Costruzione sociale ed
evangelizzazione
La dottrina sociale spiega che una persona
religiosa non si può limitare a mantenere una propria spiritualità, a
partecipare a liturgie e occuparsi di ciò che le rende possibili, ad esempio
costruendo chiese e curandone la manutenzione. Ci sono altri doveri sociali. E
non solo quelli relativi all’evangelizzazione. Bisogna anche contribuire a
costruire la società e ad orientarla per il vero bene di tutti. È per questo
che la dottrina sociale è, appunto, dottrina religiosa, vale a dire un insegnamento che riguarda i fondamenti della
fede.
Questo compito è diverso
dall’evangelizzazione, anche se ad essa è legato. Infatti l’esito
dell’evangelizzazione è influenzato
anche dal tipo di società in cui la si pratica. Questo perché le persone umane
sono esseri sociali e la cultura in cui vivono ne determina concezioni e
comportamenti.
Nell’evangelizzazione si cerca
di trasmettere e diffondere il vangelo, vale a dire la notizia che in Gesù, il Cristo, il Figlio
di Dio, e per mezzo di lui siamo liberati dalla schiavitù del peccato e della
morte, perché Dio è amore e il suo amore è più forte del nostro peccato: questa
è la Parola della fede. La Parola, che deve essere compresa e quindi
spiegata, incontra la fede nelle persone
e le conduce a Cristo. Noi crediamo che la persona sia capace della fede in
Cristo perché creata così e quindi anche capace di ascoltare la Parola. Il
problema dell’evangelizzazione e degli evangelizzatori è di farla giungere fino
alla persona che l’ascolti. Quindi di realizzare una mediazione culturale della
Parola per renderla comprensibile e intelligibile dal suo uditore. Questo
richiede di tener conto della società in cui egli è immerso, ad esempio della
sua lingua, ma anche di come la sua cultura gli spiega il mondo.
Nella costruzione sociale invece
si cerca di organizzare le società in modo che le persone non vi trovino
ostacoli nell’udire la Parola e, se possibile storicamente, che quelle società
siano anche pervase dai principi comunitari
solidaristici e misericordiosi, di rispetto della dignità delle persone
e della concezione dell’autorità pubblica come servizio che discendono dal
vangelo, in quanto insegnati da Gesù. In un certo senso, quindi, non solo le
persone, ma anche le società vengono in questo modo evangelizzate, ma
l’evangelizzazione della persona ha un senso diverso da quello della società,
perché solo alla persona può essere chiesto di credere, per l’importanza
che nell’atto di fede ha la coscienza. «Il cristianesimo esiste realmente
solo là dove esistono una decisione di fede, una speranza e un amore personali»
[Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di
cristianesimo, 1976].
Evangelizzazione e costruzione
sociale richiedono competenze diverse, anche quando si costruisce la società in
vista dell’evangelizzazione. Servono quindi anche diverse attività di
formazione e diversi tirocini. Ma, in quanto la costruzione sociale rientra nei
doveri del cristiano, anch’essa dovrebbe rientrare nella formazione del fedele
che si fa nelle comunità cristiane, fin dalla prima formazione, quella per i
sacramenti di iniziazione. Invece, di solito, si pensa che non sia conveniente
farla in quell’ambito e la si demanda, ad esempio, alla scuola, dove però la si
fa poco e con altri scopi. C’è un modo di costruire società da cristiani che
non è quello che si insegna in genere nelle scuole, e in particolare nelle
scuole di stato, tenute alla laicità.
Ma che significa costruire
società? Significa fare politica.
La politica viene di solito
confusa con l’azione di partito o di fazione, ma in questo modo la si sminuisce
e immiserisce, perché la si àncora ad uno spirito di parte e alla cura di
interessi particolari.
Invece la società è necessaria
alla sopravvivenza degli umani e dunque è, in sé, un bene comune, che va oltre
gli interessi particolari che inevitabilmente la pervadono. Di questo ci si
rese conto molto chiaramente fin dalle origini, quando le comunità di fede dei
seguaci di Cristo, nel Primo secolo, cominciarono ad organizzarsi dopo la morte e
resurrezione del Maestro e cominciarono ad avere un rilievo sociale come tali,
incontrando anche difficoltà. Ne è espressione questo brano tratto dal capitolo
13 della lettera di Paolo di Tarso ai Romani, versetti da 1 a 7, che nella storia bimillenaria della nostra
Chiesa ha avuto varie e anche divergenti interpretazioni ma che sicuramente
indica che l’organizzazione della società
non è indifferente per il fedele:
[1]Ognuno sia sottomesso a
chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio, e
quelle che esistono sono stabilite da Dio.[2] Perciò,
chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio, e attirerà su
di sé un castigo. [3]Infatti chi agisce bene non ha paura di chi comanda;
chi invece agisce male ha paura. Vuoi non aver paura delle autorità? Fa’ il
bene, e le autorità ti loderanno [4] perché
sono al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere
perché le autorità hanno realmente il potere di punire: esse sono al servizio
di Dio per manifestare la sua collera verso chi fa il male. [5] Ecco perché bisogna stare sottomessi alle
autorità: non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di
coscienza. [6] È la
stessa ragione per cui pagate loro le tasse: difatti, mentre assolvono il loro
incarico sono al servizio di Dio. [7] Date a
ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto: a
ciascuno quel che gli dovete dare.
Il riconoscimento
dell’importanza anche religiosa della politica risale al Magistero del papa Pio
11° il quale così si espresse il 18 dicembre 1927 parlando agli universitari
della Federazione Universitaria Cattolica Italiana:
I giovani talora si chiedono se,
cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco che, dedicando
il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se stessi le basi
della buona, della vera, della grande politica, quella che è diretta al bene
sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel
pubblico bene, che è la suprema lex a cui devono esser rivolte le
attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e compieranno uno dei più
grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel
quale si può lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il
campo della politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che
sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica,
a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere
superiore. È con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono
considerare la politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i
gradi di tal rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la
politica di un partito, il quale per natura sua attende a particolari
interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue
vedute particolari. Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani
universitari che devono consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale
la loro futura attività non può essere né illuminata, né benefica. Come nel
loro presente periodo essi attendono allo studio delle future professioni e non
le esercitano, così anche per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono
ora attenersi al loro programma di preparazione, perché, quando prenderanno il
loro posto nella società, possano poi dare a questa anche il contributo della
buona, cristiana politica.
Questa fu storicamente la prima
volta che la politica fu indicata come forma di carità. Vi è anche, in
questo discorso, una chiara distinzione tra attività di evangelizzazione e
attività politica per quanto svolte entrambe con spirito religioso.
Nell’attività di
evangelizzazione le resistenze che gli evangelizzatori incontrano sono ostacoli
e il problema è, allora, quello di come superarli. Sono ostacoli perché
contrastano la tradizione e diffusione della Parola e, in questo, sono
chiaramente riconoscibili come tali, sono elementi in sé cattivi, anche se
possono non dipendere da una volontà soggettivamente cattiva, ad esempio se
sono legati ad un contesto culturale che determina le persone sovrastandole. Si
tratterà allora di individuare la mediazione culturale più efficace.
Nella costruzione delle
società, e nel loro governo, le attività in cui consiste la politica, spesso le
opzioni tra cui bisogna scegliere non sono riconoscibili come cattive in sé, ma
rispondono ad orientamenti e concezioni che spingono verso certi obiettivi
invece che verso altri, ma pur sempre in un’ottica di bene comune, senza
contrastare con esigenze evangeliche. Per il cristiano anche quelle scelte
devono comunque essere messe in relazione con le esigenze evangeliche, ma il
più delle volte da quel punto di vista esse si equivalgono e si tratta di
scegliere la migliore sotto altri aspetti, anche in relazione alle possibilità
storiche di attuazione . Naturalmente può accadere che invece contrastino con i
principi evangelici, come accadde ai tempi in cui nel Regno d’Italia, nel 1938,
fu deciso di limitare i diritti civili delle persone di religione ebraica. Una
decisione simile, ora ne siamo in genere convinti, contrastava nettamente con
il vangelo, anche tenendo conto che Gesù e tutti i primi suoi seguaci erano
ebrei, ma a quell’epoca la maggioranza dei cattolici non ci vide motivi di
insorgere e anche la reazione dell’autorità ecclesiastica, che da parte del
Papato di allora vi fu, non fu certo nel senso di pretendere dai cattolici
italiani di ritirarsi dalla collaborazione con lo stato fino a quando non si
fosse receduto da quella decisione, come invece si era fatto e a lungo quando si
era trattato di reagire alla soppressione dello Stato Pontificio, nel 1870 (la
cosiddetta Questione romana). Ecco quindi che la stessa storia del
Papato ci insegna che anche in un caso come quello la via non è nettamente
segnata dal vangelo, non discende immediatamente da esso, ma ci vuole qualcosa
di più, una capacità specificamente politica, per decidere, date certe condizioni
storiche, qual è la via migliore per raggiungere un risultato accettabile, in
un certo momento.
Nell’evangelizzazione, dal
punto di vista degli evangelizzatori, si tratta di assimilare le persone
nella fede (non in una certa società storica o in una certa cultura, ma
nell’affidamento in Cristo), perché si decidano per Cristo, mentre nella costruzione sociale, vale a dire nella politica, si tratta di collaborare con le altre persone, perché la costruzione
sociale è un lavoro collettivo o non riesce, e non si ha di mira la loro
interiorità, che anzi deve essere sempre preservata, ma certe decisioni
concrete sul che fare e come farlo, in vista di uno specifico risultato
sociale. Nella costruzione sociale non è questione di fede, ma di consenso.
Il consenso può naturalmente
essere anche estorto, come quando lo si ottiene sotto minaccia o addirittura
con la violenza. La violenza politica è sempre stata e ancora è piuttosto usata
come strumento per ottenere il consenso sociale. Ma nella civiltà occidentale
contemporanea il consenso può essere coartato anche con tecniche di psicologia sociale,
manipolando l’opinione pubblica mediante le tecnologie di comunicazione di
massa. Un consenso anche se estorto, con
la violenza o l’inganno, rimane pur sempre
consenso e alla politica, anche a quella autocratica e dittatoriale, serve
sempre il consenso, perché, anche se dominata da un solo capo o da una
oligarchia la politica, finché nel mondo non acquisteranno influenza maggiore
gli automi retti da intelligenze artificiali e si potrà fare a meno della gente
(un’epoca ormai prossima), per essere efficace deve riuscire ad avere il
consenso delle masse. Ma l’estorsione
del consenso è una pratica contro la dignità delle persone e quindi contro il
vangelo. L’unico modo lecito, dal punto di vista evangelico, di ottenere in
politica consenso e collaborazione dalle
altre persone è quello di argomentare, di spiegare, per convincere gli altri ad
aderire a un orientamento liberamente, vale a dire persuadendo le altre persone. La persona persuasa dà il
proprio consenso e la propria collaborazione liberamente, convinta dalla bontà
degli argomenti che le vengono proposti
e anche dalla fiducia che in lei suscita chi glieli propone. Questa è la via
della buona politica che è
indicata nell’enciclica Fratelli tutti, in particolare nei numeri da 197
a 218 sui quali ieri ci siamo confrontati nell’incontro di Azione Cattolica in
Google Meet. La politica che, per il metodo usato per avere consenso e per il
suo fine, il vero bene comune e non gli interessi egoistici di gruppi, ceti,
classi a danno di altri, è ciò che Papa Francesco definisce Politica con la “P” maiuscola.
Naturalmente il consenso di chi
è stato persuaso rimane revocabile, perché è stato liberamente dato e, dunque,
può essere altrettanto liberamente tolto. Questo comporta che il lavoro
argomentativo non debba finire dopo aver ottenuto il primo consenso, ma debba
continuare per mantenerlo. Sotto questo aspetto quell’accordo consensuale di
natura politica si distingue dal contratto che tra privati si stipula per
regolare certe relazioni economiche che si sviluppano nel tempo. Se una società
è libera, e le società libere sono quelle in cui anche il vangelo può meglio
diffondersi, il consenso politico deve poter essere sempre revocato, anche se
poi le scadenze elettorali sono stabilite dopo un certo numero di anni, così
come la durata delle cariche pubbliche.
Una cosa è esporre il vangelo,
altra è intendersi con gli altri su come organizzare la società. Ma per il
fedele l’una e l’altra attività sono collegate, perché vi sono principi
evangelici anche per organizzare la società, anche se dal vangelo non si può trarre
uno specifico programma politico, che va definito tenendo conto delle
condizioni storiche date, dei problemi che si vuole risolvere e anche della concreta possibilità di avere un
consenso sufficiente.
La capacità di argomentare
politicamente non è innata, si impara. Innata è invece sicuramente la violenza,
la brutalità, che costituisce il livello infimo di organizzazione politica,
espressione della nostra socialità di antiche belve. Ma se l’argomentare
politico è tanto importante anche per la fede, perché mai non dovrebbe entrare
nella formazione che si fa in chiesa? E, infatti, l’Azione cattolica, insieme a
poche altre entità ecclesiali, vi provvede. Ma sarebbe utile programmare questa
attività di formazione come di routine in tutti i programmi pastorali, anche a
livello delle parrocchie. E, purtroppo, non accade spesso. Anche da ciò, credo,
è derivata l’attuale irrilevanza politica dei cattolici, nonostante che, nei
tempi difficili, proprio ai cattolici si pensi ancora per certi posti chiave,
in ragione di quella particolare formazione alla politica che ancora si fa, ma
prevalentemente tra i cosiddetti rami intellettuali.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte
Sacro Valli.