è quella del rapporto tra fede e libertà,
uno dei grandi temi del Concilio Vaticano 2°. La Chiesa cattolica finora è
rimasta a mezza via tra tentazione di tornare indietro e la fuga in avanti
verso una Chiesa non Chiesa. Secondo
Panikkar occorre interrogarci a fondo sul significato dell’universalismo che c’è nel cattolico (universale) della nostra
Chiesa. Nell’era della globalizzazione una fede universalistica che aiuti a ricomporre le fratture senza imporre
tirannicamente la fine delle differenze potrebbe trovare un senso nuovo. Che
cosa tutto questo possa comportare per la nostra Chiesa, avvisano gli autori,
rimane ancora da chiarire. Ma certo, avvertono, essa rischia di soffocare sotto
le sue istituzioni se non accetta di riformarsi di continuo, anche sviluppando
un pensiero filosofico e teologico che alimenti il dialogo culturale e
istituzionale. Secondo gli autori il Papato è stato un’istituzione fondamentale
per garantire identità e unità, e su questo le opinioni non sono tutte in quel
senso, e non pochi ritengono che la Chiesa sia sopravvissuta nonostante il Papato e non grazie ad esso, soprattutto pensando a
certe epoche storiche. Quell’istituzione però spesso si è rivelata problematica
per l’esercizio della libertà, anche solo di coscienza (il papa Pio 9° la
condannò come uno degli errori del nostro tempo, mentre il Concilio Vaticano
2° la pose come base dell’atteggiamento di fede). E non c’è dubbio, concludono
gli autori, che proprio la questione della libertà e quella della mistica siano
i due punti sui quali la Chiesa cattolica arranca.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro Valli.