Ripubblico
Chi vince e chi
perde, capi politici; rivoluzione, riforma, conservazione, reazione
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(20-10-17)
1. Ho avuto il privilegio di
una formazione universitaria, che poi è a lungo proseguita, fino ad oggi, nella
nostra Chiesa, a cominciare dai tempi della FUCI, l’organizzazione degli
universitari cattolici. E’ stata data a me e ad altri per arricchire la
società. Ad esempio per fare il lavoro che sto svolgendo di questi tempi
scrivendo per voi di politica.
La politica è il governo della società. In un regime democratico è
ammessa una vasta collaborazione in questo. Nei tempi antichi ai figli di re
veniva data una specifica istruzione per prepararli. Infatti, benché figli di
sovrano, non si nasce con la capacità
politica. Si acquisisce. Si impara e quindi, anche, si insegna. Un grande
maestro di politica fu il filosofo greco Aristotele, vissuto nel Quarto secolo
dell’era antica. La insegnò al figlio del re macedone Filippo II, Alessandro,
il quale creando un enorme impero con cultura greca tra Grecia, Egitto e
Persia, rese possibile, circa tre secoli dopo, la diffusione in Europa della
nostra cultura religiosa, a partire dal confine estremo dell’impero romano.
Essa, agli inizi, parlò greco.
Governare società complesse come quelle in cui viviamo richiede un certo
livello di cultura e, quindi, di preparazione. Gli italiani di oggi sono gente
altamente scolarizzata, quindi ci sono le condizioni giuste. Purtroppo è stato
osservato che la classe politica che è stata da loro selezionata non sempre
appare adeguatamente formata. Nel Parlamento attuale siede il minor numero di
laureati di sempre. E la laurea non è il livello più altro di formazione.
Questo si riflette nei discorsi che chi fa politica propone alla gente. A parte
veri e propri strafalcioni, che segnalano una certa improvvisazione
nell’affrontare questioni molto serie, di solito non si manifesta una
sufficiente consapevolezza della complessità dei problemi sociali.
Sento
spesso presentare le elezioni politiche nazionali come una gara in cui c’è chi vince e chi perde. Questo è un
approccio bambinesco. Non è la realtà che c’è in ballo. Se fosse come dicono
sarebbe del tutto inutile eleggere,
quindi scegliere, dei parlamentari,
circa novecento. Basterebbe risolvere tutto a livello di capi politici: quello che ha
riportato più voti comanda e quindi decide lui dove deve andare la nazione. In
quest’ottica il Parlamento sarebbe un’inutile complicazione, visto che deve
decidere chi ha vinto. Guardate che il problema fu posto molto seriamente da
uno dei principali esponenti politici degli anni passati. Perché non far
decidere tutto ad un comitato ristretto di quattro o cinque persone, i capi
politici delle forze che si sono
classificate utilmente alle elezioni, pesando
il loro ruolo a seconda dei voti presi? Sembrerebbe democrazia, ma non lo
è. Sarebbe un regime plebiscitario,
in cui il popolo sarebbe ridotto a plebe,
senza più voce in capitolo chiuse le urne elettorali. Il Parlamento, con i suoi
molti membri, serve invece a dargliela anche dopo.
Alle elezioni si sceglie una classe politica di vertice, che avrà la
responsabilità delle decisioni più importanti. E’ come quando, nei giochi di
bambini, facevamo una squadra di calcio. Si sta tutti dalla
stessa parte e poi si gioca contro la squadra avversaria. Ragionando un po’ bambinescamente
potremmo raffigurare la politica internazionale come una coppa del mondo, in cui giocano tante squadre nazionali. La nostra squadra
è il Parlamento nazionale. Se è divisa,
se non sa giocare insieme, perde, si perde tutti.
La politica democratica non è cosa solo da capi politici, solo da esponenti di
vertice delle varie formazioni. La parola democrazia
viene dal greco antico e contiene in sé la parola popolo, che in greco era dèmos,
e governo, che in greco era kràtos: quindi significa governo
del popolo. Non dei capi del popolo. Questo è tanto vero che
nella nostra Costituzione c’è una regola per cui i partiti politici devono
avere un ordinamento democratico. E’ contenuta
nell’art.49:
Tutti
i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere
con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Il metodo democratico riguarda la stessa organizzazione interna dei
partiti. Non sempre se ne ha
consapevolezza e quindi poi si attua questo principio. Un partito non
organizzato democraticamente tenderà poi a fare simile a sé la politica
intorno. E’ quello che accadde con il Partito Nazionale Fascista mussoliniano.
In Parlamento ci vuole tanta gente, la
squadra deve essere molto numerosa, perché la nostra società è molto complessa, nonostante che l’Italia, al
confronto ad esempio della Repubblica di Cina, è veramente piccolina. Siamo
comunque circa sessanta milioni, un bel po’ di gente, ognuno con la sua testa,
i suoi desideri e le sue paure. Per capire società complesse servono tante
menti e qualcuno che sappia, alla fine, tirare le somme, senza però fare solo di
testa sua, ma facendo la sintesi di un lavoro collettivo.
I politici più sprovveduti sono quelli che,
in genere, si mostrano più sicuri di sé, quelli che hanno la soluzione giusta
per tutto. Se li si nominasse imperatori del mondo metterebbero a posto le cose
a livello globale. Credete che sia possibile?
Il politico affidabile si allineerà invece
agli studiosi di politica, società ed economia, i quali riconoscono che la
società in cui viviamo è molto complessa e, per essere governata, richiede
prima di essere capita meglio che si può, con la collaborazione più vasta, e
poi di tentare cambiamenti, ma in via sperimentale, sempre
pronti ad imparare dall’esperienza, quella propria e quella degli altri, per
correggere errori che inevitabilmente si faranno. Quindi susciterà la più ampia
discussione su ciò che progetta di fare, in modo da avere la collaborazione di
tante altre menti e volontà. Si mostrerà pronto ad apportare le modifiche che
risultino ragionevoli, ben argomentate. Questo appunto è il lavoro che si fa in
Parlamento, in particolare non nel lavoro dell’aula, con la (teorica) presenza
di tutti, ma nelle commissioni, gruppi ristretti che in certi casi hanno anche
potere deliberante, non solo quello di preparare le decisioni da portare in
aula.
2. In politica si
parte da una situazione sociale e si fanno progetti. Rispetto al punto di
partenza si può essere conservatori, riformatori o rivoluzionari. Il
conservatore vuole mantenere le cose come stanno, il riformatore le vuole
cambiare nel rispetto delle regole delle istituzioni, il rivoluzionario vuole
forzare quelle regole per raggiungere i propri scopi. C’è anche l’atteggiamento
del reazionario, che vorrebbe tornare ad
una situazione precedente: ma, a seconda dei casi, vale a dire se si proponga
di rispettare le regole istituzionali che ci sono o non, sarà un riformatore
(all’indietro) o un rivoluzionario (sempre all’indietro). Il Papato, ad esempio,
dall’unità d’Italia fino più o meno alla Prima guerra mondiale è stato
politicamente reazionario rivoluzionario (rispetto al regime liberale
democratico). Appoggiando il fascismo mussoliniano si è fatto rivoluzionario
(sempre rispetto al regime liberale democratico). Si è mantenuto rivoluzionario sostenendo la
trasformazione dell’Italia in un regime democratico, poi si è mantenuto conservatore fino agli anni
Sessanta, e in seguito è divenuto riformista, con la parentesi rivoluzionaria
durante i fatti polacchi degli anni ’80. Nell’enciclica Laudato si’, del 2015, troviamo un esempio molto raffinato di
riformismo politico, con la proposta di
cambiamenti addirittura a livello mondiale.
I
maggiori partiti italiani di oggi sono in genere conservatori, nel senso che
immaginano solo cambiamenti di dettaglio alla situazione di oggi. Però di
solito di dicono riformisti. Questo perché molta gente soffre e dirsi
conservatori non sta bene. Davvero non si possono veramente immaginare riforme,
per cui non resta che mantenersi conservatori? Di fatto nelle passate
legislature (la legislatura è il tempo in cui dura un Parlamento eletto) si
sono approvate molte riforme. Una riforma è un insieme organico, vale a dire coerente, di norme, di solito
contenute in una o più leggi, che modifica un settore sociale. Una riforma di
questo tipo è stata, negli anni 70, quella del diritto di famiglia, che ha
realizzato la parità tra uomo e donna. Nella legislatura che si sta concludendo
sono state approvate importanti riforme nella procedura civile e penale. Fare
una riforma è sicuramente un risultato per un politico, ma non è tutto: occorre
anche vedere come funziona, perché, in una società complessa, le riforme non
funzionano subito bene. E’ come con i programmi per i computer: se ne
diffondono delle versioni beta, di
prova, per vedere come funzionano nel grande pubblico, su grande scale, per
capire come migliorarle. E in genere si rendono necessarie molte correzioni. In
questo lavoro gli utenti svolgono il ruolo di sperimentatori. I nostri capi politici dovrebbero prendere esempio dall’industria
informatica, che è una di quelle più avanzate, con il più altro contenuto di
tecnologia, che è una parte della cultura. Invece se si criticano le loro
riforme, facendo notare quello che andrebbe corretto, si adontano subito e
fanno il broncio. In Parlamento cercano di tagliare corto con le discussione:
ma è proprio discutendo che emergono i problemi, guardando le cose sotto più
punti di vista. Soprattutto se in Parlamento siede gente capace di farlo,
quindi di dibattere i problemi. Qualche volta in aula si vedono certe gazzarre
bambinesche, in mezzo alle quali non ci si capisce più nulla. Sono cose che
sono sempre accadute, per carità! Ci si è picchiati anche durante i più grandi
concili ecumenici, e tra sant’uomini… Ma se c’è prevalentemente questo, poi ne
viene pregiudicato il lavoro che ci si aspetta in un parlamento.
Il riformatore dovrebbe essere una persona di
cultura, che abbia una visione realistica della realtà e sia capace di dialogo.
Una riforma, infatti, ha tante più possibilità di funzionare quanto più è
condivisa. Il lavoro del politico è appunto questo innanzi tutto: di suscitare
il consenso sulle riforme che servono e di essere aperto a discuterle per
migliorarle e accrescere ancora di più il consenso.
E la
rivoluzione? Quando ero ragazzo, negli anni ’70, ai miei coetanei piaceva dirsi
rivoluzionari. C’è l’idea che rivoluzionare
sia cambiare tutto. Che bello, cambiare tutto! Peccato che il punto
della rivoluzione non sia questo. Non è detto che rivoluzionando si cambi tutto.
Ad esempio, nella rivoluzione attuata dal fascismo storico, tra il 1922 e il
1929, tanto è durato il processo rivoluzionario all’epoca, le classi dominanti
in economia, quelle che avevano sorretto il regime liberal-democratico, lo sono
rimaste anche dopo. Ed è per questo che appoggiarono il fascismo mussoliniano,
il quale effettivamente volle essere rivoluzionario anche a favore delle masse
dei più poveri, ma in questo fallì quasi completamente, limitandosi a
introdurre provvidenze sociali che, ad esempio, negli Stati Uniti d’America
furono introdotte durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt senza
necessità di fare una rivoluzione. Rivoluzionare
significa fare cambiamenti politici
senza rispettare le regole di un certo sistema istituzionale, forzarlo. La
sorte di riforme e rivoluzioni dipenderà poi dalla qualità della cultura che le
sorregge. Ci sono stati riformatori e rivoluzionari pasticcioni che appunto
hanno fatto riforme e rivoluzioni pasticciate. Non è quindi una cattiva idea
scegliere, alle elezioni, gente di cultura, se si pensa che occorra cambiare
qualcosa in società.
Siamo in un regime democratico. Fare una
rivoluzione in un regime così significa forzare i limiti che le istituzioni
democratiche prevedono a tutela dei valori della democrazia. Fare una
rivoluzione in regime democratico significa quindi passare ad un regime non
democratico. In merito l’insegnamento che la dottrina sociale ha maturato, dopo
una lunga storia e tante esperienze, è quello espresso da san Karol Wojtyla,
papa con il nome di Giovanni Paolo 2°, nell’enciclica Centesimus Annus - Il Centenario, del 1991, ad un secolo dalla
prima enciclica sociale:
46. La Chiesa apprezza il sistema della
democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte
politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e
controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò
risulti opportuno. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di
gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini
ideologici usurpano il potere dello Stato.
Per l’attuale dottrina sociale, pertanto, la
via non democratica è usurpazione di
potere. Ammette la rivoluzione solo per passare da regimi non democratici,
di usurpazione del potere e di negazione dei valori, a regimi democratici.
In democrazia, i
fautori del regime saranno quindi controrivoluzionari e conservatori nei riguardi
dei rivoluzionari. In democrazia non vi è altra strada, per chi ritiene la
democrazia un valore e tuttavia pensa che si debba cambiare la società, che la
via del riformismo, posto che il mondo va avanti ormai così velocemente che
quella della reazione è una strada impercorribile.
Mario Ardigò -
Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli