Dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa)
- Sollicitudo rei socialis, del papa Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2° (1987). L’autentico sviluppo umano.
From the encyclical The social concern (of the Church) -
Sollicitudo rei socialis, of the pope Karol Wojtyla - John Paul 2^ (1987). Authentic human development.
My thoughts are translated into English
with the help of Google Translator. After the Italian text of the passabes of
the encyclical, which I quote below, ther’is
the translation in english in the text
circulated by the Holy See.
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Nota: Il papa
Giovanni Paolo 2° pubblicò l’enciclica La sollecitudine sociale (della
Chiesa) - Sollicitudo rei socialis nell’anniversario ventennale della precedente
enciclica Lo sviluppo dei popoli - Populorum
progressio pubblicata nel 1967 dal
papa Paolo 6°, in un’epoca di vivissimi fermenti sociali in tutta Europa, dai
quali emerse l’attuale Unione Europea, che fu costruita anche tenendo conto
dell’orientamento politico del Magistero di quei Papi. In particolare, nel
regno del papa Giovanni Paolo 2°. la Chiesa cattolica espresse un compiuto
disegno ideologico di ricostruzione di una civiltà europea che comprendesse la
parte Occidentale, ad economia capitalista e regimi politici liberali
democratici, e quella Orientale, che usciva dall’economia comunista e da regimi
politici marxisti leninisti. All’epoca, negli anni ’80 del secolo scorso, essa
ebbe un enorme credito politico. L’integrazione politica degli stati usciti dal
comunismo di scuola sovietica venne guidata dai democratici cristiani tedeschi,
così come la riforma delle istituzioni europee per adattarle a quella nuova
realtà politica. Un ruolo importante ebbero anche i democratici cristiani
italiani.
Le tre encicliche sociali
del papa Giovanni Paolo 2° (Lavorando - Laborem exercens
- 1981, La sollecitudine sociale della Chiesa - Sollicitudo
rei socialis -1987 e Il centenario - Centesimus Annus -
1991) costituiscono un manuale di politica ancora molto attuale. Fin dalla
prima enciclica sociale dei tempi moderni, la Le novità - Rerum
novarum, del 1891, quel tipo di
documento del Magistero è un frutto di un lavoro collettivo, non solo del Papa
che lo commissiona, ne supervisiona la elaborazione e ne ordina la
pubblicazione. Comunque, il pensiero del Papa vi si riflette sempre e questo si nota in
particolare nelle encicliche sociali del papa Giovanni Paolo 2°, molto segnate
dalla sua esperienza personale della politica europea dei suoi tempi. Egli
visse con sofferenza la separazione tra Europa orientale ed Europa occidentale
e spinse gli europei di allora a superarla. Egli era anche convinto che fosse
giusto superare la politica dei due blocchi imperialisti dominati dagli Stati
Uniti d’America e dall’Unione Sovietica e, più in generale, dell’imperialismo.
Nel brano che segue, tratto dall’enciclica La sollecitudine sociale (della Chiesa) - Sollicitudo rei socialis, viene
condannato l’ideale politico e sociale del supersviluppo,
che è alla base dell’ideologia del liberismo capitalistico.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.
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IV - L'autentico sviluppo umano
27. Lo sguardo che l'Enciclica [Lo sviluppo dei popoli - Populorum
progressio, del papa Paolo VI, 1967]
ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa costatare, anzitutto, che lo
sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato,
come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una
specie di perfezione indefinita. Simile concezione, legata ad una
nozione di «progresso» dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico,
piuttosto che a quella di «sviluppo», adoperata in senso
specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie
dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione
pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell'incombente pericolo
atomico. Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata
inquietudine per il destino dell'umanità.
28. Al tempo stesso, però, è entrata in
crisi la stessa concezione «economica» o «economicista», legata al vocabolo
sviluppo. Effettivamente oggi si comprende meglio che la pura accumulazione di
beni e di servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la
felicità umana. Né, di conseguenza, la disponibilità dei molteplici benefici
reali, apportati negli ultimi tempi dalla scienza e dalla tecnica, compresa
l'informatica, comporta la liberazione da ogni forma di schiavitù. Al
contrario, l'esperienza degli anni più recenti dimostra che, se tutta la massa
delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione dell'uomo, non è retta
da un intendimento morale e da un orientamento verso il vero bene del genere
umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo. Dovrebbe essere
altamente istruttiva una sconcertante costatazione del più recente periodo: accanto
alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, ci troviamo
di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente inammissibile, perché, come
il primo, è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo,
infatti, consistente nell'eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni
materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini
schiavi del «possesso» e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la
moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono,
con altre ancora più perfette. É la cosiddetta civiltà dei «consumi», o
consumismo, che comporta tanti «scarti» e «rifiuti». Un oggetto posseduto, e
già superato da un altro più perfetto, è messo da parte, senza tener conto del suo
possibile valore permanente per sé o in favore di un altro essere umano più
povero. Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa cieca
sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo
crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende
subito che -se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari
e l'offerta incessante e tentatrice dei prodotti -quanto più si possiede tanto
più si desidera mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e
forse anche soffocate.
L'Enciclica di Papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno
d'oggi così frequentemente accentuata, tra l'«avere» e
l'«essere», in precedenza espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II. L'«avere»
oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce
alla maturazione e all'arricchimento del suo «essere», cioè alla realizzazione
della vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra «essere» e
«avere», il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose
possedute rispetto al valore dell'«essere» non deve trasformarsi
necessariamente in un'antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo
contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli
che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. É l'ingiustizia
della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a
tutti . Ecco allora il quadro: ci sono quelli - i pochi che possiedono molto -
che non riescono veramente ad «essere», perché, per un capovolgimento della
gerarchia dei valori, ne sono impediti dal culto dell'«avere»; e ci sono quelli
- i molti che possiedono poco o nulla -, i quali non riescono a realizzare la
loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili. Il
male non consiste nell'«avere» in quanto tale, ma nel possedere in modo
irrispettoso della qualità e dell'ordinata gerarchia dei beni che si hanno.
Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro
disponibilità all'«essere» dell'uomo ed alla sua vera vocazione. Con ciò resta
dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché
deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la
disponibilità di beni indispensabili per «essere», tuttavia non si esaurisce in
tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che
si vorrebbero favorire. Le caratteristiche di uno sviluppo pieno, «più umano»,
che-senza negare le esigenze economiche-sia in grado di mantenersi all'altezza
dell'autentica vocazione dell'uomo e della donna, sono state descritte da Paolo VI.
29. Uno sviluppo non soltanto economico
si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell'uomo visto nella
sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore. Egli ha senza dubbio
bisogno dei beni creati e dei prodotti dell'industria, arricchita di continuo
dal progresso scientifico e tecnologico. E la disponibilità sempre nuova dei
beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti. Il
pericolo dell'abuso consumistico e l'apparizione delle necessità artificiali
non debbono affatto impedire la stima e l'utilizzazione dei nuovi beni e
risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di
Dio e una risposta alla vocazione dell'uomo, che si realizza pienamente in
Cristo. Ma per conseguire il vero sviluppo e necessario non perder mai di vista
detto parametro, che è nella natura specifica dell'uomo, creato da Dio a sua
immagine e somiglianza (Gen1,26). Natura corporale e spirituale,
simboleggiata nel secondo racconto della creazione dai due elementi: la terra,
con cui Dio plasma il fisico dell'uomo, e l'alito di vita, soffiato nelle sue
narici (Gen 2,7). L'uomo così viene ad avere una certa affinità con
le altre creature: è chiamato a utilizzarle a occuparsi di esse e sempre
secondo la narrazione della Genesi (Gen 2,15) è posto nel giardino
col compito di coltivarlo e custodirlo, al di sopra di tutti gli altri esseri
collocati da Dio sotto il suo dominio (Gen 1,25). Ma nello stesso
tempo l'uomo deve rimanere sottomesso alla volontà di Dio, che gli prescrive
limiti nell'uso e nel dominio delle cose (Gen 2,16), così come gli
promette l'immortalità (Gen 2,9); (Sap 2,23). L'uomo,
pertanto, essendo immagine di Dio, ha una vera affinità anche con lui.
Sulla base di questo insegnamento, lo
sviluppo non può consistere soltanto nell'uso, nel dominio e nel possesso
indiscriminato delle cose create e dei prodotti dell'industria umana, ma
piuttosto nel subordinare il possesso, il dominio e l'uso alla somiglianza
divina dell'uomo e alla sua vocazione all'immortalità. Ecco la realtà
trascendente dell'essere umano, la quale appare partecipata fin dall'origine ad
una coppia di uomo e donna (Gen 1,27) ed è quindi fondamentalmente
sociale.
30. Secondo la Sacra Scrittura, dunque,
la nozione di sviluppo non è soltanto «laica» o «profana», ma appare anche, pur
con una sua accentuazione socio-economica, come l'espressione moderna di
un'essenziale dimensione della vocazione dell'uomo. L'uomo, infatti, non è
stato creato, per così dire, immobile e statico. La prima raffigurazione, che
di lui offre la Bibbia, lo presenta senz'altro come creatura e immagine,
definita nella sua profonda realtà dall'origine e dall'affinità, che lo
costituiscono. Ma tutto questo immette nell'essere umano, uomo e donna, il
germe e l'esigenza di un compito originario da svolgere, sia ciascuno
individualmente sia come coppia. Il compito è di «dominare» sulle altre
creature, «coltivare il giardino», ed è da assolvere nel quadro dell'ubbidienza
alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell'immagine ricevuta, fondamento
chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo perfezionamento
(Gen 1,26); (Gen 2,12); (Sap 9,2). Quando l'uomo
disobbedisce a Dio e rifiuta di sottomettersi alla sua potestà, allora la
natura gli si ribella e non lo riconosce più come «signore», perché egli ha
appannato in sé l'immagine divina. L'appello al possesso e all'uso dei mezzi
creati rimane sempre valido, ma dopo il peccato l'esercizio ne diviene arduo e
carico di sofferenze (Gen 3,17). Infatti, il successivo capitolo della
Genesi ci mostra la discendenza di Caino, la quale costruisce «una città», si
dedica alla pastorizia, si dà alle arti (la musica) e alla tecnica (la
metallurgia), mentre al tempo stesso si comincia «ad invocare il nome del
Signore» (Gen 4,17). La storia del genere umano, delineata dalla
Sacra Scrittura, anche dopo la caduta nel peccato è una storia di realizzazioni
continue, che, sempre rimesse in questione e in pericolo dal peccato, si
ripetono, si arricchiscono e si diffondono come risposta alla vocazione divina,
assegnata sin dal principio all'uomo e alla donna (Gen 1,26) e
impressa nell'immagine, da loro ricevuta.
É logico concludere, almeno da parte di
quanti credono nella Parola di Dio, che lo «sviluppo» di oggi deve essere visto
come un momento della storia iniziata con la creazione e di continuo messa in
pericolo a motivo dell'infedeltà alla volontà del Creatore, soprattutto per la
tentazione dell'idolatria; ma esso corrisponde fondamentalmente alle premesse
iniziali. Chi volesse rinunciare al compito, difficile ma esaltante, di elevare
la sorte di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, sotto il pretesto del peso
della lotta e dello sforzo incessante di superamento, o addirittura per
l'esperienza della sconfitta e del ritorno al punto di partenza, verrebbe meno
alla volontà di Dio creatore. Sotto questo aspetto nell'Enciclica Laborem exercens ho fatto riferimento alla
vocazione dell'uomo al lavoro, per sottolineare il concetto che e sempre lui il
protagonista dello sviluppo. Anzi, lo stesso Signore Gesù, nella
parabola dei talenti, mette in rilievo il severo trattamento riservato a chi
osò nascondere il dono ricevuto: «Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto
dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso [...]. Toglietegli, dunque,
il talento e datelo a chi ha dieci talenti» (Mt 25,26). A noi, che
riceviamo i doni di Dio per farli fruttificare, tocca «seminare» e
«raccogliere». Se non lo faremo, ci sarà tolto anche quello che abbiamo.
L'approfondimento di queste severe parole potrà spingerci a impegnarci con più
decisione nel dovere, oggi per tutti urgente di collaborare allo sviluppo pieno
degli altri: «Sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini».
31. La fede in Cristo Redentore, mentre
illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della
collaborazione. Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è
«il primogenito di tutta la creazione» e che «tutte le cose sono state create
per mezzo di lui ed in vista di lui» (Col 1,15). Infatti, ogni cosa
«ha consistenza in lui», perché «piacque a Dio di fare abitare in lui ogni
pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose» (Col 1,20).
In questo piano divino, che comincia dall'eternità in Cristo, «immagine»
perfetta del Padre, e che culmina in lui, «primogenito di coloro che
risuscitano dai morti» (Col 1,15), s'inserisce la nostra storia,
segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione
umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino,
disponendoci così a partecipare alla pienezza che «risiede nel Signore» e che
egli comunica «al suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1,18); (Ef 1,22),
mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni
umane è vinto e riscattato dalla «riconciliazione» operata da Cristo (Col 1,
20).
Qui le prospettive si allargano. Il
sogno di un «progresso indefinito» si ritrova trasformato radicalmente
dall'ottica nuova aperta dalla fede cristiana, assicurandoci che tale progresso
è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin dal principio di rendere l'uomo
partecipe della sua gloria in Gesù Cristo risorto, «nel quale abbiamo la
redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati» (Ef 1,7),
e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per il nostro bene più
grande, che supera infinitamente quanto il progresso potrebbe
realizzare. Possiamo dire allora-mentre ci dibattiamo in mezzo alle oscurità e
alle carenze del sottosviluppo e del supersviluppo-che un giorno «questo corpo
corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale di
immortalità» (1 Cor 15,54), quando il Signore «consegnerà il
Regno a Dio Padre» (1 Cor 15,24) e tutte le opere e azioni,
degne dell'uomo, saranno riscattate.
La concezione della fede inoltre, mette
bene in chiaro le ragioni che spingono la Chiesa a preoccuparsi della
problematica dello sviluppo, a considerarlo un dovere del suo ministero
pastorale, a stimolare la riflessione di tutti circa la natura e le
caratteristiche dell'autentico sviluppo umano. Col suo impegno essa desidera,
da una parte, mettersi al servizio del piano divino inteso a ordinare tutte le
cose alla pienezza che abita in Cristo (Col 1,19), e che egli
comunicò al suo corpo, e dall'altra, rispondere alla sua vocazione fondamentale
di «sacramento», ossia «segno e strumento dell'intima unione con Dio e
dell'unità di tutto il genere umano».
Alcuni Padri della Chiesa si sono
ispirati a tale visione per elaborare a loro volta in forme originali, una
concezione circa il significato della storia e il lavoro umano, come
indirizzato a un fine che lo supera e definito sempre dalla relazione con
l'opera di Cristo. In altre parole, è possibile ritrovare nell'insegnamento
patristico una visione ottimistica della storia e del lavoro, ossia del valore
perenne delle autentiche realizzazioni umane, in quanto riscattate dal Cristo e
destinate al Regno promesso. Così fa parte dell'insegnamento e della
pratica più antica della Chiesa la convinzione di esser tenuta per
vocazione-essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri-ad alleviare
la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col «superfluo», ma anche
col «necessario». Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli
ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino;
al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane,
bevanda, vestito e casa a chi ne è privo. Come si è già notato, ci
viene qui indicata una «gerarchia di valori»-nel quadro del diritto di
proprietà-tra l'«avere» e l'«essere», specie quando l'«avere» di alcuni può
risolversi a danno dell'«essere» di tanti altri. Nella sua Enciclica Papa Paolo VI sta nella linea di tale
insegnamento, ispirandosi alla Costituzione pastorale Gaudium et spes. Per parte mia,
desidero insistere ancora sulla sua gravità e urgenza, implorando dal Signore
forza a tutti i cristiani per poter passare fedelmente all'applicazione
pratica.
32. L'obbligo di impegnarsi per lo
sviluppo dei popoli non è un dovere soltanto individuale, né tanto meno
individualistico, come se fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di
ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle
donne, per le società e le Nazioni, in particolare per la Chiesa cattolica e
per le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le quali siamo pienamente disposti
a collaborare in questo campo. In tal senso, come noi cattolici invitiamo i
fratelli cristiani a partecipare alle nostre iniziative, cosi ci dichiariamo
pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli inviti che ci sono rivolti. In
questa ricerca dello sviluppo integrale dell'uomo possiamo fare molto anche con
i credenti delle altre religioni, come del resto si sta facendo in diversi
luoghi. La collaborazione allo sviluppo di tutto l'uomo e di ogni uomo,
infatti, è un dovere di tutti verso tutti e deve, al tempo stesso, essere
comune alle quattro parti del mondo: Est e Ovest, Nord e Sud; o, per adoperare
il termine oggi in uso, ai diversi «mondi». Se, al contrario, si cerca di
realizzarlo in una sola parte, o in un solo mondo, esso è fatto a spese degli
altri; e là dove comincia, proprio perché gli altri sono ignorati, si
ipertrofizza e si perverte. I popoli o le Nazioni hanno anch'essi diritto al
proprio pieno sviluppo, che, se implica-come si è detto-gli aspetti economici e
sociali, deve comprendere pure la rispettiva identità culturale e l'apertura
verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta
come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la propria
fede religiosa.
33. Né sarebbe veramente degno dell'uomo
un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani,
personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e
dei popoli. Oggi, forse più che in passato, si riconosce con maggior chiarezza
l'intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato
economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più
profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo.
L'intrinseca connessione tra sviluppo autentico e rispetto dei diritti
dell'uomo ne rivela ancora una volta il carattere morale: la vera elevazione
dell'uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di ciascuno non si
raggiunge sfruttando solamente l'abbondanza dei beni e dei servizi, o
disponendo di perfette infrastrutture. Quando gli individui e le comunità non
vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali,
fondate sulla dignità della persona e sull'identità propria di ciascuna
comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il
resto-disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita
quotidiana, un certo livello di benessere materiale- risulterà insoddisfacente
e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore nel Vangelo,
richiamando l'attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori: «Qual
vantaggio avrà l'uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria
anima?» (Mt 16,26).
Un vero sviluppo, secondo le esigenze
proprie dell'essere umano, uomo o donna, bambino, adulto o anziano, implica
soprattutto da parte di quanti intervengono attivamente in questo processo e ne
sono responsabili una viva coscienza del valore dei diritti di tutti e di
ciascuno nonché della necessità di rispettare il diritto di ognuno
all'utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza e dalla tecnica.
Sul piano interno di ogni Nazione,
assume grande importanza il rispetto di tutti i diritti: specialmente il
diritto alla vita in ogni stadio dell'esistenza; i diritti della famiglia, in
quanto comunità sociale di base, o «cellula della società»; la giustizia nei
rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in
quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell'essere umano, a
cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio
credo religioso. Sul piano internazionale, ossia dei rapporti tra gli Stati o,
secondo il linguaggio corrente, tra i vari «mondi», è necessario il pieno
rispetto dell'identità di ciascun popolo con le sue caratteristiche storiche e
culturali. É indispensabile, altresì, come già auspicava l'Enciclica Populorum Progressio, riconoscere a ogni popolo l'eguale
diritto «ad assidersi alla mensa del banchetto comune»», invece di
giacere come Lazzaro fuori della porta, mentre «i cani vengono a leccare le sue
piaghe» (Lc 16,21). Sia i popoli che le persone singole debbono
godere dell'eguaglianza fondamentale, su cui si basa, per esempio,
la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite: eguaglianza che è il
fondamento del diritto di tutti alla partecipazione al processo di pieno
sviluppo.
Per essere tale, lo sviluppo deve
realizzarsi nel quadro della solidarietà e della libertà, senza sacrificare mai
l'una e l'altra per nessun pretesto. Il carattere morale dello sviluppo e la
sua necessaria promozione sono esaltati quando c'è il più rigoroso rispetto di
tutte le esigenze derivanti dall'ordine della verità e del bene, propri della
creatura umana. Il cristiano, inoltre, educato a vedere nell'uomo l'immagine di
Dio, chiamato alla partecipazione della verità e del bene, che è Dio stesso,
non comprende l'impegno per lo sviluppo e la sua attuazione fuori
dell'osservanza e del rispetto della dignità unica di questa «immagine». In
altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull'amore di Dio e del prossimo,
e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società. Ecco la «civiltà
dell'amore», di cui parlava spesso il Papa Paolo VI.
34. Il carattere morale dello sviluppo
non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura
visibile e che i Greci, alludendo appunto all'ordine che la contraddistingue,
chiamavano il «cosmo». Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una
triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere. La prima
consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può
fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri viventi o inanimati -
animali, piante, elementi naturali -come si vuole, a seconda delle proprie
esigenze economiche. Al contrario, occorre tener conto della natura di ciascun
essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch'è appunto il
cosmo.
La seconda considerazione, invece, si
fonda sulla costatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle
risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili.
Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in
pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma
soprattutto per quelle future.
La terza considerazione si riferisce
direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità
della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o
indiretto dell'industrializzazione e, sempre più di frequente, la
contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute della
popolazione.
Ancora una volta risulta evidente che
lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l'uso delle risorse e
la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle
esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura
visibile. Il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto,
né si può parlare di libertà di «usare e abusare», o di disporre delle cose
come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal
principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di «mangiare il frutto
dell'albero» (Gen 2,16), mostra con sufficiente chiarezza che, nei
confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche,
ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire. Una giusta
concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni -relative
all'uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle
conseguenze di una industrializzazione disordinata -, le quali ripropongono
alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve distinguere lo
sviluppo.
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From the encyclical The social concern (of the Church) -
Sollicitudo rei socialis, of the pope Karol Wojtyla - John Paul 2^ (1987). Authentic human development.
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Note: Pope John Paul II
published the encyclical The social
concern (of the Church) - Sollicitudo rei socialis on the twenty-year
anniversary of the previous encyclical The progressive development of peoples - published in 1967 by
Pope Paul 6^, in a era of very lively social unrest throughout Europe, from
which the current European Union emerged, which was built even taking into
account the political orientation of the Magisterium of those Popes. In
particular, in the reign of Pope John Paul 2 °. the Catholic Church expressed a
complete ideological plan to reconstruct a European civilization that included
the Western part, with a capitalist economy and liberal democratic political
regimes, and the Eastern one, which emerged from the communist economy and from
Leninist Marxist political regimes. At the time, in the 1980s, it had a great
political credibility. The political integration of the states emerging from
the Soviet school communism was guided by German Christian democrats, as was
the reform of the European institutions to adapt them to that new political
reality. Italian Christian Democrats also played an important role.
The three social encyclicals of
Pope John Paul 2 (Through work - Laborem
exercens - 1981, The social concern of the Church - -
Sollicitudo rei socialis - 1987 e The
centenary - Centesimus Annus - 1991) constitute a still very current manual of politics. Since the
first social encyclical of modern times, The novelties - Rerum novarum, of
1891, that type of document of the Magisterium is the fruit of a collective
work, not only of the Pope who commissioned it, supervises its elaboration and
orders its publication . However, the thought of the Pope is always reflected
in this and this is particularly noticeable in the social encyclicals of Pope
John Paul 2, very marked by his personal experience of European politics of his
time. He suffered with suffering the separation between Eastern Europe and
Western Europe and urged the Europeans of that time to overcome it. He was also
convinced that it was right to overcome the politics of the two imperialist
blocs dominated by the United States of America and the Soviet Union and, more
generally, by imperialism.
In the passage that follows, taken from
the encyclical The social solicitude (of the Church) - Sollicitudo rei
socialis, the political and social ideal of superdevelopmen is condemned, which
is the basis of the ideology of capitalist liberalism.
Mario Ardigò - Catholic Action in the
Catholic parish of San Clemente Pope - Rome, Monte Sacro, Valli district
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IV. AUTHENTIC HUMAN DEVELOPMENT
27. The examination which the Encyclical [The progressive
development of peoples - Populorum progressio, by Pope Paul VI, 1967] invites us to
make of the contemporary world leads us to note in the first place that
development is not a straightforward process, as it were automatic and in
itself limitless, as though, given certain conditions, the human race were able
to progress rapidly towards an undefined perfection of some kind.
Such an idea - linked to a notion of "progress" with
philosophical connotations deriving from the Enlightenment, rather than to the
notion of "development" which is used in a specifically economic
and social sense - now seems to be seriously called into doubt, particularly
since the tragic experience of the two world wars, the planned and partly
achieved destruction of whole peoples, and the looming atomic peril. A naive
mechanistic optimism has been replaced by a well founded anxiety for the fate
of humanity.
28. At the same time, however, the "economic" concept
itself, linked to the word development, has entered into crisis. In fact there
is a better understanding today that the mere accumulation of goods and
services, even for the benefit of the majority, is not enough for the
realization of human happiness. Nor, in consequence, does the availability of
the many real benefits provided in recent times by science and technology,
including the computer sciences, bring freedom from every form of slavery. On
the contrary, the experience of recent years shows that unless all the
considerable body of resources and potential at man's disposal is guided by a
moral understanding and by an orientation towards the true good of the human
race, it easily turns against man to oppress him.
A disconcerting conclusion about the most recent period should
serve to enlighten us: side-by-side with the miseries of underdevelopment,
themselves unacceptable, we find ourselves up against a form of
superdevelopment, equally inadmissible. because like the former it is contrary
to what is good and to true happiness. This super-development, which consists
in an excessive availability of every kind of material goods for the benefit of
certain social groups, easily makes people slaves of "possession" and
of immediate gratification, with no other horizon than the multiplication or
continual replacement of the things already owned with others still better.
This is the so-called civilization of "consumption" or "
consumerism ," which involves so much "throwing-away" and
"waste." An object already owned but now superseded by something
better is discarded, with no thought of its possible lasting value in itself,
nor of some other human being who is poorer.
All of us experience firsthand the sad effects of this blind
submission to pure consumerism: in the first place a crass materialism, and at
the same time a radical dissatisfaction, because one quickly learns - unless
one is shielded from the flood of publicity and the ceaseless and tempting
offers of products - that the more one possesses the more one wants, while
deeper aspirations remain unsatisfied and perhaps even stifled.
The Encyclical of Pope Paul VI pointed out the difference, so
often emphasized today, between "having" and
"being," which had been expressed earlier in precise words by
the Second Vatican Council. To "have" objects and goods does not
in itself perfect the human subject, unless it contributes to the maturing and
enrichment of that subject's "being," that is to say unless it
contributes to the realization of the human vocation as such.
Of course, the difference between "being" and
"having," the danger inherent in a mere multiplication or replacement
of things possessed compared to the value of "being," need not turn
into a contradiction. One of the greatest injustices in the contemporary world
consists precisely in this: that the ones who possess much are relatively few
and those who possess almost nothing are many. It is the injustice of the poor
distribution of the goods and services originally intended for all.
This then is the picture: there are some people - the few who possess
much - who do not really succeed in "being" because, through a
reversal of the hierarchy of values, they are hindered by the cult of
"having"; and there are others - the many who have little or nothing
- who do not succeed in realizing their basic human vocation because they are
deprived of essential goods.
The evil does not consist in "having" as such, but in
possessing without regard for the quality and the ordered hierarchy of the
goods one has. Quality and hierarchy arise from the subordination of goods and
their availability to man's "being" and his true vocation.
This shows that although development has a necessary economic
dimension, since it must supply the greatest possible number of the world's
inhabitants with an availability of goods essential for them "to be,"
it is not limited to that dimension. If it is limited to this, then it turns
against those whom it is meant to benefit.
The characteristics of full development, one which is "more
human" and able to sustain itself at the level of the true vocation of men
and women without denying economic requirements, were described by Paul VI.
29. Development which is not only economic must be measured and
oriented according to the reality and vocation of man seen in his totality,
namely, according to his interior dimension. There is no doubt that he needs
created goods and the products of industry, which is constantly being enriched
by scientific and technological progress. And the ever greater availability of
material goods not only meets needs but also opens new horizons. The danger of
the misuse of material goods and the appearance of artificial needs should in
no way hinder the regard we have for the new goods and resources placed at our
disposal and the use we make of them. On the contrary, we must see them as a
gift from God and as a response to the human vocation, which is fully realized
in Christ.
However, in trying to achieve true development we must never lose
sight of that dimension which is in the specific nature of man, who has been
created by God in his image and likeness (cf. Gen 1:26). It is a bodily and a
spiritual nature, symbolized in the second creation account by the two
elements: the earth, from which God forms man's body, and the breath of life
which he breathes into man's nostrils (cf. Gen 2:7).
Thus man comes to have a certain affinity with other creatures: he
is called to use them, and to be involved with them. As the Genesis account
says (cf. Gen 2:15), he is placed in the garden with the duty of cultivating
and watching over it, being superior to the other creatures placed by God under
his dominion (cf. Gen 1:25-26). But at the same time man must remain subject to
the will of God, who imposes limits upon his use and dominion over things (cf.
Gen 2:16-17), just as he promises his mortality (cf. Gen 2:9; Wis 2:23). Thus
man, being the image of God, has a true affinity with him too. On the basis of
this teaching, development cannot consist only in the use, dominion over and
indiscriminate possession of created things and the products of human industry,
but rather in subordinating the possession, dominion and use to man's divine
likeness and to his vocation to immortality. This is the transcendent reality
of the human being, a reality which is seen to be shared from the beginning by
a couple, a man and a woman (cf. Gen 1:27), and is therefore fundamentally
social.
30. According to Sacred Scripture therefore, the notion of
development is not only "lay" or "profane," but it is also
seen to be, while having a socio-economic dimension of its own, the modern
expression of an essential dimension of man's vocation.
The fact is that man was not created, so to speak, immobile and
static. The first portrayal of him, as given in the Bible, certainly presents
him as a creature and image, defined in his deepest reality by the origin and
affinity that constitute him. But all this plants within the human being - man
and woman - the seed and the requirement of a special task to be accomplished
by each individually and by them as a couple. The task is "to have
dominion" over the other created beings, "to cultivate the
garden." This is to be accomplished within the framework of obedience to
the divine law and therefore with respect for the image received, the image
which is the clear foundation of the power of dominion recognized as belonging
to man as the means to his perfection (cf. Gen 1:26-30; 2:15-16; Wis 9:2-3).
When man disobeys God and refuses to submit to his rule, nature
rebels against him and no longer recognizes him as its "master," for
he has tarnished the divine image in himself. The claim to ownership and use of
created things remains still valid, but after sin its exercise becomes
difficult and full of suffering (cf. Gen 3:17-19).
In fact, the following chapter of Genesis shows us that the
descendants of Cain build "a city," engage in sheep farming, practice
the arts (music) and technical skills (metallurgy); while at the same time
people began to "call upon the name of the Lord" (cf. Gen 4:17-26).
The story of the human race described by Sacred Scripture is, even
after the fall into sin, a story of constant achievements, which, although
always called into question and threatened by sin, are nonetheless repeated,
increased and extended in response to the divine vocation given from the beginning
to man and to woman (cf. Gen 1:26-28) and inscribed in the image which they
received.
It is logical to conclude, at least on the part of those who
believe in the word of God, that today's "development" is to be seen
as a moment in the story which began at creation, a story which is constantly
endangered by reason of infidelity to the Creator's will, and especially by the
temptation to idolatry. But this "development" fundamentally
corresponds to the first premises. Anyone wishing to renounce the difficult yet
noble task of improving the lot of man in his totality, and of all people, with
the excuse that the struggle is difficult and that constant effort is required,
or simply because of the experience of defeat and the need to begin again, that
person would be betraying the will of God the Creator. In this regard, in the
Encyclical Laborem Exercens I referred to man's vocation to
work, in order to emphasize the idea that it is always man who is the
protagonist of development.
Indeed, the Lord Jesus himself, in the parable of the talents,
emphasizes the severe treatment given to the man who dared to hide the gift
received: "You wicked slothful servant! You knew that I reap where I have
not sowed and gather where I have not winnowed? ...So take the talent from him,
and give it to him who has the ten talents" (Mt 25:26-28). It falls to us,
who receive the gifts of God in order to make them fruitful, to "sow"
and "reap." If we do not, even what we have will be taken away from
us.
A deeper study of these harsh words will make us commit ourselves
more resolutely to the duty, which is urgent for everyone today, to work
together for the full development of others: "development of the whole
human being and of all people."
31. Faith in Christ the Redeemer, while it illuminates from within
the nature of development, also guides us in the task of collaboration. In the
Letter of St. Paul to the Colossians, we read that Christ is "the
first-born of all creation," and that "all things were created through
him" and for him (1:15-16). In fact, "all things hold together in
him," since "in him all the fullness of God was pleased to dwell, and
through him to reconcile to himself all things" (v. 20).
A part of this divine plan, which begins from eternity in Christ,
the perfect "image" of the Father, and which culminates in him,
"the firstborn from the dead" (v. 18), is our own history, marked by
our personal and collective effort to raise up the human condition and to
overcome the obstacles which are continually arising along our way. It thus
prepares us to share in the fullness which "dwells in the Lord" and
which he communicates "to his body, which is the Church" (v. 18; cf.
Eph 1:22-23). At the same time sin, which is always attempting to trap us and
which jeopardizes our human achievements, is conquered and redeemed by the
"reconciliation" accomplished by Christ (cf. Col 1:20).
Here the perspectives widen. The dream of "unlimited
progress" reappears, radically transformed by the new outlook created by
Christian faith, assuring us that progress is possible only because God the
Father has decided from the beginning to make man a sharer of his glory in
Jesus Christ risen from the dead, in whom "we have redemption through his
blood...the forgiveness of our trespasses" (Eph 1:7). In him God wished to
conquer sin and make it serve our greater good, which infinitely surpasses
what progress could achieve.
We can say therefore - as we struggle amidst the obscurities and
deficiencies of underdevelopment and superdevelopment - that one day this
corruptible body will put on incorruptibility, this mortal body immortality
(cf. 1 Cor 15:54), when the Lord "delivers the Kingdom to God the
Father" (v. 24) and all the works and actions that are worthy of man will
be redeemed.
Furthermore, the concept of faith makes quite clear the reasons
which impel the Church to concern herself with the problems of development, to
consider them a duty of her pastoral ministry, and to urge all to think about
the nature and characteristics of authentic human development. Through her
commitment she desires, on the one hand, to place herself at the service of the
divine plan which is meant to order all things to the fullness which dwells in
Christ (cf. Col 1:19) and which he communicated to his body; and on the other hand
she desires to respond to her fundamental vocation of being a
"sacrament," that is to say "a sign and instrument of intimate
union with God and of the unity of the whole human race."
Some Fathers of the Church were inspired by this idea to develop
in original ways a concept of the meaning of history and of human work,
directed towards a goal which surpasses this meaning and which is always
defined by its relationship to the work of Christ. In other words, one can find
in the teaching of the Fathers an optimistic vision of history and work, that
is to say of the perennial value of authentic human achievements, inasmuch as
they are redeemed by Christ and destined for the promised Kingdom.
Thus, part of the teaching and most ancient practice of the Church
is her conviction that she is obliged by her vocation - she herself, her
ministers and each of her members - to relieve the misery of the suffering,
both far and near, not only out of her "abundance" but also out of
her "necessities." Faced by cases of need, one cannot ignore them in
favor of superfluous church ornaments and costly furnishings for divine
worship; on the contrary it could be obligatory to sell these goods in order to
provide food, drink, clothing and shelter for those who lack these things. As
has been already noted, here we are shown a "hierarchy of values" -
in the framework of the right to property - between"having" and
"being," especially when the "having" of a few can be to
the detriment of the "being" of many others.
In his Encyclical Pope Paul VI stands in the line of this
teaching, taking his inspiration from the Pastoral Constitution Gaudium
et Spes. For my own part, I wish to insist once more on the
seriousness and urgency of that teaching, and I ask the Lord to give all
Christians the strength to put it faithfully into practice.
32. The obligation to commit oneself to the development of peoples
is not just an individual duty, and still less an individualistic one, as if it
were possible to achieve this development through the isolated efforts of each
individual. It is an imperative which obliges each and every man and woman, as
well as societies and nations. In particular, it obliges the Catholic Church
and the other Churches and Ecclesial Communities, with which we are completely
willing to collaborate in this field. In this sense, just as we Catholics
invite our Christian brethren to share in our initiatives, so too we declare
that we are ready to collaborate in theirs, and we welcome the invitations
presented to us. In this pursuit of integral human development we can also do
much with the members of other religions, as in fact is being done in various
places.
Collaboration in the development of the whole person and of every
human being is in fact a duty of all towards all, and must be shared by the
four parts of the world: East and West, North and South; or, as we say today,
by the different "worlds." If, on the contrary, people try to achieve
it in only one part, or in only one world, they do so at the expense of the others;
and, precisely because the others are ignored, their own development becomes
exaggerated and misdirected.
Peoples or nations too have a right to their own full development,
which while including - as already said - the economic and social aspects,
should also include individual cultural identity and openness to the
transcendent. Not even the need for development can be used as an excuse for
imposing on others one's own way of life or own religious belief.
33. Nor would a type of development which did not respect and
promote human rights - personal and social, economic and political, including
the rights of nations and of peoples - be really worthy of man.
Today, perhaps more than in the past, the intrinsic contradiction
of a development limited only to its economic element is seen more clearly.
Such development easily subjects the human person and his deepest needs to the
demands of economic planning and selfish profit.
The intrinsic connection between authentic development and respect
for human rights once again reveals the moral character of development: the
true elevation of man, in conformity with the natural and historical vocation
of each individual, is not attained only by exploiting the abundance of goods
and services, or by having available perfect infrastructures.
When individuals and communities do not see a rigorous respect for
the moral, cultural and spiritual requirements, based on the dignity of the
person and on the proper identity of each community, beginning with the family
and religious societies, then all the rest - availability of goods, abundance
of technical resources applied to daily life, a certain level of material
well-being - will prove unsatisfying and in the end contemptible. The Lord
clearly says this in the Gospel, when he calls the attention of all to the true
hierarchy of values: "For what will it profit a man, if he gains the whole
world and forfeits his life?" (Mt 16:26)
True development, in keeping with the specific needs of the human
being-man or woman, child, adult or old person-implies, especially for those
who actively share in this process and are responsible for it, a lively
awareness of the value of the rights of all and of each person. It likewise
implies a lively awareness of the need to respect the right of every individual
to the full use of the benefits offered by science and technology.
On the internal level of every nation, respect for all rights
takes on great importance, especially: the right to life at every stage of its
existence; the rights of the family, as the basic social community, or
"cell of society"; justice in employment relationships; the rights
inherent in the life of the political community as such; the rights based on
the transcendent vocation of the human being, beginning with the right of freedom
to profess and practice one's own religious belief.
On the international level, that is, the level of relations
between States or, in present-day usage, between the different
"worlds," there must be complete respect for the identity of each
people, with its own historical and cultural characteristics. It is likewise
essential, as the Encyclical Populorum Progressio already
asked, to recognize each people's equal right "to be seated at the table
of the common banquet," instead of lying outside the door like Lazarus,
while "the dogs come and lick his sores" (cf. Lk 16:21). Both peoples
and individual must enjoy the fundamental equality which is the basis, for
example, of the Charter of the United Nations Organization: the equality which
is the basis of the right of all to share in the process of full development.
In order to be genuine, development must be achieved within the
framework of solidarity and freedom, without ever sacrificing either of them
under whatever pretext. The moral character of development and its necessary
promotion are emphasized when the most rigorous respect is given to all the
demands deriving from the order of truth and good proper to the human person.
Furthermore the Christian who is taught to see that man is the image of God,
called to share in the truth and the good which is God himself, does not
understand a commitment to development and its application which excludes
regard and respect for the unique dignity of this "image." In other
words, true development must be based on the love of God and neighbor, and must
help to promote the relationships between individuals and society. This is the
"civilization of love" of which Paul VI often spoke.
34. Nor can the moral character of development exclude respect for
the beings which constitute the natural world, which the ancient Greeks -
alluding precisely to the order which distinguishes it - called the
"cosmos." Such realities also demand respect, by virtue of a
threefold consideration which it is useful to reflect upon carefully.
The first consideration is the appropriateness of acquiring a
growing awareness of the fact that one cannot use with impunity the different
categories of beings, whether living or inanimate - animals, plants, the
natural elements - simply as one wishes, according to one s own economic needs.
On the contrary, one must take into account the nature of each being and of its
mutual connection in an ordered system, which is precisely the cosmos."
The second consideration is based on the realization - which is
perhaps more urgent - that natural resources are limited; some are not, as it
is said, renewable. Using them as if they were inexhaustible, with absolute
dominion, seriously endangers their availability not only for the present
generation but above all for generations to come.
The third consideration refers directly to the consequences of a
certain type of development on the quality of life in the industrialized zones.
We all know that the direct or indirect result of industrialization is, ever
more frequently, the pollution of the environment, with serious consequences
for the health of the population.
Once again it is evident that development, the planning which
governs it, and the way in which resources are used must include respect for
moral demands. One of the latter undoubtedly imposes limits on the use of the
natural world. The dominion granted to man by the Creator is not an absolute
power, nor can one speak of a freedom to "use and misuse," or to
dispose of things as one pleases. The limitation imposed from the beginning by
the Creator himself and expressed symbolically by the prohibition not to
"eat of the fruit of the tree" (cf. Gen 2:16-17) shows clearly enough
that, when it comes to the natural world, we are subject not only to biological
laws but also to moral ones, which cannot be violated with impunity.
A true concept of development cannot ignore the use of the
elements of nature, the renewability of resources and the consequences of
haphazard industrialization - three considerations which alert our consciences to
the moral dimension of development.