Dalla Pasqua del 2008
In questo Venerdì Santo del 2008, quando si
va a visitare i “sepolcri”, mi ricordo di quando, qualche giorno fa, si è
discusso della pillola dell’immortalità. Se la inventassero, il mondo non
sarebbe migliore né la vita più piacevole, è stato detto autorevolmente. Perché
ci sarebbero troppi vecchi. Sul momento mi sono detto d’accordo, poi mi sono
posto dei problemi.
Tra me e i vecchi c’è una certa competizione.
Loro hanno tante malattie, poi la vecchiaia stessa è una malattia, come
dicevano gli antichi; io però sono quasi sempre più malato di loro. Così in
certe circostanze, tendo a sgomitare. Ma loro pure. E’ fatale che io ci rimetta
sempre, perché chi potrebbe dire di no alla povera vecchina? Io invece appaio
ben restaurato. Però in qualche occasione mi è venuto da desiderare che ce ne
fossero di meno, di vecchi, almeno lì dove dobbiamo spartirci la pietà
pubblica. Eppure non sono lontano dalla terza età, così, in definitiva, vado
contro i miei interessi prossimi.
Probabilmente la fantascientifica pillola
dell’immortalità non si limiterebbe a mantenerci in vita, ma ci rigenererebbe.
La materia di cui siamo fatti ha i suoi limiti, tende a disfarsi e a
corrompersi, se tessuti nuovi non prendono il posto di quelli non più efficienti.
Sicuramente l’industria farmaceutica troverebbe il modo di mantenerci in forma,
mettendo in quel farmaco i necessari componenti aggiuntivi. Così magari non
avremmo neanche più l’aspetto da vecchi. Un po’ come certi personaggi pubblici
dello spettacolo o della politica, ma meglio; non solo non sembreremmo vecchi
finché regge il trucco, ma saremmo anche meno vecchi, nel profondo della nostra
struttura corporea. Ma anche così, a ragionarci bene, si capisce che non
funzionerebbe. Perché comunque il peso delle esperienze passate graverebbe
sulle cariatidi rinvigorite, che nel giro di pochi decenni diventerebbero la
maggioranza assoluta della popolazione e assumerebbero il controllo di tutto. E
naturalmente il principale loro interesse sarebbe la produzione della pillola
dell’immortalità, per perpetuare sé stesse. Attività che consentirebbe di
mantenere stabile il numero dei viventi, senza che costituisse un problema la
denatalità. Di modo che, alla fine, ci si ritroverebbe sempre tra le stesse
persone, le stesse facce, nei secoli dei secoli. Senza però più reale interesse
gli uni per gli altri, tutto quello che è implicato nella faccenda della
generazione e della cura della prole,
insomma quello che in modo riassuntivo comprendiamo nella parola “amore”. Un universo umano in raffreddamento, che
probabilmente ad un certo punto invocherebbe l’eutanasia. Richiesta che forse
sarebbe accolta dall’industria, con il risultato di porre in commercio anche la
pillola della mortalità.
Eppure è duro rassegnarsi al succedersi delle
generazioni, al fatto che ognuno di noi ha un inizio e quindi una fine. Finché
se ne parla in generale è un conto, ma quando la cosa ci riguarda personalmente
è diverso. Ma, in definitiva, la morte
non è un nemico? “L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte”, è scritto
nella prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto. E allora com’è che invece
non se ne può fare a meno, che il mondo morirebbe senza la morte? Che è come dire che l’ordine naturale che fa
bella la vita è quello stesso che ad un certo punto la distrugge, proprio per
consentire la prosecuzione della vita. Una necessità per così dire
“provvidenziale”, nel senso di volta al bene; per cui ad un certo punto dovremmo proprio chiamarla “sorella”,
questa nostra morte corporale. Non è cosa da poco. Sono state escogitate nei
secoli passati varie “prove” dell’esistenza di Dio, ma questa può essere
considerata da alcuni come una delle prove più convincenti dell’inesistenza del
Dio cristiano, del Dio che è amore.
Certo, c’è questa storia del “peccato”
originale. Una teologia che, se uno approfondisce un po’, fa acqua da tutte le
parti. E che contraddice l’idea di un Dio buono, anzi sommamente buono, che è
centrale nella nostra fede. Perché, insomma, come è stato osservato, qui si metterebbero
al mondo delle persone solo per punirle per colpe non loro, per una colpa
mitica, narrata con toni fiabeschi, con quel contorno di angeli con spade
fiammeggianti ecc.
Il Venerdì Santo è l’unico momento dell’anno
liturgico in cui mi pare che la teologia taccia. Di fronte al ricordo della
morte del fondatore. Di colui che era stato capace di riportare
provvisoriamente alla vita della gente, di risanare per un po’ un mucchio di
persone, un po’ come fanno oggi i medici, duemila anni dopo. E’ una cesura, un
taglio netto. La ragione deve arrendersi. Non si va più avanti. Eppure ci sono
stati altri duemila anni di storia cristiana! Con molti ulteriori ragionamenti
e persone che ci hanno speso e ci
spendono la vita. E’ solo questione di emozioni? Di quel fuoco nel cuore che ci
coglie quando, in certi momenti, sentiamo fare discorsi come quelli che ci sono
stati tramandati con cura? O di qualcos’altro, o meglio di qualcun altro
che ci accompagna nella nostra vita e
che ci fa ancora riconoscere e ripetere,
contro ogni evidenza, “E’ risorto, è veramente risorto”? Che questa Pasqua,
come tutte le altre della nostra vita, ci aiuti a scoprirlo. Buona Pasqua!
Mario
Ardigò (21-3-08)