Pensiero di
Pasqua del 2009
“Se tu m’accogli, o Padre
Buono,/prima che giunga sera/se tu mi doni il tuo perdono/avrò la pace vera”,
cantano, sulla musica di Bach, le suore della Divina Rivelazione del convento
dove soggiorna ora mia madre.
Spesso mi trovo a dover spiegare perché sono
cristiano a persone incuriosite da qualche mio atteggiamento o da qualche mia
opinione. Esse di solito hanno della fede l’immagine che ne viene data da
giornali e televisioni, quindi legata a vari eventi polemici dell’attualità.
La mia posizione di “persuaso” cristiano,
secondo la terminologia di Aldo Capitini, preferisco questo termine a quello di
“credente” che implica certezze che non ho, non è certamente quella di chi si
trova già ora nel posto dove spera di essere. In questo senso, non ho nulla da
difendere di come sono ora e di quello di cui ora faccio parte. Confido anzi
che tutto ciò sia superato. Lo spero ardentemente. Ma su che cosa si fonda la
mia speranza?
La mia condizione di cinquantenne dal fisico
abbastanza percosso mi limita in molte occasioni di peccato. Le emozioni sono
meno violente, anche per ragioni specificamente ormonali, la sofferenza ha
indotto una certa saggezza nei rapporti con i miei simili, le ambizioni sono
ridimensionate e, con esse, anche le occasioni di invidia e di maldicenza,
l’aspetto fisico delle relazioni umane conta molto meno, mancano le forze per
una vita veramente disordinata; si è meno portati all’azione irriflessiva.
Rimangono molte occasioni di superbia. Mia madre, ad esempio, non si capacita
che io a volte possa dirmi in dissenso con alcune cose che
dice il Papa o che insegnano i vescovi.
Fatto sta che me ne sono accusato in confessione, pensando addirittura di
essere preso in giro o rimproverato per uno scrupolo infondato. Invece la cosa
è stata presa molto sul serio. Il sacerdote mi ha detto di tenere gli occhi sul
grande crocifisso che sta nel confessionale, fino a che non mi avesse detto di
smettere. E’ durata molto a lungo, nella disperazione delle signore che
aspettavano fuori il loro turno. Anche per me è stata un’esperienza molto
forte. Poi mi è stata data l’assoluzione con prescrizione, come penitenza, di
pensarci molto su. E’ quello che faccio anche ora.
Diciamo che posso descrivere la mia
situazione di “persuaso” cristiano come
quella di un crocifisso che chiede ad uno crocifisso vicino a lui, poco
tempo prima della fine, “ricordati di me quando sarai nel tuo regno”. Poi
entrambi si muore, secondo le aspettative di tutti.
Si è discusso molto, negli anni scorsi,
dell’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici. Me ne sono occupato
anche professionalmente non molto tempo fa. Si sostiene che i crocifissi vadano
tolti perché sono simboli specificamente religiosi, cristiani, non rimandano
solo a ideali oggi comuni. Io credo che sia questa la verità. Se poi li si
debba togliere, dipende dal grado di tolleranza delle istituzioni civili. Io
certamente sono uno che i crocefissi li appende, non uno che li toglie. Ce n’è
sempre uno a portata di vista, dove vivo o lavoro. I crocefissi certamente sono
l’espressione di convinzioni paradossali, che possono non essere condivise da
tutti, specialmente ora che ci stiamo mescolando a persone che vengono da
lontano. Ma non è solo questo: oggi si è più portati ad accettare il tremendo
presente, si è più realisti di un tempo, non sappiamo quindi cogliere in quella
cruenta rappresentazione di un supplizio atroce l’anelito che storicamente vi
era collegato.
“Se tu mi accogli…”, “ricordati di me, quando
sarai nel tuo regno”: l’invocazione è la medesima. Essa scaturisce
dall’interiorità, non appena si prende cognizione di tutta la dura realtà e ci
si scopre quindi crocefissi.
La contemplazione del crocifisso, da vicino e
a lungo, è un’esperienza durissima.
Perché, dopo un po’, diventa contemplazione di sé medesimi, crocifissi.
Tu che volevi salvare gli altri, che ti eri fatto maestro degli altri, non puoi
salvare te medesimo, alla fine. Chi è crocifisso si trova anche in una
condizione in cui gli altri non sono veramente interessati a sapere che cosa tu
ne pensi. Diciamo che tutta la tua cultura, tutte le tue belle e articolate
convinzioni, contano poco per loro. Ti si chiede solo di lasciarti fare,
secondo quello che altri hanno deciso, secondo quello che di carne e sangue sei.
Insomma, sei ricondotto a quello che di vita animale c’è in te, sei solo quella
vita visibile che ci si attende finisca in poco tempo, come programmato,
secondo le attese. L’evento, nella sua naturalità, banalità e prevedibilità, in
quanto ripetutosi infinite volte per altri tuoi simili, è assolutamente
credibile. Il resto conta poco o nulla. E’ come quando, nelle procedure di
morte assistita, si interloquisce benevolmente con colui che ha deciso di darsi
la morte, e allora si prende atto con distacco delle sue opinioni, senza stare
tanto a contraddirlo, che pensi quello che vuole il poveraccio!, ma poi ciò che
interessa veramente è la sua fine che deve sopraggiungere e alla quale si vuole
assistere, da viventi. Chi contempla da crocifisso capisce presto che gli serve a poco in quella
condizione l’essere superbo, tirar fuori tutte le proprie forti enunciazioni di
principi, farsene vanto con gli altri, quando è lì lì per finire anche lui
stesso e agli altri non importa nulla di ciò che può dire. E tuttavia è proprio
dalla croce che, deposto ciò che è vano e che quindi non serve, contemplando il
Crocifisso, si riacquista la capacità di sperare, vale a dire che, partendo da una condizione disperata ma
credibile, realistica ma infausta, si scopre di poter ancora dare ragione della
speranza che è rimasta in noi, non
soffocata dal tremendo presente.
Qui entra in considerazione un mondo di
relazioni specificamente umane, alle quali sentiamo di non poter essere
veramente sottratti. Per cui, in definitiva, mentre siamo sempre sorpresi dalla
morte imminente, non siamo sorpresi nell’apprendere che uno di noi “è risorto,
è veramente risorto”. E’ ciò che ho avvertito quando, superata l’età ingenua
dell’infanzia, mi sono dovuto confrontare per la prima volta con la morte di
una persona cara, con sufficiente consapevolezza e compartecipazione per questi
problemi.
Tutto potrebbe rimanere però manifestazione
della soggettività personale, se non avessimo incontrato, nella nostra vita, la
Parola santa che ci è stata tramandata e testimoniata. A volte essa ci irraggia
con la forza di un lampo, altre volte richiede di essere molto contemplata, in
un atteggiamento di vigile attesa. Essa tuttavia non ci è mai estranea, come
alla fine diventano sempre le dottrine puramente umane. Appare quindi dotata di
una forza propria, che consiste nella capacità di suscitare specifiche
relazioni e quella richiesta: “ricordati di me!”. Le liturgie pasquali ci guidano in questo,
con sapienza. Insieme iniziamo a contemplare l’abisso che ancora ci sta dinanzi
e d’intorno e insieme ci ricostruiamo dentro e sopra relazioni, ripetendoci la
Parola ricevuta. Partendo dalla convinzione che quel vento molto forte che ci
dicono spirasse quando tutto iniziò non fosse semplice aria in movimento, ma
appunto l’inizio di una relazione, la manifestazione di una presenza che poi ci
si rivelò amica. E continuando nella convinzione di poter ricapitolare tutto
quello che è successo secondo il senso dato da quella relazione. Non è cosa che
ci riuscirebbe di fare da soli. Da soli infatti possiamo solo credere nella
sicura nostra morte personale, e che, quindi, come iniziammo, anche finiremo.
Lo spettacolo della sofferenza e della morte a
volte genera protesta, a volte compiacimento. Solo la sua contemplazione da una
croce genera la speranza. Per questo, credo, tra i cattolici si dà tanta
importanza alla riflessione su questo simbolo di un supplizio atroce. Ma il
Venerdì Santo è il giorno più difficile per parlare di speranza. Infatti tutto
si è compiuto. Rimane la cruda e credibile realtà del sepolcro. Ormai il
sofferente non è più tale, tra noi vi è sono solo la sua carne e le sue ossa.
Esso ci testimonia della fine comune. A chi affidiamo le nostre vite? A chi
chiediamo di ricordarsi di noi “dopo”? La vita è un accidente, poi torniamo ad
essere cose: non c’è consolazione in questo. Rammento i molti morti che ho
dovuto incontrare nella mia professione: se ci ripenso essi mi sono tutti
presenti, perché erano persone morte con molta sofferenza e mi hanno quindi lasciato una fortissima impronta emotiva, i
molti impiccati, quelli straziati dai treni, i suicidi con il veleno o
buttatisi da una finestra, gli uccisi con armi da fuoco o all’arma bianca, i
distrutti e bruciati negli incidenti
stradali, quello che il mare ci restituì tutto mangiato dai pesci, il
motociclista tranciato dal guard rail... Li rivedo, ma il loro ricordo non mi
dà nessuna speranza. L’unico ricordo sul quale posso costruire è quello
del vecchio che spirò dopo un’atroce
sofferenza, in cui ogni respiro era dolore, e che vegliai a lungo, pregando con i salmi,
durante il mio primo ricovero in ospedale: allora eravamo entrambi crocifissi. La Parola che mi
era stata insegnata e che in
quell’occasione osai ripetere, in un’azione direi sacerdotale, impregnò di sé
quell’evento, terribile, ma banale, naturale e prevedibile, e mi ha
effettivamente cambiato, mi ha rafforzato nella mia “persuasione” cristiana. Ho
capito allora quello che intendeva dire Vittorio Bachelet quando scrisse che
non dobbiamo chiedere di scendere dalla croce ma di salirci su insieme a colui
che è il fondamento della nostra fede. Nell’attesa che torni a visitarci
dall’alto, come un sole che sorge, dopo questa notte disperata. Venga quindi
anche per noi la Pasqua!
Mario
Ardigò