L’alveare ecclesiastico
Si può immaginare (data la totale carenza di
informazioni) che nel corso della seconda sessione dell’Assemblea generale del
Sinodo dei vescovi sulla sinodalità ecclesiastica popolare, vale a dire
come prassi generale della vita nella Chiesa, (evento che sta svolgendosi in modo veramente
poco o nulla sinodale) si stia cercando conciliare il principio di sinodalità
ecclesiale con l’ordinamento assolutistico della gerarchia ecclesiastica, abbattutosi
sulla nostra Chiesa negli ultimi quattro secoli di storia, con una forte accentuazione
tra metà Ottocento e metà i primi quarant’anni del secolo successivo, in
particolare nello scontro con liberalismo, democrazia e socialismo.
Un obiettivo che mi appare molto difficile da raggiungere, se non
impossibile.
Per riflettervi sopra, trascrivo di seguito un articolo del biblista Gianni
Carozza, pubblicato su Avvenire on line di oggi 26-10-24, nel quale si esamina e si propone il modello, utilizzato
nell’antica patristica e da Tommaso d’Aquino, della Chiesa come alveare.
In un intervento successivo proporrò alcune mie osservazioni.
Mario Ardigò – Azione Cattolica
in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli
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Intervento. Monarchia o democrazia? No: la Chiesa è un
alveare
Gianni Carozza - sabato 26 ottobre 2024 Avvenire on
line
https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/lavorare-insieme-nella-diversita-chiesa-sinodale
L’alveare
come metafora della comunità ecclesiale. Dove ciascuno cerca con zelo, per il
bene di tutti, il “miele” dell’amore di Dio. Da Patristica e liturgia, un messaggio
alla Chiesa sinodale
Da sempre l’uomo è affascinato dalla natura perché essa vive secondo
regole ben precise che hanno l’obiettivo di ristabilire l’equilibrio dopo
eclatanti catastrofi. Questa straordinaria caratteristica si evince, in
particolare, osservando un alveare, che colpisce anche per l’instancabile
lavoro che compie, affinché si rinnovi la vita di giorno in giorno.
Nell’immaginario collettivo l’ape regina è una monarca
in senso stretto: impartisce ordini ai suoi sudditi che da bravi operai(e)
eseguono. In realtà una colonia di api è più vicina a una democrazia che a una
monarchia. Per quanto, infatti, con i suoi feromoni, l’ape regina sia in grado
di influenzare alcuni comportamenti delle sue operaie, queste sono capaci di
prendere decisioni a maggioranza senza consultare la regnante. Un esempio è la
scelta del sito verso il quale la famiglia sciamerà, una decisione nella quale
ogni operaia è chiamata ad esprimere il proprio voto.
Cos’è un
monarca senza i propri sudditi? Nulla. Questo vale anche per l’ape regina,
costantemente circondata da un gruppo di ancelle che si occupano di tenerla
pulita, in ordine, ma anche di sfamarla digerendo il cibo per lei. Essa ha il
ruolo importante di deporre le uova e non è dotata delle stesse ghiandole che
le operaie usano per digerire il cibo. Per nutrirla, le sue ancelle le
forniscono cibo predigerito. Se non avesse le sue fedelissime api a servirla,
l’ape regina non potrebbe sopravvivere un giorno.
L’alveare è diventato così nel
tempo metafora cristiana della vita casta, caritatevole e regolata della
comunità ecclesiale. I Padri della Chiesa, sempre sensibili alle metafore
tratte dalla vita quotidiana e dalla natura, reinterpretando e arricchendo il
linguaggio biblico, hanno paragonato il mondo misterioso delle api e del loro
bene prezioso alla nuova realtà della Chiesa, che celebra e vive il mistero del
dono della salvezza in Cristo. E le prime comunità cristiane hanno compreso
molto bene il loro insegnamento, ne hanno colto la profondità avendo davanti
agli occhi il mondo affascinante delle api, delle loro arnie e del miele.
L’immagine dell’alveare pone innanzitutto
l’accento sulla comunione che esprime il mistero stesso della
Chiesa. Il cuore e la fonte di questa comunione è il Cristo, paragonato all’ape
regina. Le api vivono nella comunità e per questo i Padri le interpretano non
solo come modello della vita sociale, ma soprattutto come modello per la vita
della Chiesa.
Sant’Atanasio per esempio
scriveva: «Ora la Chiesa è l’ape. Produce il miele perché apprezza molto la
sapienza di Dio. Grazie al suo lavoro i re e anche la gente semplice si
guariscono, benché siano deboli. Il messaggio della Chiesa non si basa su discorsi
persuasivi di sapienza (cf. 1Cor 2,4). La sua parola è il suo aculeo
che testimonia la forza e la potenza di Dio. Con l’aculeo può servire per
mettere via le eresie…» (Commento al Salmo 117,12).
Nella
letteratura patristica l’ape è anche simbolo, diremmo oggi, dell’economia di comunione perché lavora per gli altri; è il
simbolo della sapienza e dell’abilità perché è capace di scegliere dai fiori
quello che è più prezioso, e viene considerata come esempio di condivisione per
i profeti, per gli apostoli e per i predicatori perché il miele che dà alla
gente è lo stesso miele del quale si nutre lei stessa, così come gli
annunciatori del Vangelo dovrebbero nutrire se stessi innanzitutto della Parola
di Dio. L’ape si propone come modello di sapienza perché nel prato in piena
fioritura raccoglie il polline da fiori diversi.
Gregorio Nazianzeno presentava
l’ape come emblema di laboriosità e capacità
di discernimento di ciò che è
utile. In particolare paragonava l’annuncio della Parola di Dio, e soprattutto
il sentirlo nel corso della lunga liturgia pasquale, a un prato in piena
fioritura nella quale noi, come le api, possiamo volare. Il prato è così
immensamente vario come la stessa Scrittura che contiene la piena conoscenza di
Dio.
Si nota dunque come
l’ammirazione per la natura guidava all’estasi della contemplazione gli uomini
che univano la cultura alla fede. La comunità delle api, diceva sant’Ambrogio,
era il modello esemplare della comunione
tra i credenti e della concordia tra cittadini. E con
stupore faceva notare: «Quale architetto ha insegnato loro a costruire gli
esagoni delle cellette dai lati perfettamente simmetrici? Le potresti vedere
tutte compiere a gara le loro funzioni: alcune dedicarsi premurose alla ricerca
del cibo, altre esercitare un’attenta vigilanza sull’accampamento, altre spiare
l’avvicinarsi delle piogge e osservare l’accumularsi delle nuvole, altre
formare dai fiori la cera, altre raccogliere con la bocca la rugiada spruzzata
sui fiori; nessuna tuttavia insidiare il lavoro altrui e procurarsi i mezzi per
vivere rapinando» (Exameron. I sei giorni della creazione, Omelia VIII, 323).
Durante le omelie quaresimali
del 378, anche san Basilio, trattando della creazione del mondo, e in specie
dei volatili, indugiava sulla vita delle api: «Fra gli animali ve ne sono
alcuni che vivono in società, se è proprio della vita sociale far convergere a
uno scopo comune l’attività dei singoli, così come si può vedere nelle api.
Esse vivono in comune, volano insieme e unico è il lavoro di tutte; e la cosa
più straordinaria è che intraprendono le loro attività sotto la guida di un
loro re e comandante, e non si decidono a volare sui prati prima di vedere il
loro re volare alla loro testa» (Omelia sulla Genesi, VIII, 4,1-9).
Grazie alla penna di Tommaso d’Aquino, la
liturgia latina ha ufficialmente consacrato il miele a simbolo dell’Eucaristia,
prendendo come Introito della Messa del Corpus Domini le parole: «Li ha nutriti con la
migliore sostanza del frumento, li ha saziati col miele dalla pietra»,
trasposizione di un versetto del Salmo 81: «Lo nutrirei con fiore di frumento,
lo sazierei con miele dalla roccia».
Di api e di miele si parla poi
nel canto liturgico dell’Exultet, che viene intonato dal diacono nel
corso della solenne veglia pasquale nella notte del Sabato santo. Citando l’ape
madre, il Preconio vuole marcare uno degli aspetti fondamentali della
celebrazione pasquale: la vita nella comunione.
È chiaro il riferimento simbolico: come nell’alveare si manifesta il
miracolo della vita, così nella notte di Pasqua la Chiesa celebra il trionfo di
Cristo sulla morte; inoltre come le api operaie hanno raccolto la cera, così le
mani dell’uomo hanno modellato la cera per la realizzazione di questo nuovo
cero, simbolo della luce di Cristo.
Va ricordato, infine, che l’ape
è anche modello monastico della lectio
divina! Come essa sugge il nettare dai fiori e si ritrae nella propria
cella, così il monaco raccoglie le parole della Scrittura per ritirarsi in
meditazione.
In questo tempo in cui la Chiesa
sta celebrando la seconda sessione della XVI Assemblea Generale ordinaria del
Sinodo dei vescovi, come i Padri della Chiesa, allo stesso modo noi siamo invitati
a guardare con sguardo sempre nuovo la realtà che ci circonda e nella quale
viviamo, per rintracciare i segni della presenza di Dio, che ci parla anche
attraverso l’immagine dell’alveare. Una Chiesa sinodale ha in fondo molto da
imparare dall’industriosa collegialità delle api, abili nello sciamare in
perfetta armonia. Come un alveare, così i membri della Chiesa sono chiamati a
lavorare insieme, anche nelle difficoltà e diversità. La Chiesa in fondo
assomiglia a un’arnia dove le api (i cristiani) lavorano con zelo e fedeltà
ricercando, ed ottenendo, il meglio da ogni fiore: il miele, l’“amore di Dio”.
Gianni Carozza
docente di esegesi biblica presso l’Istituto Teologico Abruzzese Molisano
e l’Istituto superiore di Scienze religiose di Pescara