Popolazione, comunità,
popolo
La popolazione è fatta delle persone che
abitano in un certo territorio. E’ quindi una variabile dipendente dal
territorio, nel senso che a seconda dell’area geografica che di volta in volta
si considera, variano anche le caratteristiche della popolazione su di essa
stanziata.
La nostra parrocchia è stata istituita come
territoriale e quindi ha una sua popolazione: le persone che abitano nel suo
territorio. L’istituzione ecclesiastica è stata creata fondamentalmente per
loro, e anche in un certo senso sopra
di loro. Tiene i registri di battezzati, cresimati, sposati, morti;
celebra i sacramenti, e in primo luogo l’Eucaristia, nella messa; cura la
formazione religiosa dei laici a vari livelli; amministra i beni parrocchiali,
che sono gli immobili del complesso parrocchiale, il loro mobilio e gli altri
loro arredi, gli strumenti didattici e liturgici, le risorse finanziarie; e
infine orienta e promuove l'associazionismo laicale e interloquisce con la
società intorno, comprese le altre parrocchie dei dintorni, e con le autorità
ecclesiastiche. Tutte queste attività possono essere considerate servizi,
ma rientrano anche in quella di governo, perché implicano l’esercizio di poteri, e questi ultimi sono prerogativa esclusiva del clero, in particolare
del parroco e dei preti e diacono che con lui collaborano. Dall’esercizio di
questa autorità i laici sono esclusi e possono al più collaborarvi come
consulenti, ma la loro consulenza è obbligatoria solo per l’amministrazione dei
beni.
Un aspetto molto importante del governo di un parrocchia è la predicazione, che
per altro verso rientra nell’attività formativa, però è molto di più. Se ne
parla come della pastorale e questo rende l’idea di un gregge che è condotto da un pastore che predicando lo orienta.
La formazione del clero è molto accurata e
lunga per abilitarlo a questo lavoro. Non è centrata solo sulla teologia, che
però vi ha la parte più importante, ma comprende anche altre discipline, alcune
strettamente connesse, come quelle che studiano i testi sacri, altre meno, come
la psicologia, l’antropologia e la sociologia, o comunque affini come la filosofia.
Fin dall’antichità la predicazione è stata
considerata un elemento particolarmente critico e tuttora lo è, tanto che clero
e religiosi sono sottoposti a una sorta di penetrante polizia ideologica da
parte di una struttura centrale istituita presso la Santa Sede, la
Congregazione per la dottrina della fede. Per secoli la repressione ideologica
è stata particolarmente violenta e anche sanguinosa. I laici ora ne sono stati
emancipati per lo sviluppo di processi democratici, dall’Ottocento, ma
l’abolizione degli insegnamenti di teologia nelle università statali, dopo la
costituzione dello stato unitario italiano, nella seconda metà dell’Ottocento,
non consentì più in Italia, nella nostra Chiesa, se non marginalmente, una
formazione teologica di alto livello libera rispetto al governo ecclesiale, e
quindi lo sviluppo di scuole di pensiero teologico con una certa autonomia
rispetto ad esso.
Da un lato c’è, quindi, questo potere ecclesiastico
e dall’altra c’è la popolazione della parrocchia che vi è soggetta, quella in cui vorrebbe indursi un sentimento di essere parte del popolo di Dio, perché sia non solo soggetta ad un potere, ma soggetto attivo dell'evangelizzazione e della riforma sociale, che la dottrina sociale considera parte della prima.
Ogni popolazione è connotata da processi
comunitari, alcuni dei quali con aspetti istituzionali come la nostra Azione
Cattolica, che è un’associazione ecclesiale con un proprio statuto e un proprio
ordinamento, improntato a principi democratici. Questo le consente di durare
nel tempo, al di là dell’evoluzione spontanea delle comunità che la compongono
e animano, che hanno una vita collettiva simile a quella delle singole persone.
Le comunità nascono e muoiono: però, se sono istituzionalizzate, non muoiono veramente, ma vivono diverse stagioni
o cicli, e, dopo periodi di
tendenziale dispersione, rivivono per l’afflusso di forze nuove.
Una comunità è una piccola società
caratterizzata da relazioni personali più intense, da una certa intimità
amicale, e in tal modo appaga l’emotività delle persone. Questo elemento è molto importante perché la
nostra è una mente emotiva e noi capiamo emotivamente. Vivendo in
comunità, realtà che vengono definite di mondo vitale, costruiamo nella
nostra interiorità un sentimento di senso della vita: esso è
necessariamente un frutto di relazioni
comunitarie, altrimenti non c’è.
In condizioni di isolamento sentiamo
che la nostra vita perde di senso. Ciò si manifesta particolarmente nell’età
più anziana, ma, ad esempio, anche di questi tempi, in cui, a causa delle limitazioni della socialità conseguenti alle disposizioni sanitarie per la
prevenzione della pandemia, abbiamo abbandonato alcune nostre abitudini sociali
(ormai da oltre un anno).
Una comunità di solito si sviluppa
essenzialmente agendo verso l’interno e al proprio interno e si occupa di chi è
all’esterno più che altro per aggregare
nuovi membri, per difendersi o per
acquisire nuovi spazi. Questo perché, aprendosi troppo, tende a dissolvere quei
legami intensi che costituiscono la sua ragione d’essere e la sua attrattiva.
I contatti tra diverse comunità generano
pertanto attriti e allora vengono vissuti in modo conflittuale. Per ogni
comunità le altre comunità sono un pericolo. Questo può accadere anche nelle
dinamiche comunitarie di un gruppo grosso quando venga suddiviso in gruppi più
piccoli, ad esempio per fasce d’età, altre condizioni personali (ad esempio
uomini e donne, spostati e non), interessi, attività prevalentemente svolte,
competenze gerarchiche, dove c’è una struttura organizzativa con gruppi
sovraordinati ad altri.
Ogni persona è poi come confinata nella sua
fascia d’età, nelle dinamiche comunitarie, perché raramente una comunità è in
grado di generare senso tra persone di età diverse, per la mancanza
della possibilità di una vera intimità. Un certo attrito si sviluppa anche tra gruppi di età diverse.
In quanto ha un territorio, una parrocchia ha
una popolazione e, in quanto esercita un’autorità, la parrocchia ha un popolo,
che è la popolazione soggetta a quell’autorità. Storicamente infatti il
concetto di popolo è strettamente connesso a quello di governo.
Quando, dal Seicento, in Europa cominciarono a consolidarsi stati nazionali,
ambendo le dinastie allora regnanti ad esercitare la propria autorità su aree geografiche caratterizzate da
popolazioni che esprimevano culture omogenee, ad esempio lingue dello
stesso ceppo, si sviluppò un processo culturale che condusse nell’Ottocento a
immaginare i popoli come parti attive nella storia dell’umanità non solo come sudditi. Da qui
poi l’idea di una sovranità popolare, contrapposta a quella esercitata
sui loro popoli dalle monarchie dinastiche. L’idea di popolo di Dio che
è stata costruita durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) risente di
quell’evoluzione. La relativa teologia fu teorizzata partendo alla riflessione
sulle narrazioni relative alla liberazione dall’Egitto degli antichi israeliti,
in particolare dalle narrazioni raccolte nel libro biblico dell’Esodo. Il popolo
preso in considerazione del saggi del
Concilio è un popolo attivo e, in più, un popolo che ama ed è amato.
La sua conversione religiosa è presentata anche come un ritornare al
suo amore. Questo popolo, che in quanto amante ha caratteristiche comunitarie, con questa sua capacità di amare anima la
storia. Il suo amore è espresso nel vangelo cristiano e viene presentato come
ampiamente diffusivo, spinto dalla sua forza fino agli estremi confini del
mondo e verso tutti i popoli della Terra. E’ una teologia con forti caratteri
mitici, vale a dire connotata da importanti elementi emotivi. Pensa a tutti i
popoli della Terra come ad un’unica famiglia e alla Terra intera come una casa
comune.
Dagli anni Sessanta coesistono nella nostra
Chiesa l’antica concezione del popolo
gregge, caratterizzato dal potere di un Padre-pastore sulla popolazione di un certo territorio, e
quella nuova, conciliare, del popolo comunità, caratterizzato
quest’ultimo dalla cultura evangelica e dal proprio conseguente mito di popolo-amante. In questo
quadro si vorrebbe indurre nelle istituzioni dimensioni comunitarie, farne
delle comunità. Si pensa che, in questo modo, il vangelo dovrebbe finire
per prodursi nelle culture di queste comunità attive e vitali, come i frutti da un albero, ed esserne
sorretto, senza dover essere come imposto dall’alto, d’autorità,
dall’istituzione.
Questa dinamica però è stata bloccata riguardo
alle parrocchie, per le quali tutto, dagli anni ’80, è rimasto come sospeso,
dopo l’effervescenza del decennio precedente. Quindi abbiamo comunità che abitano
la parrocchia, la quale però è rimasta fondamentalmente istituzione animata dal governo ecclesiale, che è manifestazione
della gerarchia del clero. Ma non c’è ancora una vera e propria comunità
parrocchiale, manifestazione del popolo di Dio: c’è una popolazione
che abita un territorio parrocchiale è che è popolo della parrocchia in quanto soggetto alla
sua autorità e fruitore di suoi servizi.
Il problema è che non abbiamo ancora
sviluppato, con riferimento a realtà di prossimità come le parrocchie, in cui
si sviluppa un certo pluralismo comunitario, quindi con compresenza di varie
comunità di orientamenti e strutture diversi, un mito adeguato, capace di fare
unità, e il mito del popolo di Dio, ideato tenendo presente un contesto
per così dire universale, finora non è stato funzionale alla coesione
parrocchiale, non funziona su questa scala più piccola.
In Italia, in particolare, vi sono ragioni
specifiche per l’inutilizzabilità del mito del popolo di Dio come fattore
unificate su scala locale. Quel mito è collegato a quello di popolo-nazione-stirpe che fu al centro dell’ideologia del nazionalismo
irredentista italiano nell’Ottocento, in particolare nel mazzinianesimo. Contro
di esso il Papato si scagliò duramente formando il popolo a diffidarne. Questo
fu solo parzialmente superato nell’assimilazione al fascismo mussoliniano, che
al fondo era una forma di populismo. Nell’ideologia anti-unitaria del Papato il
buon popolo era quello che gli era
rimasto fedele, caratterizzato dalla comune fede cristiana secondo il
cattolicesimo romana, non da una comunanza di stirpe e cultura.
Ma poi il mito del popolo funziona se le
origini della comunanza di stirpe, e quindi della parentela etnica, si perdono nel tempo: la parrocchia è un’istituzione
troppo recente per fondare quel legame. “Siamo
parenti per via di Adamo”, “Siamo
tutti figli di Abramo”, funzionano su grande scala, ma in parrocchia
sappiamo quando e come siamo capitati e ci rendiamo conto di esserci venuti
partendo da storie molto diverse, che tali sono rimaste.
Inoltre i cristiani, ma in particolare i
cattolici, sono stati formati più o meno tutti considerando un valore l’intolleranza
ideologica e teologica, avendo tra i santi tanti persecutori dei cosiddetti eretici, e su questo la revisione
iniziata dal Secondo dopo guerra è molto lontana dall’aver dato risultati veramente
significativi. Appunto la teologia del popolo
di Dio vorrebbe rimediarvi, ma inconsapevolmente, sulla base delle
ideologia nazionaliste legate all’idea di popolo,
che sicuramente non furono fattore di pace, anzi, pensa al proprio gruppo come
il vero popolo.
Infine l’idea di un popolo-famiglia, insita in ogni populismo e dunque anche in quello
dei popolo di Dio, comporta, come
ogni concezione di carattere organico,
che assimila i corpi sociali e quelli fisici delle persone, un certo carattere gerarchico, per cui, una volta che si tenti di concepirsi come popolo-famiglia, ciascuno cerca di
ritagliarsi un ruolo, che ha anche un significato gerarchico, quindi ci si
impersona, in padri, al vertice, madri, vice-padri,
figli, e tra questi fratelli e sorelle, adulti, ragazzi e bimbi, maschi e
femmine e difficilmente ci si mette d’accordo e, soprattutto, se ne ricava quel
sentimento di senso della vita che è al fondo dei fenomeni comunitari. La gerarchia ammazza l’amore, e quindi il sentimento di senso della vita, che può essere recuperato solo se, in famiglia, si accantona o supera la gerarchia, come viene dimostrato nella parabola del Padre misericordioso.
Anche dal punto biblico l’idea di popolo è legata a quella di un popolo e non è stata
ancora ben adattata all’intera umanità che, nelle concezione bibliche, potrebbe
essere definita come i popoli, in un
contesto in cui c’è un popolo che
agisce, cammina, ama, lotta, si trasforma, si perde e si converte, e via
dicendo, e le genti, vale a dire
tutti gli altri. In un popolo - mondo gli altri non ci sono più. Quindi per la gente, in genere, il popolo è il proprio popolo e quest’ultimo
non coincide con l’intera umanità. E’ per questo che nelle guerre i cristiani
hanno pregato ciascuno per la vittoria del proprio popolo contro
i popoli nemici, non riuscendo proprio, nel
confitto, applicare la teologia che ci vuole tutti figli di un medesimo Padre celeste e quindi, da quel
punto di vista, una sola famiglia, la famiglia umana.
La dottrina sociale storicamente ha cercato di
superare quei problemi cercando di costruire un’ideologia amicale come fondamento virtuoso della società, quella dell’amicizia sociale che viene riproposta anche nel magistero di
papa Francesco, molto centrato anche sull’idea di popolo fraterno,
capace di comporre le diversità come in un poliedro, per cercare di
indurre un processo unificante anche a livello di prossimità esortando a
superare le differenze in un processo animato dalla misericordia. Quello amicale e
quello fraterno sono però due ideologie unificanti diverse, perché fratelli si
nasce e amici si diventa e non è detto che i fratelli sappiano convivere, il
mito di Caino e Abele lo dimostra, mentre gli amici sanno farlo perché
altrimenti non sarebbero tali. Il fattore unificante fraterno è però più saldo,
perché non è nella disponibilità dei fratelli, è originario, mentre quello
amicale va continuamente ricostruito. Il primo però, nelle situazioni di
conflitto, è un ideale che spesso non si riesce a rendere effettivo, il secondo
presuppone il superamento delle crisi conflittuali.
Mario Ardigò – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.