Enciclica Fratelli tutti: il mito del popolo. Tema proposto per il dialogo
nell’incontro in Google Meet del 20 febbraio, ore 16:45.
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Dall’enciclica Fratelli tutti - par. da 154 a 167
CAPITOLO QUINTO
LA MIGLIORE POLITICA
154. Per rendere possibile
lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a
partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la
migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece,
la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo
diverso.
Populismi e liberalismi
155. Il disprezzo per i
deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per
i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei
potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo
aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti
le diverse culture.
Popolare o populista
156. Negli ultimi anni
l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il
linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e
diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di
pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a
partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è
possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di
classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per
esaltarlo in maniera esagerata.
157. La pretesa di porre il
populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto
debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il
tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a
eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante,
per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è
necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che
strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie;
inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per
attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare
qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo.
Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo
“popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della
demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.
158. Esiste infatti un malinteso.
«Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la
intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso
che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […]
Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi
spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al
popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in
maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta
di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un
processo lento, difficile… verso un progetto comune».
159. Ci sono leader popolari
capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le
grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e
guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di
crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella
ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta
nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare
politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al
servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere.
Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse
ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando
diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e
della legalità.
160. I gruppi populisti
chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è
un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo,
dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove
sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma
piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad
essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.
161. Un’altra espressione
degenerata di un’autorità popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si
risponde a esigenze popolari allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza
progredire in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per
il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro
creatività. In questo senso ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il
proporre un populismo irresponsabile». Da una parte, il superamento
dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le
potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile. Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno
fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte
provvisorie».
162. Il grande tema è il
lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è
assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in
ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior
aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò
insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un
rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo
dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».
Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può
rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società
assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il
proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del
lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita,
il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è
un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale,
per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni,
per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per
vivere come popolo.
Valori e limiti delle
visioni liberali
163. La categoria di popolo,
a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali,
è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la
società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di
rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi
contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i
diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di
popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui
si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella
di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o
disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società
civile.
164. La carità riunisce
entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che
implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di
incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli
apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e
così via. Perché «non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine
pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la
tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla
forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione
del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla
cittadinanza politica».
165. La vera carità è capace
di includere tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi
nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello
e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le
istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di
generare. Nel caso specifico, anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci
fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in
quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è
realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della
storia orientata a beneficio degli ultimi. Per altro verso, a volte si hanno
ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e
procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine
degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni. Ciò
dimostra che è necessario far crescere non solo una spiritualità della
fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente, per
aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che soffrono e
muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua volta implica che non c’è una sola via
d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta economica che
possa essere applicata ugualmente per tutti, e presuppone che anche la scienza
più rigorosa possa proporre percorsi differenti.
166. Tutto ciò potrebbe
avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno
di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È
quello che succede quando la propaganda politica, i media e i
costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura
individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e
all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo
potere. Perciò, la mia critica al paradigma tecnocratico non significa che solo
cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo
maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma
nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la
tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione
cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi
nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi
meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da
che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel
corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua
disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.
167. L’impegno educativo, lo
sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più
integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità
ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte
alle proprie ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici,
tecnologici, politici e mediatici. Ci sono visioni liberali che ignorano questo
fattore della fragilità umana e immaginano un mondo che risponde a un
determinato ordine capace di per sé stesso di assicurare il futuro e la
soluzione di tutti i problemi.
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1. Nell’enciclica, la prospettiva politica è
molto ampia, si pensa a uno sviluppo
che riguardi l’intera comunità mondiale, cogliendo in tal modo le opportunità
offerte dalla globalizzazione. La fraternità viene considerata parte del bene comune.
Va
tenuto conto, tuttavia, che l’essere umano pensa al mondo a partire dalle
proprie comunità di prossimità, e ciò per limiti biologici di specie della
nostra mente. Il principio generale è che nulla di ciò che si pensa in
grande può essere attuato se non lo si può sperimentare nel piccolo e vicino.
Questo fa capire l’importanza di un’esperienza comunitaria come la parrocchia,
pur con tutti i suoi limiti e le sue difficoltà, in particolare nel conciliare l’elemento istituzionale e
quello comunitario.
Se non è possibile farne esperienza in
piccolo ciò che si pensa in grande pesa e coarta l’essere umano come
dall’esterno. Il liberalismo, il movimento filosofico e politico manifestatosi
dal Seicento in filosofia e da fine Settecento in politica tra gli europei, quindi
in Europa e nelle terre del resto del mondo finite nel dominio degli europei,
volle appunto emancipare le persone umane dal peso delle potenze collettive sulle quali non avevano
voce, pensando e attuando un complesso di diritti umani fondamentali che definiscono una dignità dell’individuo verso quelle potenze, limitandole.
Questa pretesa fu fondata su rilievo che venne dato al lavoro e alla proprietà individuale, il primo come giustificazione
della seconda e la seconda come area di diritti che circondava la persona e che la preservava dal cadere nel
dominio completo altrui. Il principale sviluppo politico del liberalismo fu la
democrazia come oggi la intendiamo, come sistema di limiti fondato su valori,
il principale dei quali è il ripudio di qualsiasi potenza che si proponga come
assoluta, quindi libera da qualsiasi limite e in questo senso sovrana.
La democrazia liberale contrasta l’assolutismo in ogni forma si presenti, anche
quando si manifesta come dittatura di una maggioranza, e abolisce la sovranità
compresa quella di un popolo, in qualsiasi modo lo si voglia intendere.
Una espressione di principi liberali è contenuta nell’art.1, 2° comma, della Costituzione,
che stabilisce la supremazia del popolo su ogni altra potenza, in questo consiste
l’affermazione di una sua sovranità, ma, nel contempo, anche il limite
di questo potere, che deve esercitato nei limiti costituzionali, quindi anche rispettando
la dignità di ogni persona, con il che si abolisce la sovranità come era
intesa al tempo dei regimi assoluti che, tranne quello del Papato, si dissolsero
nel corso dell’Ottocento, nonostante un tentativo di “restaurazione”. Senza
liberalismo non c’è democrazia. La ragione della storica e pervicace avversione
verso il liberalismo della gerarchia della nostra Chiesa risiede del fatto che
il potere della gerarchia del clero pretende di essere assoluto.
Uno
dei maggiori limiti dell’enciclica Fratelli tutti è proprio nella valutazione
sul liberalismo storico, disconoscendone il suo ruolo nell’emancipazione delle
persone da poteri pubblici dispotici, senza distinzione (questo è
importante capire) tra quelli autocratici, come il Papato romano, aristocratici
(fondati sulle pretese di dominio di classi che vantano una qualche superiorità
sociale o antropologica), proprietari (fondati sulla pretesa di diritti di
proprietà che comprendono poteri pubblici), prevaricatori (basati sul solo
esercizio della forza), ma anche democratici in varia misura che tuttavia, come le democrature basate sull’idea di dittatura di una maggioranza, cerchino di liberarsi dei limiti
costituzionali, e nella costruzione dell’ideologia
della dignità della persona umana, senza distinzione di etnia, sesso,
lingua, religione, cultura, opinioni, condizioni personali e sociali.
Va ricordato che al liberalismo va ricondotta
l’affermazione della libertà di coscienza, duramente avversata dalla Chiesa Cattolica in
contrapposizione ai moti democratici sviluppatisi dal Settecento, fino a
comprenderla negli errori dell’epoca condannati nel Sillabo [=elenco] allegati all’enciclica Quanta cura [1864] del papa Pio 9° e, un secolo dopo, invece
riconosciuta durante il Concilio Ecumenico Vaticano 2° (1962-1965), in particolare
sulla Dichiarazione sulla libertà religiosa “Della dignità
umana – Dignitatis Humanae, come fondata
“realmente sulla stessa dignità della
persona umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la
stessa ragione”:
«2. Questo
Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà
religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono
essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi
sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno
sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti
limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma
individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa
si fonda realmente sulla stessa dignità della persona
umana quale l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa
ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve
essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico
della società.»
Nell’enciclica si collega il liberalismo, per
darne una valutazione negativa in linea con le tendenze reazionarie clericali
manifestatesi durante gli sconvolgimenti sociali provocati dai moti rivoluzionari
francesi tra fine Settecento e inizio Ottocento, all’egoismo e agli interessi
economici dei potenti: questo riflette la specifica esperienza politica dell’America
Latina, che effettivamente ha visto i processi democratici strumentalizzate da
oligarchie economiche dei proprietari terrieri. Questa politica fu duramente
avversata in particolare dai gesuiti, che riuscirono ad affermare politicamente
un’ideologia di populismo paternalistico su cui ha scritto in modo molto
convincente Loris Zanatta, professore all’Alma Mater di Bologna, nel suo Il populismo gesuita. Peron, Fidel Bergoglio, Laterza,
2020, anche in e-book. L’esperienza europea è molto diversa. In essa, in particolare, società più fraterne si sono affermate quando si è conquistata la libertà di attuarle: libertà e fraternità vanno di pari passo e generano l'uguale dignità delle persone.
Da
qui l’apparente preferenza dell’autore dell’enciclica (in genere questi
documenti sono frutto di un lavoro collettivo, ma nel documento di cui
trattiamo si sente marcata la traccia del pensiero del Papa), per regimi
populisti, dove un esponente politico in qualche modo, non necessariamente
democraticamente, emerga facendosi carico, appunto in modo paternalistico,
delle esigenze manifestate dalla gente comune, il popolo, realizzando
modifiche sociali e politiche a carattere rivoluzionario, vale a dire al di
fuori delle procedure costituite, che sotto l’apparenza liberale favoriscono
i potenti, ma anche di tipo democratico, sostituite alle prime, in quanto la
democrazia comporta una faticosa elevazione
culturale delle persone, che, una volta ottenuta, si manifesta verso qualsiasi
potere dispotico, quindi anche verso
l’assolutismo clericale e il paternalismo politico. Il leader populisti vanno per le spicce.
Al
n.156 dell’enciclica viene spiegato il senso di quell’orientamento.
2. Si parte dall’affermare
la legittimità della nozione di popolo, che è alla base anche della cultura
del diritto pubblico, quello che teorizza le istituzioni e le procedure per l’esercizio
del potere nell’interesse generale in una società, ma è assai controversa sia nel campo giuridico,
sia in filosofia, sociologia e antropologia, come in varie dottrine politiche.
La
distinzione è, grosso modo, tra populismi olistici, che mitizzano il
popolo comprendendovi tutto e tutti i giusti e gli ingiusti, veramente tutti insomma, e populismi
classisti che presentano il popolo come la parte di popolazione che è sotto
il dominio di una classe di privilegiati sociali e che cerca di emanciparsene. Il populismo dell’enciclica
è del primo tipo. Il populismo della nostra costituzione è del secondo tipo, e
infatti parla di un potere democratico fondato sul lavoro, contrapponendolo
evidentemente ai poteri sociali che non lo sono e che creano quegli ostacoli
che, secondo quando stabilito dall’art.3, 2° comma, della Costituzione, la Repubblica
è impegnata a rimuovere.
Una
concezione olistica del popolo è
possibile solo costruendovi sopra un mito, vale a dire una narrazione
semplificata del senso dell’essere popolo caricata di elementi emotivi, in modo da scolorirne
le stratificazioni sociali, le divisioni di classe, le fratture, i rapporti di
dominio e di subordinazione, per farlo apparire come un unico personaggio
storico, un unico organismo. Le concezioni organiche della società sono intrinsecamente conservatrici, essendo basate sull'idea che ognuno deve stare al posto in cui sta, in definitiva dove gli è capitato di nascere nel contesto di una certa stratificazione sociale che vede classi privilegiate e classi subalterne
Secondo
l’enciclica, il liberalismo porta a far sparire quell’idea olistica di popolo, e questo è certamente vero,
perché il liberalismo propone anche in politica un argomentare ragionevole e,
con questo metodo, il mito olistico del popolo svanisce presto. Far sparire
la categoria di popolo priverebbe di senso la stessa parola democrazia,
che, etimologicamente, deriva dalle parole del greco antico che significano popolo
[dèmos] e potere [kràtos]
e dunque deve intendersi come governo del popolo.
Tuttavia va tenuto conto che nelle esperienze
politiche dell’antica Grecia, dalle quali scaturirono le prime teorizzazioni
della democrazia, il popolo non era inteso come una entità entico-culturale
nel senso dell’enciclica, ma come i cittadini, vale a dire quella ristretta
minoranza di maschi liberi e affrancati da lavori servili che potevano avere
voce nelle procedure di governo delle pòlis, vale a dire le città-stato.
Più ampia la concezione di popolo nell’antica Roma, ma essa ebbe sempre marcato
senso politico, non etnico-culturale, e ciò fu alla base della straordinaria
capacità di assimilazione di altre popolazioni e culture da parte dei sistemi
di governo politico manifestatisi nel
coacervo delle comunità politiche organizzate a partire dall’antica Roma, che,
ad esempio, portò il centro dell’antico Impero romano in una nuova Roma, in Tracia, nella neo-città
di Costantinopoli. Si trattò un
progressivo sviluppo di una neo-civiltà dal Quarto secolo, che fu coevo all’affermarsi
politico del cristianesimo. A quella neo-civiltà, che integrò il cristianesimo nella propria ideologia politica, facendo
dell’imperatore romano di Costantinopoli un Padre anche in senso religioso, dobbiamo i
principali dogmi della nostra fede. Tutti i concili ecumenici del Primo millennio
dell’era cristiana furono celebrati da quelle parti e furono organizzati sotto
l’autorità di quell’imperatore romano.
3. Secondo l’enciclica, per
affermare che la società è più della mera somma degli individui, sarebbe
necessario il tema (e il mito olistico) del popolo, questo per fare di tendenze e aspirazioni comunitarie un sogno collettivo, qualcosa di grande e a lungo
termine.
L’autore
dell’enciclica a questo proposito
richiama un’affermazione fatta da papa Francesco in un’intervista del novembre
2013 al gesuita padre Antonio Spadaro, pubblicata con il titolo “Le orme di
un pastore. Una conversazione con papa Francesco”:
«Popolo
non è una categoria logica [quindi non ha basi razionali – commento mio],
se la intendiamo che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso
che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! E’ una categoria mitica […]. Quando
spieghi che cos’è un popolo usi una categorie logiche [vale a dire si argomenta in modo ragionevole –
commento mio]: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza
al popolo. La parola popolo ha qualcosa che non può essere spiegato in maniera
logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di
legami sociali e culturali. E questo non è una cosa automatica, anzi e un
processo lento, difficile…verso un progetto comune.»
Da
qui poi la grande importanza che nell’enciclica
si da al “sentire di un popolo”, che richiederebbe “leader popolari”
capaci di interpretarlo, aggregando e guidando. Nell’enciclica si ha la consapevolezza
del pericolo che posizione di leaderismo populista, sviluppandosi al di fuori dei limiti secondo
valori delle democrazie, portino alla strumentalizzazione di quel potere
personale “sul popolo” a fini egoistici, anzitutto per garantirsi la
permanenze al potere a tempo indeterminato, violando uno di più importanti
limiti che le democrazie pongono ad ogni potere, quello temporale. Questa è
stata, appunto, sempre l’evoluzione storica di ogni tipo di populismo
basato su personalità esponenziali di quel tipo. La degenerazione c’è sempre
stata, infallibilmente. Allora, perciò, osserva l’autore dell’enciclica,
quando ciò accade è perché si è deformata la parola popolo, vale a dire che se ne parla per strumentalizzarla
per radicare un proprio potere a fini personali, e allora quel popolo,
in quel modo sottomesso, non è più il vero popolo, quello vivo, dinamico,
e con un futuro, quello aperto costantemente a nuove sintesi assumendo
in sé ciò che è diverso, disponibile a
essere messo in movimento e in discussione. Ma, mi chiedo quando mai un popolo olistico, che comprenda tutti,
quindi in senso etnico-culturale, con un mito costruito su un qualche suo passato che comprende in certo modo gli avi e a quel passato lo incatena (come accade nella mitologia della nostra Chiesa), è mai stato così? Il mito del popolo olistico è sempre stato
costruito in senso conservatore e addirittura reazionario, per porre limiti
agli individui con il peso di un potere mitizzato e quindi, in qualche modo,
soprannaturale, invincibile, sempre uguale a se stesso, per cui uno, trovandosi a nascere in un certo popolo, non può
fare altro che appartenervi al modo degli avi, altrimenti lo ferisce e va estirpato come un tumore (è l'ideologia delle Inquisizioni storiche).
Al
di fuori di quella che nell’enciclica è chiamata logica, vale a dire del discorso coerente e
realistico su ciò che si è e che ci si
propone di diventare collettivamente, c’è solo l’emotività sociale, della quale
sono fatti i miti sul popolo, che ora va in una direzione e poi in un’altra,
assecondando paure o istinti predatori evocati da chi governa per mantenere il
popolo in suo dominio, ora anche mediante l'impiego dell'intelligenza artificiale nelle reti sociali telematiche, in un processo che talvolta, come spiegarono già gli
antichi teorizzatori delle dinamiche sociali, trasforma il popolo in un’orrida
belva, affermazione che, ad esempio, troviamo nell’opera del giurista e
politico romano Marco Tullio Cicerone “Sullo Stato”, ed egli sapeva
certamente di che stava parlando, vivendo in tempi politicamente assai
turbolenti.
Nell’enciclica si ha quindi la consapevolezza della possibilità che il
populismo degeneri, ad esempio, nel clientelismo, dove ci si accattiva il favore
delle masse facendo leva sugli interessi materiali. Questa fu la via della seduzione delle
masse da parte del fascismo storico
italiano, quello mussoliniano: la promessa di arricchirsi predando altri popoli, soggiogandoli con la
forza del numero di un popolo prolifico, di milioni di baionette.
Nell’enciclica se ne parla come di un populismo irresponsabile.
Già, ma come renderlo responsabile, senza quella logica, quell’elevazione all’esame ragionevole
delle questioni che tuttavia nell’enciclica non è ritenuto sufficiente?
4.
Ecco che, appunto, proprio verso quella logica si va, ad un certo punto, nell’enciclica, proponendo valori come limite delle dinamiche populiste, per
orientarle verso la virtù. Il lavoro,
ad esempio, come via per la dignità della persona, secondo l’ideologia
liberale. Un valore che il socialismo storico volle estendere a tutti, non solo
come elevazione personale, ma come forma di partecipazione consapevole e attiva
alle dinamiche sociali, facendone oggetto di un diritto sociale,
che le democrazie avanzate contemporanee riconoscono.
Secondo l’enciclica, occorre cambiare l’organizzazione
della società per assicurare dignità secondo lavoro,
e contrastare l’esclusione sociale. In questo modo si esce dal mito e si passa al
discorso ragionevole, che, poiché deve coinvolgere larghi strati della popolazione
altrimenti rimane inefficace, non può che essere organizzato secondo procedure
e valori democratici, e richiede un lavoro di formazione delle persona.
Però al n.163 torna la critica al liberalismo,
il quale certamente vede nel populismo un nemico della dignità umana, appunto
per quella inevitabile degenerazione quando voglia fare a meno dei processi
democratici, perché, si sostiene nell’enciclica, esso criticherebbe coloro che
difendono i diritti dei più deboli.
Nella dialettica tra potenti e deboli, il liberalismo terrebbe per i
primi e il populismo per i secondi, in una concezione classista, non più olistica, in cui il
liberalismo è visto come legato alla borghesia, cosa che certamente è vero riferendosi
alle origini, e il populismo al proletariato.
Tuttavia occorre tener conto che, nel corso
del Novecento, emerse un popolarismo democratico che affrancò il liberalismo dal contesto di
classe in cui era sorto, proponendosi l’elevazione delle masse ai diritti
fondamentali e alla dignità proclamati dal liberalismo.
5.
Che c’è dietro il mito del popolo? Ad un discorso razionale emerge che esso è una
costruzione culturale strettamente
legato all’esercizio del potere politico. Analizzando la società secondo il
metodo della sociologia e dell’antropologia la vediamo composta di strati e
formazioni sociali, classi e ceti, in continua interrelazione, con la mediazione
di un contesto culturale. Il popolo svanisce.
Rimangono le persone e le loro comunità e le istituzioni che storicamente si
producono.
Il mito è una narrazione che rende l’idea del
senso di certi eventi suscitando elementi emotivi. La mitizzazione del popolo,
anzi “dei”
popoli,
che si fece nell’Ottocento, ad esempio nell’ideologia di Giuseppe Mazzini, si
basò sulla costruzione del correlato mito della nazione. La dottrina sociale cattolica si sviluppò in
opposizione a tale concezione, costruendo un’ideologia e un mito alternativi sul popolo, presentato come la porzione della popolazione
rimasta fedele al Papato, e su un’alleanza
populista tra quest’ultimo e il suo popolo (cfr Guido Formigoni, L’Italia dei cattolici.
Dal Risorgimento ad oggi,
Il Mulino 2010). In questo quadro, la nazione sussisteva legittimamente solo come incarnazione storica di quel popolo cristiano, partecipe di una civiltà cristiana, legittimata dal riconoscimento del Papato romano.
Ciò consentì al Papato di delegittimare, durante il Risorgimento, nell’Ottocento,
il nazionalismo irredentista italiano, in particolare quello repubblicano mazziniano,
che minacciava il suo stato nel Centro Italia. Va ricordato che anche l’ideologia
di Giuseppe Mazzini era un populismo, basato sul motto Dio e popolo, che mitizzava
i popoli come espressione storica di un’entità
soprannaturale. Esso venne considerato eretico dal Papato, che gli contrappose
un proprio nazionalismo su altre basi, nel quale fattore discriminante
tra giusto e ingiusto era l’approvazione del Papato romano.
Secondo l’enciclica (n.164), il mito del
popolo sarebbe necessario per costruire istituzioni pubbliche orientate verso
la carità, che sarebbe
capace di includere tutto. Questo perché certamente per cambiare la
società si ha bisogno di riordinarne l’organizzazione addirittura a livello
mondiale, ma il mito, con la sua capacità di coinvolgere l’emotività delle
persone, in particolare con il richiamo ad una fraternità universale, sarebbe
indispensabile per cambiare e orientare i cuori, unendo ciò che si fa in grande a ciò che si sperimenta in piccolo, impedendo quelle degenerazioni
che, nel gergo teologico, vengono incluse nella concupiscenza, che sarebbe l’inclinazione
a farsi gli affari propri a spese degli altri.
In
tutto questo discorso vi è un grosso limite, perché, mentre si vorrebbe evocare
una identità popolare olistica, capace di comprendere tutto e tutti,
come mezzo per superare secondo carità i conflitti sociali, non si costruisce
la possibilità concreto del popolo di agire collettivamente in modo ragionevole, vale a dire elevandosi alla democrazia. Il popolo
dovrebbe raddrizzarsi emotivamente, sentendo la voce del Pastore,
e ne sarebbe capace a prescindere dalla razionalità delle argomentazioni e dalla
considerazione realistica della realtà. Il buon popolo cristiano, quello
rimasto fedele al Buono Pastore, avrebbe questa capacità per una sorta di
influsso soprannaturale.
Si tratta, come ricordato, di una concezione
che risale alle origini della dottrina sociale contemporanea, quando il Papato
romano iniziò a promuovere agitazioni sociali per mantenere un’influenza
politica, in particolare in Italia. Il leader principale del popolo cristiano doveva essere
il Papa, Padre religioso e
politico, con la sottostante gerarchia a lui legata da vincoli di tipo feudale.
Questa visione è stata tuttavia
largamente superata dai principi deliberati durante il Concilio Vaticano 2°,
che riconobbero autonomia ai laici nella definizione dell’azione sociale secondo
la competenza loro propria, e quindi non solo aderendo ad un qualche mito e attuando decisioni della gerarchia. Nell’enciclica
si lascia poco spazio a questo lavoro, a favore del magma indistinto dei movimenti
animati da leader populisti. Si ragiona
secondo schemi che, basati sull’esperienza storica dell’America Latina, non
vanno bene nell’Europa contemporanea, dove il cattolicesimo democratico è stato
uno degli elementi essenziali di un processo di unificazione europea secondo valori democratici, condotto nell’intento
di estendere effettivamente ad ogni persona umana, senza distinzione etniche,
culturali, politiche e religiosi i diritti fondamentali, e la correlata
dignità, proclamati in astratto dal liberalismo nel suo sorgere, ma poi in
concreto negati alle classi subalterne.
Tra
di essi vi è quello alla partecipazione democratica, secondo quanto
previsto dall’art. 3, 2° comma, della
Costituzione, rimuovendo ogni ostacolo che in concreto ad essa si frapponga.
Ma l’elevazione che è richiesta per l’elevazione della gente alla democrazia, mente e cuore, e la scienza cognitiva ci dice che noi comprendiamo emotivamente, con il cuore dunque, richiede in fondo di dissolvere i miti, la demitizzazione, per fare luce e vedere chiaramente che c’è intorno e con chi è che cosa si ha a che fare, un’esperienza che è descritta come in quella di un sole che sorge (da qui poi tutta un’iconografia laica e religiosa).
La consapevolezza dell’importanza di
questo processo democratico a livello continentale nella nostra Europa, è manifestato chiaramente
dai vescovi italiani nominati da papa Francesco (si veda ad esempio la recente Lettera
alla Costituzione dell’arcivescovo di Bologna Zuppi),i quali l’hanno
vissuto consapevolmente, ma non ancora nel magistero di papa Francesco. E tuttavia
penso che qualcosa stia cambiando e mi riferisco alle dichiarazioni fatte
recentemente dal Papa, l’8 febbraio 2021, nel
discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ricordate da Damilano nel numero dell’Espresso in edicola:
«Crisi
della politica
Le criticità che ho fin qui evocato pongono in rilievo una crisi ben più
profonda, che in qualche modo sta alla radice delle altre, la cui drammaticità
è stata posta in luce proprio dalla pandemia. È la crisi della politica, che da
tempo sta investendo molte società e i cui laceranti effetti sono emersi
durante la pandemia.
Uno dei fattori emblematici di tale
crisi è la crescita delle contrapposizioni politiche e la difficoltà, se non
addirittura l’incapacità, di ricercare soluzioni comuni e condivise ai problemi
che affliggono il nostro pianeta. È una tendenza a cui si assiste ormai da
tempo e che si diffonde sempre più anche in Paesi di antica tradizione
democratica. Mantenere vive le realtà democratiche è una sfida di questo
momento storico, che interessa da vicino tutti gli Stati: siano essi piccoli o
grandi, economicamente avanzati o in via di sviluppo. In questi giorni, il
mio pensiero va in modo particolare al popolo del Myanmar, al quale esprimo il
mio affetto e la mia vicinanza. Il cammino verso la democrazia intrapreso negli
ultimi anni è stato bruscamente interrotto dal colpo di stato della settimana
scorsa. Esso ha portato all’incarcerazione di diversi leader politici, che
auspico siano prontamente liberati, quale segno di incoraggiamento a un dialogo
sincero per il bene del Paese.
D’altronde, come
affermava Pio XII nel suo memorabile Radiomessaggio del Natale
1944: «Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli
vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato:
ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il
suo nome stesso, la loro espressione». La democrazia si basa sul
rispetto reciproco, sulla possibilità di tutti di concorrere al bene della
società e sulla considerazione che opinioni differenti non solo non minano il
potere e la sicurezza degli Stati, ma, in un confronto onesto, arricchiscono
vicendevolmente e consentono di trovare soluzioni più adeguate ai problemi da
affrontare. Il processo democratico richiede che si persegua un cammino di
dialogo inclusivo, pacifico, costruttivo e rispettoso fra tutte le componenti
della società civile in ogni città e nazione. Gli avvenimenti che, pur in
modi e in contesti diversi, hanno caratterizzato l’ultimo anno da oriente a
occidente, anche – ripeto – in Paesi di lunga tradizione democratica, dicono
quanto sia ineludibile questa sfida e come non ci si possa esimere dall’obbligo
morale e sociale di affrontarla con atteggiamento positivo. Lo sviluppo di
una coscienza democratica esige che si superino i personalismi e prevalga il
rispetto dello stato di diritto. Il diritto è infatti il presupposto
indispensabile per l’esercizio di ogni potere e deve essere garantito dagli
organi preposti indipendentemente dagli interessi politici dominanti.
Purtroppo la crisi della politica e
dei valori democratici si ripercuote anche a livello internazionale, con
ricadute sull’intero sistema multilaterale e l’evidente conseguenza che
Organizzazioni pensate per favorire la pace e lo sviluppo – sulla base del
diritto e non della “legge del più forte” – vedono compromessa la loro
efficacia. Certamente, non si può tacere che nel corso degli ultimi anni il
sistema multilaterale ha mostrato anche alcuni limiti. La pandemia è
un’occasione da non sprecare per pensare e attuare riforme organiche, affinché
le Organizzazioni internazionali ritrovino la loro vocazione essenziale a
servire la famiglia umana per preservare la vita di ogni persona e la pace.
Uno dei segni della crisi
della politica è proprio la reticenza che spesso si verifica ad intraprendere
percorsi di riforma. Non bisogna avere paura delle riforme, anche se richiedono
sacrifici e non di rado un cambiamento di mentalità. Ogni corpo vivo ha bisogno
continuamente di riformarsi e in questa prospettiva si collocano pure le
riforme che stanno interessando la Santa Sede e la Curia Romana.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro
Valli