INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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venerdì 19 febbraio 2021

Enciclica Fratelli tutti: il mito del popolo. Tema proposto per il dialogo nell’incontro in Google Meet del 20 febbraio, ore 16:45.

 

Enciclica Fratelli tutti: il mito  del popolo. Tema proposto per il dialogo nell’incontro in Google Meet  del 20 febbraio, ore 16:45.

  

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mario.ardigo@acsanclemente.net

comunicando il proprio nome, la parrocchia di residenza, i temi di interesse. Questi dati saranno cancellati dopo ogni riunione e dovranno essere nuovamente inviati per partecipare all’incontro successivo.

 

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Dall’enciclica Fratelli tutti - par. da 154 a 167

CAPITOLO QUINTO

LA MIGLIORE POLITICA

154. Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso.

Populismi e liberalismi

155. Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture.

Popolare o populista

156. Negli ultimi anni l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per esaltarlo in maniera esagerata.

157. La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.

158. Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune».

159. Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità.

160. I gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.

161. Un’altra espressione degenerata di un’autorità popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si risponde a esigenze popolari allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza progredire in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro creatività. In questo senso ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il proporre un populismo irresponsabile». Da una parte, il superamento dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.  Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».

162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».  Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.

Valori e limiti delle visioni liberali

163. La categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile.

164. La carità riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via. Perché «non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica».

165. La vera carità è capace di includere tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di generare. Nel caso specifico, anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della storia orientata a beneficio degli ultimi. Per altro verso, a volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni. Ciò dimostra che è necessario far crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente, per aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che soffrono e muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua volta implica che non c’è una sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta economica che possa essere applicata ugualmente per tutti, e presuppone che anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi differenti.

166. Tutto ciò potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello che succede quando la propaganda politica, i media e i costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo potere. Perciò, la mia critica al paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.

167. L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici. Ci sono visioni liberali che ignorano questo fattore della fragilità umana e immaginano un mondo che risponde a un determinato ordine capace di per sé stesso di assicurare il futuro e la soluzione di tutti i problemi.

 

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1.  Nell’enciclica, la prospettiva politica è molto ampia, si pensa a uno sviluppo che riguardi l’intera comunità mondiale, cogliendo in tal modo le opportunità offerte dalla globalizzazione.  La fraternità viene considerata parte del bene comune.

 Va tenuto conto, tuttavia, che l’essere umano pensa al mondo a partire dalle proprie comunità di prossimità, e ciò per limiti biologici di specie della nostra mente. Il principio generale è che nulla di ciò che si pensa  in grande può essere attuato se non lo si può sperimentare nel piccolo  e vicino. Questo fa capire l’importanza di un’esperienza comunitaria come la parrocchia, pur con tutti i suoi limiti e le sue difficoltà, in particolare  nel conciliare l’elemento istituzionale e quello comunitario.

  Se non è possibile farne esperienza  in piccolo  ciò che si pensa in grande  pesa e coarta l’essere umano come dall’esterno. Il liberalismo, il movimento filosofico e politico manifestatosi dal Seicento in filosofia e da fine Settecento in politica tra gli europei, quindi in Europa e nelle terre del resto del mondo finite nel dominio degli europei, volle appunto emancipare le persone umane dal peso  delle potenze collettive sulle quali non avevano voce, pensando e attuando un complesso di  diritti umani fondamentali  che definiscono una dignità  dell’individuo verso quelle potenze, limitandole. Questa pretesa fu fondata su rilievo che venne dato al lavoro  e alla proprietà  individuale, il primo come giustificazione della seconda e la seconda come area di diritti che circondava  la persona e che la preservava dal cadere nel dominio completo altrui. Il principale sviluppo politico del liberalismo fu la democrazia come oggi la intendiamo, come sistema di limiti fondato su valori, il principale dei quali è il ripudio di qualsiasi potenza che si proponga come assoluta, quindi libera da qualsiasi limite e in questo senso sovrana. La democrazia liberale contrasta l’assolutismo in ogni forma si presenti, anche quando si manifesta come dittatura di una maggioranza, e abolisce la sovranità compresa quella di un popolo, in qualsiasi modo lo si voglia intendere. Una espressione di principi liberali è contenuta nell’art.1, 2° comma, della Costituzione, che stabilisce la supremazia del popolo su ogni altra potenza, in questo consiste l’affermazione di una sua sovranità, ma, nel contempo, anche il limite di questo potere, che deve esercitato nei limiti costituzionali, quindi anche rispettando la dignità di ogni persona, con il che si abolisce la sovranità come era intesa al tempo dei regimi assoluti  che, tranne quello del Papato, si dissolsero nel corso dell’Ottocento, nonostante un tentativo di “restaurazione”. Senza liberalismo non c’è democrazia. La ragione della storica e pervicace avversione verso il liberalismo della gerarchia della nostra Chiesa risiede del fatto che il potere della gerarchia del clero pretende di essere assoluto.

 Uno dei maggiori limiti dell’enciclica Fratelli tutti è proprio nella valutazione sul liberalismo storico, disconoscendone il suo ruolo nell’emancipazione delle persone da poteri pubblici dispotici, senza distinzione (questo è importante capire) tra quelli autocratici, come il Papato romano, aristocratici (fondati sulle pretese di dominio di classi che vantano una qualche superiorità sociale o antropologica), proprietari (fondati sulla pretesa di diritti di proprietà che comprendono poteri pubblici), prevaricatori (basati sul solo esercizio della forza), ma anche democratici in varia misura che  tuttavia, come le democrature basate sull’idea di dittatura di una maggioranza, cerchino di liberarsi dei limiti costituzionali,  e nella costruzione dell’ideologia della dignità della persona umana, senza distinzione di etnia, sesso, lingua, religione, cultura, opinioni, condizioni personali e sociali.

 Va ricordato che al liberalismo va ricondotta l’affermazione della libertà di coscienza,  duramente avversata dalla Chiesa Cattolica in contrapposizione ai moti democratici sviluppatisi dal Settecento, fino a comprenderla negli  errori  dell’epoca condannati nel Sillabo [=elenco] allegati all’enciclica Quanta cura  [1864] del papa Pio 9° e, un secolo dopo, invece riconosciuta durante il Concilio Ecumenico Vaticano 2° (1962-1965), in particolare sulla  Dichiarazione sulla libertà religiosa “Della dignità umana – Dignitatis Humanae, come fondata “realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione”:

«2. Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società.»

  Nell’enciclica si collega il liberalismo, per darne una valutazione negativa in linea con le tendenze reazionarie clericali manifestatesi durante gli sconvolgimenti sociali provocati dai moti rivoluzionari francesi tra fine Settecento e inizio Ottocento, all’egoismo e agli interessi economici dei potenti: questo riflette la specifica esperienza politica dell’America Latina, che effettivamente ha visto i processi democratici strumentalizzate da oligarchie economiche dei proprietari terrieri. Questa politica fu duramente avversata in particolare dai gesuiti, che riuscirono ad affermare politicamente un’ideologia di populismo paternalistico su cui ha scritto in modo molto convincente Loris Zanatta, professore all’Alma Mater  di Bologna, nel suo  Il populismo gesuita. Peron, Fidel Bergoglio, Laterza, 2020, anche in e-book. L’esperienza europea è molto diversa. In essa, in particolare, società più fraterne  si sono affermate quando si è conquistata la libertà di attuarle: libertà e fraternità vanno di pari passo e generano l'uguale dignità  delle persone. 

  Da qui l’apparente preferenza dell’autore dell’enciclica (in genere questi documenti sono frutto di un lavoro collettivo, ma nel documento di cui trattiamo si sente marcata la traccia del pensiero del Papa), per regimi populisti, dove un esponente politico in qualche modo, non necessariamente democraticamente, emerga facendosi carico, appunto in modo paternalistico, delle esigenze manifestate dalla gente comune, il popolo, realizzando modifiche sociali e politiche a carattere rivoluzionario, vale a dire al di fuori delle procedure costituite, che sotto l’apparenza liberale favoriscono i potenti, ma anche di tipo democratico, sostituite alle prime, in quanto la democrazia  comporta una faticosa elevazione culturale delle persone, che, una volta ottenuta, si manifesta verso qualsiasi  potere dispotico, quindi anche verso l’assolutismo clericale e il paternalismo politico. Il leader populisti vanno per le spicce.

  Al n.156 dell’enciclica viene spiegato il senso di quell’orientamento.

2. Si parte dall’affermare la legittimità della nozione di popolo, che è alla base anche della cultura del diritto pubblico, quello che teorizza le istituzioni e le procedure per l’esercizio del potere nell’interesse generale in una società, ma  è assai controversa sia nel campo giuridico, sia in filosofia, sociologia e antropologia, come in varie dottrine politiche.

  La distinzione è, grosso modo, tra populismi olistici, che mitizzano il popolo comprendendovi tutto  e tutti i giusti e gli ingiusti, veramente tutti insomma, e populismi classisti che presentano il popolo come la parte di popolazione che è sotto il dominio di una classe di privilegiati sociali  e che cerca di emanciparsene. Il populismo dell’enciclica è del primo tipo. Il populismo della nostra costituzione è del secondo tipo, e infatti parla di un potere democratico  fondato sul lavoro, contrapponendolo evidentemente ai poteri sociali che non lo sono e che creano quegli ostacoli che, secondo quando stabilito dall’art.3, 2° comma, della Costituzione, la Repubblica è impegnata a rimuovere.

 Una concezione olistica  del popolo è possibile solo costruendovi sopra un mito, vale a dire una narrazione semplificata del senso dell’essere popolo  caricata di elementi emotivi, in modo da scolorirne le stratificazioni sociali, le divisioni di classe, le fratture, i rapporti di dominio e di subordinazione, per farlo apparire come un unico personaggio storico, un unico organismo. Le concezioni organiche  della società sono intrinsecamente conservatrici, essendo basate sull'idea che ognuno deve stare al posto in cui sta, in definitiva dove gli è capitato di nascere nel contesto di una certa stratificazione sociale che vede classi privilegiate e classi subalterne

  Secondo l’enciclica, il liberalismo porta a far sparire  quell’idea olistica di popolo, e questo è certamente vero, perché il liberalismo propone anche in politica un argomentare ragionevole e, con questo metodo, il mito olistico del popolo svanisce presto. Far sparire la categoria di popolo priverebbe di senso la stessa parola democrazia, che, etimologicamente, deriva dalle parole del greco antico che significano popolo [dèmos] e potere [kràtos]  e dunque deve intendersi come  governo del popolo.

 Tuttavia va tenuto conto che nelle esperienze politiche dell’antica Grecia, dalle quali scaturirono le prime teorizzazioni della democrazia, il popolo non era inteso  come una entità entico-culturale nel senso dell’enciclica, ma come  i cittadini, vale a dire quella ristretta minoranza di maschi liberi e affrancati da lavori servili che potevano avere voce nelle procedure di governo delle pòlis, vale a dire le città-stato. Più ampia la concezione di popolo  nell’antica Roma, ma essa ebbe sempre marcato senso politico, non etnico-culturale, e ciò fu alla base della straordinaria capacità di assimilazione di altre popolazioni e culture da parte dei sistemi di governo politico  manifestatisi nel coacervo delle comunità politiche organizzate a partire dall’antica Roma, che, ad esempio, portò il centro dell’antico Impero romano in  una nuova Roma, in Tracia, nella neo-città  di Costantinopoli. Si trattò un progressivo sviluppo di una neo-civiltà dal Quarto secolo, che fu coevo all’affermarsi politico del cristianesimo. A quella neo-civiltà, che integrò il cristianesimo  nella propria ideologia politica, facendo dell’imperatore romano di Costantinopoli un Padre  anche in senso religioso, dobbiamo i principali dogmi della nostra fede. Tutti i concili ecumenici del Primo millennio dell’era cristiana furono celebrati da quelle parti e furono organizzati sotto l’autorità di quell’imperatore  romano.

3. Secondo l’enciclica, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, sarebbe necessario il tema (e il mito olistico) del popolo, questo per fare di tendenze  e aspirazioni comunitarie un sogno  collettivo, qualcosa di grande e a lungo termine. 

 L’autore dell’enciclica  a questo proposito richiama un’affermazione fatta da papa Francesco in un’intervista del novembre 2013 al gesuita padre Antonio Spadaro, pubblicata con il titolo “Le orme di un pastore. Una conversazione con papa Francesco”:

 «Popolo non è una categoria logica [quindi non ha basi razionali – commento mio], se la intendiamo che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! E’ una categoria mitica   […].  Quando spieghi che cos’è un popolo usi una categorie logiche  [vale a dire si argomenta in modo ragionevole – commento mio]: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questo non è una cosa automatica, anzi e un processo lento, difficile…verso un progetto comune.»

 Da qui poi la grande importanza  che nell’enciclica si da al sentire di un popolo”,  che richiederebbe leader popolari” capaci di interpretarlo, aggregando e guidando. Nell’enciclica si ha la consapevolezza del pericolo che posizione di leaderismo populista,  sviluppandosi al di fuori dei limiti secondo valori delle democrazie, portino alla strumentalizzazione di quel potere personale “sul popolo” a fini egoistici, anzitutto per garantirsi la permanenze al potere a tempo indeterminato, violando uno di più importanti limiti che le democrazie pongono ad ogni potere, quello temporale. Questa è stata, appunto, sempre l’evoluzione storica di ogni tipo di populismo basato su personalità esponenziali di quel tipo. La degenerazione c’è sempre stata, infallibilmente. Allora, perciò, osserva l’autore dell’enciclica, quando ciò accade è perché si è deformata la parola popolo, vale  a dire che se ne parla per strumentalizzarla per radicare un proprio potere a fini personali, e allora quel popolo, in quel modo sottomesso, non è più il  vero popolo, quello vivo, dinamico, e con un futuro, quello aperto costantemente a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso, disponibile  a essere messo in movimento e in discussione. Ma, mi chiedo quando mai  un popolo olistico, che comprenda tutti, quindi in senso etnico-culturale, con un mito costruito su un qualche  suo passato che comprende in certo modo gli avi  e a quel passato lo incatena (come accade nella mitologia della nostra Chiesa), è mai stato così?  Il mito del popolo olistico è sempre stato costruito in senso conservatore e addirittura reazionario, per porre limiti agli individui con il peso di un potere mitizzato e quindi, in qualche modo, soprannaturale, invincibile, sempre uguale a se stesso,  per cui uno, trovandosi a nascere in un certo popolo, non può fare altro che appartenervi al modo degli avi, altrimenti lo ferisce e va estirpato come un tumore (è l'ideologia delle Inquisizioni storiche).

  Al di fuori di quella che nell’enciclica è chiamata logica,  vale a dire del discorso coerente e realistico  su ciò che si è e che ci si propone di diventare collettivamente, c’è solo l’emotività sociale, della quale sono fatti i miti sul popolo, che ora  va in una direzione e poi in un’altra, assecondando paure o istinti predatori evocati da chi governa per mantenere il popolo in suo dominio, ora anche mediante l'impiego dell'intelligenza artificiale nelle reti sociali telematiche, in un processo che talvolta, come spiegarono già gli antichi teorizzatori delle dinamiche sociali, trasforma il popolo in un’orrida belva, affermazione che, ad esempio, troviamo nell’opera del giurista e politico romano Marco Tullio Cicerone “Sullo Stato”, ed egli sapeva certamente di che stava parlando, vivendo in tempi politicamente assai turbolenti.

  Nell’enciclica si ha quindi la consapevolezza della possibilità che il populismo degeneri, ad esempio, nel clientelismo, dove ci si accattiva il favore delle masse facendo leva sugli interessi materiali.  Questa fu la via della seduzione delle masse  da parte del fascismo storico italiano, quello mussoliniano: la promessa di arricchirsi  predando altri popoli, soggiogandoli con la forza del numero di un popolo prolifico, di milioni di baionette.  Nell’enciclica se ne parla come di un populismo irresponsabile. Già, ma come renderlo  responsabile, senza quella logica, quell’elevazione all’esame ragionevole delle questioni che tuttavia nell’enciclica non è ritenuto sufficiente?

4. Ecco che, appunto, proprio verso quella logica  si va, ad un certo punto,  nell’enciclica, proponendo valori  come limite delle dinamiche populiste, per orientarle verso la virtù. Il lavoro, ad esempio, come via per la dignità della persona, secondo l’ideologia liberale. Un valore che il socialismo storico volle estendere a tutti, non solo come elevazione personale, ma come forma di partecipazione consapevole e attiva alle dinamiche sociali, facendone oggetto di un diritto sociale, che le democrazie avanzate contemporanee riconoscono.

  Secondo l’enciclica, occorre cambiare l’organizzazione della società per assicurare dignità secondo lavoro, e contrastare l’esclusione sociale. In questo modo si esce dal mito e si passa al discorso ragionevole, che, poiché deve coinvolgere larghi strati della popolazione altrimenti rimane inefficace, non può che essere organizzato secondo procedure e valori democratici, e richiede un lavoro di formazione delle persona.

 Però al n.163 torna la critica al liberalismo, il quale certamente vede nel populismo un nemico della dignità umana, appunto per quella inevitabile degenerazione quando voglia fare a meno dei processi democratici, perché, si sostiene nell’enciclica, esso criticherebbe coloro che difendono i diritti dei più deboli.  Nella dialettica tra potenti e deboli, il liberalismo terrebbe per i primi e il populismo per i secondi, in una concezione classista, non più olistica, in cui il liberalismo è visto come legato alla borghesia, cosa che certamente è vero riferendosi alle origini, e il populismo al proletariato.

 Tuttavia occorre tener conto che, nel corso del Novecento, emerse un popolarismo democratico  che affrancò il liberalismo dal contesto di classe in cui era sorto, proponendosi l’elevazione delle masse ai diritti fondamentali e alla dignità proclamati dal liberalismo.

5. Che c’è dietro il mito  del popolo?  Ad un discorso razionale emerge che esso è una costruzione culturale strettamente legato all’esercizio del potere politico. Analizzando la società secondo il metodo della sociologia e dell’antropologia la vediamo composta di strati e formazioni sociali, classi e ceti, in continua interrelazione, con la mediazione di un contesto culturale. Il popolo svanisce. Rimangono le persone e le loro comunità e le istituzioni che storicamente si producono.

  Il mito è una narrazione che rende l’idea del senso di certi eventi suscitando elementi emotivi. La mitizzazione del popolo, anzi  “dei”  popoli, che si fece nell’Ottocento, ad esempio nell’ideologia di Giuseppe Mazzini, si basò sulla costruzione del correlato mito della nazione. La dottrina sociale cattolica si sviluppò in opposizione a tale concezione, costruendo un’ideologia e un mito  alternativi sul popolo, presentato come la porzione della popolazione rimasta fedele al Papato,  e su un’alleanza populista  tra quest’ultimo e il  suo  popolo (cfr Guido Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento ad oggi, Il Mulino 2010). In questo quadro, la nazione  sussisteva legittimamente solo come incarnazione storica  di quel popolo cristiano, partecipe di una civiltà cristiana, legittimata dal riconoscimento del Papato romano. Ciò consentì al Papato di delegittimare, durante il Risorgimento, nell’Ottocento, il nazionalismo irredentista italiano, in particolare quello repubblicano mazziniano, che minacciava il suo stato nel Centro Italia. Va ricordato che anche l’ideologia di Giuseppe Mazzini era un populismo, basato sul motto Dio e popolo, che mitizzava i popoli  come espressione storica di un’entità soprannaturale. Esso venne considerato eretico dal Papato, che gli contrappose un proprio nazionalismo  su altre basi, nel quale fattore discriminante tra giusto e ingiusto era l’approvazione del Papato romano.

  Secondo l’enciclica (n.164), il mito del popolo sarebbe necessario per costruire istituzioni pubbliche orientate verso la carità, che sarebbe capace di includere tutto. Questo perché certamente per cambiare la società si ha bisogno di riordinarne l’organizzazione addirittura a livello mondiale, ma il mito, con la sua capacità di coinvolgere l’emotività delle persone, in particolare con il richiamo ad una fraternità universale, sarebbe indispensabile per cambiare e orientare i cuori, unendo ciò che si fa  in grande  a ciò che si sperimenta  in piccolo, impedendo quelle degenerazioni che, nel gergo teologico, vengono incluse nella  concupiscenza, che sarebbe l’inclinazione a farsi gli affari propri a spese degli altri.

 In tutto questo discorso vi è un grosso limite, perché, mentre si vorrebbe evocare una identità popolare olistica, capace di comprendere tutto e tutti, come mezzo per superare secondo carità i conflitti sociali, non si costruisce la possibilità concreto del popolo di agire collettivamente  in modo ragionevole, vale  a dire elevandosi alla democrazia. Il popolo dovrebbe raddrizzarsi  emotivamente, sentendo la voce del Pastore, e ne sarebbe capace a prescindere dalla razionalità delle argomentazioni e dalla considerazione realistica della realtà. Il buon popolo cristiano, quello rimasto fedele al Buono Pastore, avrebbe questa capacità per una sorta di influsso soprannaturale.

  Si tratta, come ricordato, di una concezione che risale alle origini della dottrina sociale contemporanea, quando il Papato romano iniziò a promuovere agitazioni sociali per mantenere un’influenza politica, in particolare in Italia. Il leader  principale del popolo cristiano doveva essere il Papa, Padre  religioso e politico, con la sottostante gerarchia a lui legata da vincoli di tipo feudale. Questa visione  è stata tuttavia largamente superata dai principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2°, che riconobbero autonomia ai laici nella definizione dell’azione sociale secondo la competenza loro propria, e quindi non solo aderendo ad un qualche mito  e attuando decisioni della gerarchia. Nell’enciclica si lascia poco spazio a questo lavoro, a favore del magma indistinto dei movimenti  animati da leader populisti. Si ragiona secondo schemi che, basati sull’esperienza storica dell’America Latina, non vanno bene nell’Europa contemporanea, dove il cattolicesimo democratico è stato uno degli elementi essenziali di un processo di unificazione  europea secondo valori democratici, condotto nell’intento di estendere effettivamente ad ogni persona umana, senza distinzione etniche, culturali, politiche e religiosi i diritti fondamentali, e la correlata dignità, proclamati in astratto dal liberalismo nel suo sorgere, ma poi in concreto negati alle classi subalterne.

 Tra di essi vi è quello alla partecipazione democratica, secondo quanto previsto  dall’art. 3, 2° comma, della Costituzione, rimuovendo ogni ostacolo che in concreto ad essa si frapponga. 

 Ma l’elevazione che è richiesta per l’elevazione della gente alla democrazia, mente e cuore, e la scienza cognitiva ci dice che noi comprendiamo emotivamente, con il cuore dunque, richiede in fondo di dissolvere i miti, la demitizzazione, per fare luce e vedere chiaramente che c’è intorno e con chi è che cosa si ha a che fare, un’esperienza che è descritta come in quella di un sole che sorge (da qui poi tutta un’iconografia laica e religiosa).

 La consapevolezza dell’importanza di questo processo democratico a livello continentale nella nostra Europa, è manifestato chiaramente dai vescovi italiani nominati da papa Francesco (si veda ad esempio la recente Lettera alla Costituzione dell’arcivescovo di Bologna Zuppi),i quali l’hanno vissuto consapevolmente, ma non ancora nel magistero di papa Francesco. E tuttavia penso che qualcosa stia cambiando e mi riferisco alle dichiarazioni fatte recentemente dal Papa, l’8 febbraio 2021,   nel discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ricordate da Damilano nel numero dell’Espresso in edicola:

 

«Crisi della politica

  Le criticità che ho fin qui evocato pongono in rilievo una crisi ben più profonda, che in qualche modo sta alla radice delle altre, la cui drammaticità è stata posta in luce proprio dalla pandemia. È la crisi della politica, che da tempo sta investendo molte società e i cui laceranti effetti sono emersi durante la pandemia.

Uno dei fattori emblematici di tale crisi è la crescita delle contrapposizioni politiche e la difficoltà, se non addirittura l’incapacità, di ricercare soluzioni comuni e condivise ai problemi che affliggono il nostro pianeta. È una tendenza a cui si assiste ormai da tempo e che si diffonde sempre più anche in Paesi di antica tradizione democratica. Mantenere vive le realtà democratiche è una sfida di questo momento storico, che interessa da vicino tutti gli Stati: siano essi piccoli o grandi, economicamente avanzati o in via di sviluppo. In questi giorni, il mio pensiero va in modo particolare al popolo del Myanmar, al quale esprimo il mio affetto e la mia vicinanza. Il cammino verso la democrazia intrapreso negli ultimi anni è stato bruscamente interrotto dal colpo di stato della settimana scorsa. Esso ha portato all’incarcerazione di diversi leader politici, che auspico siano prontamente liberati, quale segno di incoraggiamento a un dialogo sincero per il bene del Paese.

D’altronde, come affermava Pio XII nel suo memorabile Radiomessaggio del Natale 1944: «Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione». La democrazia si basa sul rispetto reciproco, sulla possibilità di tutti di concorrere al bene della società e sulla considerazione che opinioni differenti non solo non minano il potere e la sicurezza degli Stati, ma, in un confronto onesto, arricchiscono vicendevolmente e consentono di trovare soluzioni più adeguate ai problemi da affrontare. Il processo democratico richiede che si persegua un cammino di dialogo inclusivo, pacifico, costruttivo e rispettoso fra tutte le componenti della società civile in ogni città e nazione. Gli avvenimenti che, pur in modi e in contesti diversi, hanno caratterizzato l’ultimo anno da oriente a occidente, anche – ripeto – in Paesi di lunga tradizione democratica, dicono quanto sia ineludibile questa sfida e come non ci si possa esimere dall’obbligo morale e sociale di affrontarla con atteggiamento positivo. Lo sviluppo di una coscienza democratica esige che si superino i personalismi e prevalga il rispetto dello stato di diritto. Il diritto è infatti il presupposto indispensabile per l’esercizio di ogni potere e deve essere garantito dagli organi preposti indipendentemente dagli interessi politici dominanti.

Purtroppo la crisi della politica e dei valori democratici si ripercuote anche a livello internazionale, con ricadute sull’intero sistema multilaterale e l’evidente conseguenza che Organizzazioni pensate per favorire la pace e lo sviluppo – sulla base del diritto e non della “legge del più forte” – vedono compromessa la loro efficacia. Certamente, non si può tacere che nel corso degli ultimi anni il sistema multilaterale ha mostrato anche alcuni limiti. La pandemia è un’occasione da non sprecare per pensare e attuare riforme organiche, affinché le Organizzazioni internazionali ritrovino la loro vocazione essenziale a servire la famiglia umana per preservare la vita di ogni persona e la pace.

Uno dei segni della crisi della politica è proprio la reticenza che spesso si verifica ad intraprendere percorsi di riforma. Non bisogna avere paura delle riforme, anche se richiedono sacrifici e non di rado un cambiamento di mentalità. Ogni corpo vivo ha bisogno continuamente di riformarsi e in questa prospettiva si collocano pure le riforme che stanno interessando la Santa Sede e la Curia Romana.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli