È possibile fare
comunità in parrocchia?
1. È possibile fare comunità in
parrocchia o addirittura fare della parrocchia una comunità? In base all’esperienza della nostra
parrocchia, bisogna concludere che nel primo caso la risposta è affermativa, mentre
nel secondo può essere affermativa o negativa a seconda del tipo di modello
comunitario prescelto ma anche delle istituzioni di partecipazione comunitaria
che si affiancano all’istituzione canonica della parrocchia.
Dal 1983 al 2015 la nostra parrocchia è stata
la sede di un tentativo di riforma in senso comunitario. Si è avuto successo
nell’insediare comunità molto coese nella parrocchia, ma non in quello di fare
della parrocchia una comunità. In più, poiché le neo-comunità erano fatte di
molte persone non residenti nel quartiere, quest’ultimo è apparso
disaffezionarsi alla parrocchia.
Il metodo seguito per costituire le neo-comunità
è stato determinante nel produrre quel risultato. Infatti, secondo una
strategia studiata a fondo fin dalla sociologia degli anni ’60, la coesione si
è ottenuta immergendo totalmente le persone nel nuovo comunitario in modo da
produrre una ristrutturazione della loro identità, nell’intento di ottenere una
specie di risocializzazione primaria (la socializzazione primaria è quella che
il bambino acquisisce nelle relazioni con i genitori ed è molto resistente
perché carica di affettività e totalizzante: per un bimbo il mondo che i
genitori gli presentano è l’unico che c’è). Ciò comporta il distacco da tutto
ciò che non è coerente con la neo-ideologia comunitaria e da tutte le altre
persone che non la praticano. Questo ha creato tensioni, che si sono rivelate
incomponibili, con le altre realtà comunitarie della parrocchia. Non è stata
vissuta serenamente, da parte di chi credeva nell’orientamento neo-comunitario,
l’ostinazione degli altri gruppi nel voler continuare ad essere diversi da come
le nuove idee volevano che si fosse e nel manifestarsi insofferenti delle proposte che giungevano
loro nel nuovo corso. Ai ragazzi, dopo la formazione di base veniva proposta
sostanzialmente un’unica spiritualità e un unico modello di impegno neo-comunitario.
L’Azione cattolica, molto fiorente negli anni ’70, fu progressivamente considerata
come non più adatta ai tempi nuovi e la si pensò sostanzialmente come ambiente
per gli adulti che vi si erano già acculturati, ad esaurimento.
Dall’ottobre
2015 ci fu un cambio di rotta, ma la tensione è rimasta, anche se un
certo pluralismo è stato ripristinato. Rimangono le cause dell’insuccesso
dell’esperimento neocomunitario a livello di parrocchia, vale a dire la
compresenza di comunità che fanno vita separata, trovando solo un modo di
convivenza per così dire condominiale. Ciascuna pensa di rischiare la
dispersione aprendosi. Nel frattempo il quartiere si mostra meno acculturato
alla vita parrocchiale, della quale non manifesta un bisogno costante, ma solo
per la prima formazione etica dei più giovani e per le grandi celebrazioni dei
fatti della vita e per le feste maggiori.
Della religione si ha talvolta una idea
approssimativa e si teme di doversi sottoporre a prediche bigotte, in
particolare sui problemi sessuali, accostandovisi. Non si è mantenuta
consapevolezza del senso delle liturgie e della simbologia religiosa. Per
molti, il catechismo fatto nell’infanzia è praticamente l’unica fonte di
memoria dei fatti religiosi ed è ormai molto lontano nel tempo. Il Papa e i
prodigi miracolosi sono l’immagine più comune che si ha della religione. Tutto
questo dipende anche dalla superficialità con cui la mentalità consumista spinge
ad affrontare la vita, che comunque fondamentalmente rimane quella di sempre, con
dentro i fatti dolorosi e soprattutto sottomessa al trascorrere del tempo,
eventi di fronte ai quali la persona non religiosa è spesso impreparata.
Le carenze maggiori della nostra come di
altre parrocchie è la mancanza di un nutrito gruppo di laici adulti che sia veramente
coinvolto nella sua gestione, non solo in ruoli ausiliari, e di un gruppo di
giovani adulti che possa occuparsi
dell’animazione degli adolescenti nell’interesse della parrocchia, perché poi
siano pronti, crescendo, ad assumervi responsabilità, senza indirizzarli verso
metodi o spiritualità propri di associazioni o movimenti particolari.
Nessun gruppo dovrebbe cercare di assimilare
a sé la parrocchia e tutti i gruppi dovrebbero lasciare i propri aderenti
liberi di collaborare alle iniziative e istituzioni parrocchiali insieme ad
altre persone di orientamenti diversi, senza temere di esserne come
contaminati. Infine i gruppi parrocchiali dovrebbero evitare di richiamare
persone da altri quartieri: l’adesione di non residenti dovrebbe essere sottoposta
ad una approvazione, con il criterio che i gruppi parrocchiali non dovrebbero
esser composti in prevalenza da non residenti.
In passato, nel vecchio corso, sentivo
ripetere la frase “La parrocchia è di chi ci va”, intendendo così che vi
ci si potevano insediare da tutta Roma, per affiliarsi a quella certa
esperienza neo-comunitaria di cui dicevo,
ma io non ero tanto d’accordo. Innanzi tutto perché esprimeva una
concezione proprietaria della parrocchia, che, in quanto istituzione e comunità
non può essere posseduta da nessuno, e poi perché sottovalutava il fatto che la
parrocchia è un ente territoriale, istituito per la popolazione delle Valli. A
volte maneggiare l’Antico Testamento con troppa disinvoltura gioca brutti
scherzi e capita, ad esempio, di immaginarsi come un popolo chiamato a
soppiantare un altro popolo, pagano, dalle nostre parti,
abbattendo idoli ecc. ecc. Invece sì è tutti popolo di Dio e
quindi non c’è nessuno da soppiantare. Certo, non si vuole negare ospitalità religiosa, ma, quando
si tratta di partecipare alle decisioni sulla vita della parrocchia, i
parrocchiani devono prevalere, altrimenti la parrocchia viene percepita come
abitata da colonizzatori e la gente se ne disamora.
Con queste premesse si può poi pensare anche a
riprendere la costruzione sociale in senso comunitario della parrocchia.
2. La costruzione sociale
non riguarda solo lo stato e le altre istituzioni comunitarie maggiori, come il
comune, ma ogni ambito sociale a cui si voglia dare continuità e finalità più
impegnative. Dunque può farsi anche per programmare la vita di una parrocchia.
Ai tempi nostri concepiamo la parrocchia come
istituzione e comunità. In passato se ne parlava come di una istituzione con un
suo “popolo” e quest’ultimo consisteva nella popolazione soggetta
all’istituzione. A sua volta la popolazione era individuata da confini
territoriali. Per questo la parrocchia era ed è ancora un’ente territoriale, in
quel senso.
Quando parliamo di comunità intendiamo un popolo che abbia una certa possibilità di partecipare
alle decisioni che lo riguardano. La possibilità di partecipare dipende da come
è organizzata la comunità, vale a dire dal suo aspetto istituzionale, che c’è
sempre, anche se minimo.
La parrocchia ci giunse negli anni Sessanta
del secolo scorso come ente istituzionale senza possibilità di vera
partecipazione, sottoposta al governo monarchico del parroco aiutato dai preti
suoi collaboratori. Progressivamente vi furono introdotte forme di
collaborazione, solo consultiva, per i fedeli laici. A parte il Consiglio per gli affari
economici non sono però elementi necessari nell’istituzione. Questo è un
grave problema per l’integrazione tra istituzione e parrocchia, perché senza
partecipazione non c’è comunità e
l’assetto istituzionale la ostacola. Non si è comunità se si mette in comune
solo la soggezione ad un’autorità. Da ciò però deriva una certa debolezza dell’istituzione,
che, non sorretta veramente da una comunità, è tentata dal trasformarsi in una
organizzazione di servizio pubblico, in una specie di ASL dello spirito, con un
pubblico di utenti che la frequentano al bisogno, quando è nella misura in cui ne avvertono la necessità
e dunque è indifferente chi ci va.
In questa situazione la vita comunitaria, che
inevitabilmente si anima quando le persone si frequentano, finisce per
organizzarsi a margine delle istituzioni parrocchiali, in associazioni,
movimenti, confraternite, anche articolazioni locali di movimenti maggiori, che
vivono le loro occasioni di incontro ciascuno per conto proprio e si incontrano
con gli altri gruppi solo in persona dei capi e, allora, con spirito condominiale.
Il parroco diventa quindi una specie di amministratore di condominio e si cerca
di accattivarsene il favore per avere spazi maggiori. In senso fisico, di
disponibilità di locali e attrezzature, o ideologico, per cercare di connotare
la parrocchia secondo la propria particolare impostazione comunitaria o
spirituale,
Come ho osservato, i problemi della nostra Azione
Cattolica sono derivati dall’essere stata a lungo sfavorita, nell’era passata, da
questo modo di trattare le questioni comunitarie.
I più anziani ne hanno risentito meno, perché
formati a dare prevalente importanza alla liturgia.
Chi si è formato a partire dagli anni
Sessanta, invece, non si accontenta di questo, perché gli è stata insegnata
l’importanza dell’elemento comunitario e, dunque, se vede che la vita
ecclesiale parrocchiale si limita a liturgia e a una monocultura comunitaria
che richiede di isolarsi dal contesto sociale, disprezzato come pagano,
va altrove o non va proprio.
Per i più giovani, per ciò che posso capire, è
diverso: per loro la religione che si fa in parrocchia in quel modo è inutile
per inserirsi in società, il loro principale problema. La religione in quel
modo è una consolazione di cui, forse, sentiranno la necessità più avanti negli
anni, in particolare di fronte ai rovesci della vita e alla vecchiaia.
3. Dall’ottobre 2015 si è
cercato di correggere quell’impostazione.
Innanzi tutto si è ripristinato un certo
pluralismo e, nella formazione di base, di è cercato di riferirsi maggiormente
agli indirizzi catechistici della Diocesi e nazionali. Ma ancora la via è lunga
e da un anno ci si è messa di mezzo pure la pandemia da Covid 19.
Nell’affidarci al nuovo parroco, il vescovo
fu chiaro: nove anni, avremmo dovuto cambiare in nove anni, poi ce l’avrebbe tolto affidandogli un’altra missione, e ne sono già passati cinque.
De resto è un processo che non è favorito dalle tendenze generali della società
italiana, che negli ultimi anni ha visto affermarsi l’ideologia del “Prima
io!”, del corporativismo sociale egoistico che è insofferente delle
esigenze comunitarie. Ognuno è spinto a fare comunità con chi gli pare e prevalentemente
nel proprio interesse o in quello dei propri soci.
Occorrerebbe costituire un’articolazione
laicale che funga da gruppo di spinta per iniziative comunitarie, i cui membri
siano liberati dall’influenza dei capi dei rispettivi movimenti, che non
dovrebbero farne parte.
Si potrebbe iniziare dal Consiglio pastorale,
di cui si sa poco.
Chi vuole farne parte o continuare a farne
parte dovrebbe impegnarsi a seguire un percorso formativo sul senso comunitario
della Chiesa e sui problemi organizzativi che si presentano nella crescita
comunitaria, che dovrebbe farsi in parrocchia con continuità e con la
partecipazione di esperti della Diocesi o, ad esempio, di esperti del
Dipartimento Scienze dell’educazione della vicina Università salesiana.
Una scuola di politica, come quelle che
in ambienti cattolici fiorirono negli anni Ottanta, potrebbe consentire di
acculturarsi ai processi partecipativi e democratici. Ciò sia per preparare
all’assunzione di responsabilità nella vita parrocchiale sia alla
partecipazione alla società civile nel senso indicato dalla dottrina sociale.
Il Consiglio pastorale dovrebbe darsi norme
più precise per organizzare una reale partecipazione dei laici alle decisioni
sulla vita parrocchiale e regole per l’elezione di propri membri da parte
dell’assemblea parrocchiale, fermo restando che i candidati dovrebbero aver
seguito il percorso formativo a cui ho sopra accennato.
Mediante l’inserimento di membri eletti
bisognerebbe cercare di liberare le attività del Consiglio pastorale
dall’impostazione condominiale di cui dicevo. Nelle elezioni per il Consiglio
parrocchiale dovrebbero potersi candidare solo persone residenti nella
parrocchia, per evitare l’effetto colonizzazione, e dare diritto di voto
ai cresimati residenti dai quattordici anni in su. Stando alle attuali norme il
parroco può nominare altri membri a sua discrezione, ma sarebbe bene stabilire
un numero massimo di membri.
Le attività e decisioni della parrocchia
dovrebbero poter essere conosciute dai parrocchiani. Senza di questo non è possibile
partecipazione. Se nessuno ti dice nulla di ciò che si decide e si fa,
significa che non conti nulla: se ci si convince che è così, non si partecipa.
Il processo comunitario di una parrocchia trova
limiti nella natura dell’istituzione e nell’ordinamento ecclesiale: la comunità
che si riesca a suscitare non potrebbe mai avere il potere di sovvertirlo. Ma
c’è comunque molto spazio per innovare, sempre che si sia convinti che occorra
farlo. In ogni cosa bisognerebbe favorire la partecipazione collaborativa rimuovendo
gli ostacoli che derivano da un certo dispotismo comunitario, per il quale le
persone sono spinte a darsi totalmente a una certa comunità senza che
rimanga tempo per altro.
Chi ha fatto vita parrocchiale sa che un
ostacolo deriva dal fatto che in religione, a parte un nucleo condiviso
definito dal Credo, si professano le credenze collaterali più strane e anche
francamente bizzarre. Se uno, per dire, immagina di essere su Marte, può non
essere facile riportarlo sulla Terra. O se pensa di rivivere l’epopea degli
antichi Isrseliti nella conquista di Canaan E la nostra sofisticata teologia
non aiuta, perché quando finisce in mani non esperte crea seri problemi. Ecco
quindi che facilmente ci si immagina come gli antichi bellicosi patriarchi
delle chiese delle origini e si distribuiscono a destra e a manca anatemi, scomuniche
ed epiteti di pagàni. Chi vi ha partecipato mi ha riferito che
l’esperienza dei Consigli pastorali può essere di quelle forti. Ci vuole
tanta pazienza e perseveranza.
Mario Ardigó – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.