Don Remo ci lascia
(13 ottobre 24)
Nel Consiglio pastorale parrocchiale di
qualche giorno fa, don Remo, il nostro caro parroco, ha annunciato che avrebbe terminato il suo ministero
tra noi per occuparsi del Santuario del Divino Amore, in zona Castel di Leva,
sulla via Ardeatina, nel quadrante sud di Roma (mi pare di capire che sia stato
inviato là d’urgenza, perché c’è da fare). Oggi don Salvatore, che ha ricevuto
l’incarico di amministratore parrocchiale, ne dà l’annuncio nelle messe.
Don Remo ci voleva bene, e anche noi a lui.
Si era conquistato il nostro rispetto e la
nostra fiducia per la sua autorevolezza di predicatore, il suo tratto
cortese, gentile, la sua capacità di mettere pace e di organizzatore, la sua
competenza nell’amministrazione (la parrocchia è una specie di azienda, con un
complesso di edifici e un patrimonio, e poi ci sono tanti adempimenti
prettamente burocratici ma molto importanti, tali da richiedere una competenza
anche giuridica, cose delle quali la
gente in genere non immagina la difficoltà).
Per le persone più
giovani è stato padre, per quelle più anziane fratello maggiore, e si è
occupato con spirito materno dei sofferenti. nella sequela del Maestro, così
come è scritto “[…] quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come
una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!
[Mt 5, 37]”, ed è stato ricambiato con
quello stesso affetto.
Si è
speso non solo per edificare la nostra Chiesa parrocchiale in senso spirituale,
come comunità di persone di fede che si vogliono bene, ma anche la chiesa come
edificio, e i lavori, che si erano resi indispensabili e urgenti, stanno
terminando. E quando dico che si è speso, lo dico anche in senso
materiale, dando del suo, e ora non scrivo di più perché non ne ho
l’autorizzazione.
Ricordo
che, qualche giorno dopo che era arrivato, ci portò, mia moglie, me e le mie
due figlie, a vedere in che condizione era stato lasciato, dopo l’edificazione
della nuova chiesa parrocchiale negli anni ’90, il locale sotterraneo (che
doveva essere una cripta). Vi era di tutto, macerie su macerie, una
discarica. In parte era stato adibito a garage ma non per scopi parrocchiali.
Ad un certo punto ci fece vedere anche un gatto morto. Lì, prima della
costruzione della nuova chiesa, vi era stata per circa quarant’anni una grande
chiesa ipogea, e lì vi avevo ricevuto Prima Comunione e Cresima. Ora tutto è
stato ripulito, protetto da un cancello, e quando ci saranno i fondi si potrà
costruire qualcosa che potrà essere utile a tutto il quartiere, nel quale la
parrocchia è il principale centro pubblico di aggregazione.
Nel corso degli anni tra noi si è avvalso di
tanti giovani preti che, venuti a studiare a Roma, aveva chiamato a collaborare
in parrocchia, e tutti hanno lasciato una traccia significativa, anche se poi
sono dovuti tornare nelle diocesi di appartenenza.
Don Remo era arrivato nel 2015 in un tempo
difficile. La gente del quartiere sembrava essersi disaffezionata alla sua
parrocchia e portava i figli altrove per la prima formazione religiosa. Il
clima tra persone che seguivano diversi orientamenti religiosi non era buono e nel
Consiglio pastorale parrocchiale si viveva per questo un clima difficile.
Il vescovo ci disse che mandava don Remo tra
noi per nove anni, secondo le norme ecclesiastiche.
Ecco quello che scrissi quando si presentò
tra noi:
Messa di insediamento di
don Remo Chiavarini
(sabato 17 ottobre 2015)
Questa
sera si è celebrata la Messa con la liturgia per l’insediamento del nuovo
parroco, mons.Remo Chiavarini. Ha celebrato il vescovo ausiliare del settore
Nord, mons. Guerino De Tora, insieme ai parroci della 9° Prefettura e ad altri
preti e diaconi. Ho contato venti sacerdoti e cinque diaconi. La chiesa era
molto affollata. Erano venuti anche fedeli della parrocchia dell’Addolorata,
dove mons. Chiavarini ha prestato servizio in precedenza.
Il
vescovo, prendendo spunto dalle letture bibliche della Messa, ci ha spiegato
chi è il parroco: è il capo e la guida della parrocchia. Egli, fedele agli
ideali religiosi, è colui che serve e che dà la vita per la sua comunità. Siamo
stati invitati ad accogliere mons.
Chiavarini come nostro nuovo pastore.
Mons.
De Tora ha ricordato il lungo ministero del precedente parroco, don Carlo
Quieti, il quale, obbediente alle norme canoniche, ha rinunciato al mandato
dopo aver compiuto settantacinque anni.
Un
parroco, ha detto il vescovo, presiede all’unità della parrocchia, tanto
importante in tempi di grandi novità come quello che stiamo vivendo.
Mons. De
Tora ci ha invitati a non temere i cambiamenti. Ci si deve aggiornare, secondo
l’imperativo dell’ultimo Concilio ecumenico, per rispondere alla novità dei
tempi, conservano però ciò che di buono è stato fatto in passato.
Le
grandi migrazioni umane, che caratterizzano la stagione storica in corso,
portano gente nuova. Non dobbiamo temerla. A volte, per sentirci sicuri,
tagliamo i panni addosso alla persona e con la lingua facciamo molto danno agli
altri. Dobbiamo saperci aprire alla gente nuova.
Al
termine della Messa mons. Chiavarini, don
Remo, come lo chiameremo familiarmente d’ora in poi, ha tenuto un breve discorso. Ha ricordato che, quando
prestava servizio in una parrocchia vicino a piazza Bologna, c’era un gruppo di
universitari fuori sede che animava la Messa del sabato sera. Tra loro anche un
giovane siriano, musulmano. Ad un certo punto quello studente disse che doveva
tornare in Siria a sposarsi. Non conosceva la fidanzata, gliel’aveva scelta la
famiglia. Andò in Siria, accompagnato da due italiani del gruppo di
universitari che aveva frequentato, e si sposò. I due giovani italiani
tornarono magnificando la moglie, una bellissima donna. Sicuramente, dissero,
se il ragazzo siriano se la fosse scelta lui, non avrebbe trovato una moglie
così bella. Per don Remo è stato un po’ così anche per lui, quando il suo
vescovo, nell’aprile scorso, gli chiese di venire a San Clemente come parroco.
Un matrimonio combinato. Ma si augura di fare un’esperienza simile a quel
ragazzo siriano.
Il nuovo
parroco ha ricordato i suoi precedenti incarichi come viceparroco e
parroco. Iniziò la sua missione di prete
nella parrocchia di San Saturnino, che anch’io frequentai da ragazzo quando
andavo al liceo Giulio Cesare. In particolare ha salutato i parrocchiani
dell’ultima parrocchia che ha guidato, l’Addolorata, ricordando che là aveva
ben 180 bambini che frequentavano il catechismo per la Prima Comunione e tanti
ragazzi all’oratorio parrocchiale.
Ha
salutato i confratelli parroci, confidandoci che con loro è veramente amico. “Si può essere amici anche tra preti,
sapete!”, ci ha detto scherzosamente.
Che cosa
serve alla parrocchia?, ci ha chiesto. Volersi bene e volere bene al Signore,
ha risposto.
Dopo nove anni la situazione tra la gente
della parrocchia è molto cambiata. Effettivamente si è arrivati a volerci bene,
anche se permangono le profonde diversità di spiritualità di prima, ma senza che
guastino la convivenza. Le famiglie hanno ripreso a portarci in gran numero i
loro figli e le loro figlie per la formazione religiosa e ci sono state tante
iniziative molto belle.
Viviamo in una Chiesa
con l’organizzazione assolutistica che abbiamo ereditato dai due secoli passati, anche se, nell’era di papa Francesco, se
ne pensa una riforma in senso sinodale, vivendo in altro modo l’autorità
ministeriale, quella sì data dal Maestro, facendo spazio alla collaborazione
dell’altra gente, in ciò in cui può avvenire. Per certi versi, però, l’autorità
pesa come un giogo, rispetto ai costumi democratici della società
intorno, ma, nel ministero esercitato da don Remo, è stato un giogo leggero,
nella sequela del Maestro com’è scritto “Prendete il mio giogo sopra di voi
e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per
la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero [Mt
11, 29-30 – versione CEI 2008]”. La sua autorevolezza gentile ci ha
conquistati, anche quando si doveva lasciare a lui l’ultima parola. In fin dei
conti, lo si è fatto volentieri e poi si è visto che le sue decisioni erano
state sagge.
Direi: missione compiuta, don Remo.
C’è chi ha lodato don Remo perché ha fatto
prova di obbedienza.
Su fatto che l’obbedienza sia ancora una virtù ci sono diversi orientamenti. Io, ad
esempio, seguo l’insegnamento di Lorenzo Milani, secondo il quale “L’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”.
Si
ritiene che l’obbedienza, nel senso di obbedienza ai superiori ecclesiastici,
sia una virtù evangelica, ma su basi che mi paiono piuttosto labili.
Per quello che narrano i Vangeli (si veda
nota in fondo), Gesù ha parlato poco di obbedienza come virtù, come anche di
famiglia e di relazioni coniugali: temi che sono invece centrali nella
spiritualità di un movimento presente in parrocchia dagli anni Novanta. E ne
parla sempre come obbedienza a
Dio, o a lui stesso, che poi, durante il suo ministero terreno, ci si
rivelò come Figlio di Dio, e
quindi, conclusero in seguito le teologie cristiane, Dio lui stesso. E lega
sempre l’osservare i comandamenti all’amore per Dio. Caratteristica, invece,
della sua predicazione fu l’invito alla sequela, che non si fa per
obbedienza, ma, appunto, per amore.
Non
c’è, al contrario, nelle sue parole il comando alla gente di ubbidire ad
un’autorità ecclesiastica, posto che ai suoi tempi l’organizzazione
propriamente ecclesiastica era ancora da venire, ed essendo il ministero degli
apostoli, da lui istituito, cosa unica, irripetibile (si veda la nota 2) e del
resto, pur avendo avuto essi i ministeri di insegnare, di legare e
sciogliere e di perdonare i peccati, non risultando aver mai regnato
al modo come lo si fa nella nostra Chiesa,
come in uno stato. E, d’altronde, il Maestro si mostrò veramente poco
propenso a obbedire in tutto alle autorità religiose del giudaismo del suo
tempo, che pure rispettava e delle quali riconosceva il ministero. Fu questo,
appunto, uno dei principali motivi di contrasto con esse, che poi ne determinarono
la cattura per essere sottoposto a processo.
Fondamentale fu il suo appello all’obiezione
di coscienza, che fu profondamente assimilato dai suoi apostoli, come risulta
da questo brano degli Atti degli apostoli che è una delle parti della Bibbia
cristiana più note.
At 5, 27-33 [versione CEI 2008]
Li condussero e li
presentarono nel sinedrio; il sommo sacerdote li interrogò dicendo:
"Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed
ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere
su di noi il sangue di quest'uomo". Rispose allora Pietro insieme
agli apostoli: "Bisogna obbedire a
Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato
Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato
alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono
dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che
Dio ha dato a quelli che gli obbediscono". All'udire queste cose essi
si infuriarono e volevano metterli a morte.
Così, io penso che don Remo abbia accettato
di lasciarci, pur volendoci bene e pur sapendo che gliene volevamo, per amore, quell’amore che è alla base del
suo ministero e che è, veramente, il principale comandamento divino: a Castel di
Leva c’è gente che ha bisogno di lui ed è andato dove c’era più bisogno.
E’ così bello pensare alla Chiesa come un
ambiente in cui si accetta di sacrificarsi per amore di chi ha più bisogno, con
sollecitudine paterna e materna insieme, piuttosto che come un organismo
militare in cui si obbedisce ciecamente, al modo della mistica del
fascismo mussoliniano!
In effetti, anche il ministero del Maestro fu
di muoversi verso chi aveva bisogno, non di fermarsi per sempre in una certa comunità, facendone il suo santuario. I
preti sono alla sua sequela anche in questo. Noi, come comunità, non possediamo
i preti che stanno tra noi, e lo si
deve accettare serenamente.
Così non ci resta che ringraziare del dono di
questi nove anni con don Remo e augurargli il successo nella sua benefica
azione a Castel di Leva.
E poi, naturalmente, di assicurare al caro
don Salvatore la nostra collaborazione. Egli si è formato come sacerdote anche
alla scuola di don Remo, così sono certo che farà un buon lavoro.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli
§§§§§§§§§§
[Ricerche
ChatGPT di OpenAI del 13-10-24]
1. L’obbedienza negli insegnamenti di Gesù narrati nei Vangeli
Nei Vangeli, Gesù non parla esplicitamente e
frequentemente di "obbedienza" in termini strettamente dottrinali, ma
il concetto di obbedienza emerge in vari insegnamenti e momenti chiave della
sua vita. Qui sono alcuni passaggi dove è possibile trovare riferimenti
all'obbedienza, sia verso Dio che verso la volontà del Padre:
1.
**Obbedienza alla volontà del Padre**:
- **Matteo 26,39**: Nel Giardino del
Getsemani, Gesù prega dicendo: *"Padre mio, se è possibile, passi via da
me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu."* Qui Gesù
esprime chiaramente la sua obbedienza alla volontà di Dio, anche di fronte alla
sofferenza.
- **Giovanni 4,34**: Gesù afferma: *"Il
mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua
opera."* Questa affermazione indica il suo desiderio di obbedire
completamente alla missione affidatagli dal Padre.
2.
**L'insegnamento dell'obbedienza ai comandamenti**:
- **Giovanni 14,15**: Gesù dice: *"Se
mi amate, osserverete i miei comandamenti."* Qui si parla implicitamente
dell'obbedienza come frutto dell'amore per Gesù.
- **Giovanni 15,10**: *"Se osservate i
miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti
del Padre mio e rimango nel suo amore."* Gesù esprime qui il legame tra
amore e obbedienza.
3.
**L'obbedienza come via per essere veri discepoli**:
- **Luca 11,28**: Gesù afferma: *"Beati
piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!"* Qui si
sottolinea l'importanza dell'obbedienza alla parola di Dio.
- **Matteo 7,21**: *"Non chiunque mi
dice: 'Signore, Signore', entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la
volontà del Padre mio che è nei cieli."* Questo passo richiama
l'obbedienza alla volontà di Dio come chiave per entrare nel Regno dei Cieli.
Questi passaggi mostrano che l'obbedienza,
per Gesù, non è un atto meramente formale, ma una manifestazione di amore e
fedeltà verso Dio. L'obbedienza alla volontà del Padre è centrale alla sua
missione e viene trasmessa anche ai discepoli come una via di fedeltà e amore.
2. La teologia cattolica fa una distinzione tra l'autorità degli apostoli,
in particolare dei Dodici scelti direttamente da Gesù, e l'autorità dei
vescovi, che sono i successori degli apostoli ma non ne possiedono esattamente
la stessa funzione e dignità. Questa distinzione si riflette nella tradizione e
nella dottrina ecclesiale riguardante il ministero apostolico e la successione
apostolica.
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1. **Autorità degli Apostoli**
Gli
**apostoli**, e in particolare i **Dodici**, hanno ricevuto una missione unica
e irripetibile da Gesù: annunciare il Vangelo, fondare la Chiesa e trasmettere
la Rivelazione. La loro autorità era diretta e speciale, poiché venivano scelti
personalmente da Cristo e investiti di poteri particolari, come il perdono dei
peccati (cfr. Giovanni 20,23) e l'istituzione dei sacramenti.
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2. **Autorità dei Vescovi**
Dopo
la morte e resurrezione di Gesù, gli apostoli cominciarono a ordinare i
**vescovi** (termine che significa "sorveglianti") come loro
successori. I vescovi possiedono l'autorità di insegnare, governare e
santificare nella Chiesa, ma la loro funzione è vista come **derivata** da
quella degli apostoli, non come identica. La Chiesa cattolica crede nella
**successione apostolica**, il che significa che i vescovi, attraverso
l'ordinazione, ricevono il ministero apostolico, ma non l'autorità unica e
personale degli apostoli, che non può essere ripetuta.
I
**Dodici** sono considerati una figura fondativa e unica nella storia della
Chiesa. In teologia si fa distinzione tra la **missione unica** degli apostoli
e quella dei vescovi successivi, che continuano a esercitare la funzione
pastorale, ma senza poter ripetere il ruolo di fondatori e testimoni oculari
della vita di Gesù.
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Teologi che ne hanno trattato
Diversi
teologi e padri della Chiesa hanno discusso questa differenza. Ecco i
principali:
1.
**San Cipriano di Cartagine** (III secolo): Ha scritto ampiamente sull'autorità
della Chiesa e dei vescovi. Nel suo trattato *De Unitate Ecclesiae*, parla
della collegialità e dell'unità dei vescovi come successori degli apostoli, ma
distingue l'autorità carismatica e fondatrice degli apostoli.
2.
**Sant'Agostino** (IV-V secolo): Anche Agostino tratta del ruolo degli apostoli
e dei vescovi nella Chiesa, sottolineando l'importanza della successione
apostolica, pur riconoscendo la natura unica dell'autorità degli apostoli. Nei
suoi scritti, come in *De Doctrina Christiana*, riflette sulla trasmissione
dell'autorità apostolica attraverso i vescovi.
3.
**San Tommaso d'Aquino** (XIII secolo): Nella *Summa Theologiae*, Tommaso
d'Aquino distingue tra l'autorità speciale degli apostoli e quella dei vescovi
successivi, trattando del potere di insegnare e governare nella Chiesa. Vede
gli apostoli come destinatari di una grazia speciale, mentre i vescovi sono
successori che continuano questa missione senza possedere esattamente la stessa
autorità apostolica.
4.
**Hans Urs von Balthasar** (XX secolo): Questo teologo cattolico del XX secolo
ha esplorato il ruolo dell’apostolato nella Chiesa e come la struttura
gerarchica si sia sviluppata. Riconosce la continuità attraverso i vescovi ma,
allo stesso tempo, riconosce la singolarità degli apostoli come figure
fondative.
5.
**Yves Congar** (XX secolo): Un altro grande teologo del XX secolo, Yves
Congar, ha studiato l'ecclesiologia e ha scritto ampiamente sull'autorità nella
Chiesa, distinguendo tra il ministero apostolico degli inizi e il ministero
episcopale successivo. Nei suoi scritti, come *La Tradizione e le Tradizioni*,
tratta dell'evoluzione dell'autorità ecclesiastica e del ruolo dei vescovi come
successori apostolici.
In
conclusione, mentre i vescovi continuano la missione della Chiesa come
successori degli apostoli, la teologia cattolica riconosce che l'autorità degli
apostoli, specialmente dei Dodici, era unica e fondatrice, non replicabile in
senso stretto. La riflessione su questa distinzione è stata esplorata da molti
grandi teologi della tradizione cattolica.