Brevi
note su vita di fede e questione
democratica
(maggio
2017)
di Mario Ardigò -
per l’Azione Cattolica in san Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.
1. La
“Politica” con la maiuscola
Nel discorso del Papa all’Azione
Cattolica del 30 aprile scorso i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non
sorprende, perché la Chiesa cattolica è il principale agente politico del
momento. In passato lo è stato il Papato, e non è la stessa cosa. La differenza
sta nella collaborazione dei laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è
specializzata nel fare proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione
Cattolica non ha 150 anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione
sociale ispirata dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite
dell’Opera dei Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce
infatti per iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento
d’autorità di quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di
quella di democrazia cristiana che ebbe tra i suoi principali esponenti il
prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della
persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento nelle concezioni religiose. In Italia le
correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono
sbrigativamente assimilate al modernismo
e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione
sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina, quindi negli
insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici.
Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il
papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente rifiuto del sistema politico democratico
liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una
propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata,
dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti.
Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è
stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione dell’Azione Cattolica era fondamentalmente
sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato
romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo
democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione
Cattolica si integrò profondamente con il partito
cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava
da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici
italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il
papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il
Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe
necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per
affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma
l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla
politica. In questa stagione, ai politici
cattolici venne riconosciuta dal
papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione
delle soluzioni che il papato romano
riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti nelle vicende
sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i
progredire del tempo, distinte da quelle spirituali,
ritenute eterne, vennero sollecitati
a collaborare alla definizione dei principi
di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le
strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e
azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione
Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio
Bachelet, rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera
sociale.
Il nuovo corso durò circa dieci
anni. L’autonomia riconosciuta al laicato ne comportò la frammentazione, in
particolare tra le correnti democratiche e quelle neo-intransigenti. Non si riuscì mai a far posto, nell’organizzazione
ecclesiastica ancora di tipo feudale, a laici autonomi. Tutto fu sospeso, come
congelato, e cominciò quella che ho definito era glaciale. Fu il tempo in cui il papato romano si federò
sostanzialmente con l’Occidente capitalista. Stavano crollando i regimi
comunisti che dominavano nell’Europa orientale: si ritenne che questa fosse la
scelta migliore. Il papato romano ebbe una svolta neo-intransigente per quanto
riguarda la politica specificamente italiana, che stava manifestando di
dirigersi in direzione contraria. Il papato si avvalse maggiormente delle
componenti neo-intransigenti del laicato, piuttosto che dell’Azione
Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del papato romano,
nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana, in particolare
tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali scuole italiane
di politica e di azione sociale in
genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
Con il regno di papa Francesco,
iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza più considerare principalmente quelli
italiani, sono stati esortati ad una nuova azione politica per salvare l’intero
mondo dalla rovina. E’ questa la Politica
con la maiuscola, i cui principi
sono sintetizzati nell’enciclica Laudato
si’ del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse
scienze contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si
tratta propriamente più di una dottrina, ma di una prospettazione che,
innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione
mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo,
che comprende anche i principi di azione sociale, è il campo proprio dei laici. Le componenti neo-intransigenti, mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro
esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre
componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione
culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.
2. La
questione democratica
Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va
trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione
da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare
cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé
riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non
pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle
norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro
d'immortale memoria [il papa Vincenzo
Gioacchino Pecci - Leone 13°]
[…]
Del resto,
Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a
questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo
d'oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a
qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale,
nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli
Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di
iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu
dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome
dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione
provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare
timore) diffusa nel 1906 dal papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]
Quando
si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa
memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una
versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica
nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce
per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un
movimento intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa.
Fu colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal
papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti
democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio politico
all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte impronta
sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare nel
settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti giovani
preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della Federazione
Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione Cattolica
pur mantenendo autonomia organizzativa, e nel 1905 della Lega
Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico
di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì
aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al
modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia dei
cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal
papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più
umili della società.
La diffidenza del papato romano per i processi
democratici lo portò poi, in Italia, a compromettersi con il fascismo, dopo
aver consentito, molto cautamente, con molte riserve e vietando denominazioni
comedemocrazia cristiana e simili, esperimenti di
politica democratica tra il 1912 e il 1926. La disfatta del fascismo lo
costrinse ad accettare la collaborazione dei cattolico-democratici, i quali,
formatisi in buona parte nelle organizzazioni intellettuali dell’Azione
Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano partecipato alla guerra di
Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve, la proposta politica di
Alcide De Gasperi.
Negli anni ’60, la svolta impressa dal Concilio
Vaticano 2° nei rapporti con le società civili, consentì lo sviluppo di
processi democratici nel movimento cattolico nazionale, in particolare
nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969, sotto la
presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra di
democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da parte
del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il
Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte
sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione
Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno
politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si
tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma,
addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo
economico. Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può
fare solo con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al
dialogo è stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione
Cattolica.
Dal papato romano non è mai venuta alcuna
autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica, ma essa è necessaria per
chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di democrazia non deve più
essere accostata a quella di indisciplina e addirittura di eresia. Questo
comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per i limiti
intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni religiose.
Esso può invece cominciare ad essere sperimentato dal basso, su scala più
piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono produrrà. Il primo
passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni delle esperienze
sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.
3. Potere democratico
La democrazia è una forma di organizzazione della società in cui si vuole
realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni comuni.
Democrazia è una parola greca che si compone di
altre due parole greche: dèmos, che significa popolo,
e cràtos, che significa potere. Dunque significa il potere
del popolo.
Gli antichi greci furono tra i primi a ragionare sul potere sociale.
Contrapponevano la democrazia, il potere dei più,
alla monarchia, il potere di uno solo, e alla oligarchia,
il potere di pochi.
Anche in democrazia i capi sono pochi, ma devono rispondere ai più,
non hanno un potere illimitato e possono essere periodicamente sostituiti.
Ciò che distingue una democrazia da una oligarchia è dunque la
possibilità di critica sociale e l’esistenza
di regole che limitino il potere
dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che coinvolgano i
più.
Schematicamente: in una democrazia il potere tende a salire dal
basso, perché i più possono scegliere i pochi che saranno i loro capi; in una
oligarchia il potere scende dall’alto, perché i pochi che comandano scelgono i
loro successori e quelli che comanda ai livelli inferiori.
Ogni democrazia, degenerando, tende a diventare una oligarchia,
mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi democratici, così come ogni
monarchia.
Nelle società complesse non esistono vere monarchie: queste ultime,
a ben vedere, sono in genere delle oligarchie dinastiche, quindi basate su una
rete di famiglia, per cui il potere supremo rimane tra parenti che se lo
trasmettono di generazione in generazione.
Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia (un'altra
parola greca composta da ieròs, che significa sacro, e
da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in modo
soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.
Attualmente la nostra Chiesa è, dal punto di vista dell’organizzazione
del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui si stanno sviluppando processi
democratici.
La Repubblica italiana è invece attualmente una democrazia in cui si
stanno sviluppando processi oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in
tutto il mondo, salvo che in pochi stati.
Paradossalmente le monarchie dell’Europa settentrionale sono i
sistemi politici in cui i processi democratici sono più attivi e al sicuro. La
degenerazione oligarchica è segnalata dalla restrizione della possibilità di
critica sociale, ad esempio di quella giornalistica, dell’ampliamento in durata
ed estensione dei poteri dei capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a
questi poteri, ad esempio della possibilità di ricorrere in giudizio contro le
loro decisioni, e dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi
comanda ai vertici supremi.
Le monarchie e le oligarchie in genere cadono a seguito di processi
rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie possono evolvere in
oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
Queste informazioni vengono date di solito agli studenti all’inizio
dei corsi di Legge, Scienze politiche e Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel
patrimonio culturale di tutti i cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in
parrocchia, se si vuole che prepari i laici di fede a svolgere in società i
compiti impegnativi indicati nell’enciclica Laudato si’.
4. Alle origine
della sacralizzazione del potere politico
Ogni forma di
organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene
dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.
Possiamo farci un’idea di come si era in
tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono
e che verosimilmente vivono come i primitivi.
L’evoluzione delle società umane è stata
favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della
scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società
erano già piuttosto complesse.
Dal punto di vista biologico discendiamo da
esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che
fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con aspetti fisici e movenze simili a quelle umane)
che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con molte
femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è
sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie
di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di
più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano
come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle
società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità.
Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere
dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le
deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie
simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo
era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi,
erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso
con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era
quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una
giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si
risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo,
di carattere sacro perché non in dominio umano, e, nel caso
venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione e il diritto servivano a questo e venivano
somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane
anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una
costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le
società umani siano radicate in certi posti. Questo è uno sviluppo politico relativamente
recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo
dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle
origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime
migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i
progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
Il radicamento
politico su un territorio sviluppò
molto la concezione giuridica della proprietà,
sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e
anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come
figure paterne, come padri
del loro popolo, iniziarono ad agire
come proprietari di esso. Cercarono a lungo un’investitura
divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani
assumessero anche la carica di pontefice
massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice è uno dei
nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo
collegato all’ordine universale, cosmico (cosmo
è una parola del greco antico che significa universo).
Si ebbe così una sacralizzazione del potere, che significa appunto collegare il
potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei soprannaturali. Ciò che riguardava le cose
soprannaturali era sacro, nel senso
di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi
conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano
accostare il sacro. Sacralizzare il potere significò volerlo sottrarre alle
contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era
accentrato in chi deteneva il potere politico
e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche
re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere
considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione del potere è ancora molto forte nella nostra
organizzazione religiosa.
5. Potere politico sacralizzato come potere assoluto
La sacralizzazione del potere politico spiega perché
i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e
l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità delle
istituzioni pubbliche.
Secondo il principio della laicità dello stato,
le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare
quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa.
La sacralizzazione del potere si è sviluppata in varie forme nelle
civiltà del mondo. In un discorso sulla democrazia, però, interessa
particolarmente il modo europeo, perché è da europei che sono state ideate le
prime democrazie contemporanee. E poi noi italiani siamo europei.
Dal Quarto secolo della nostra era, in Europa, la
sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della nostra fede.
Questo la mette in questione e ci mette in questione, come
persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che scelsero come
sede suprema del loro potere la città di Bisanzio, nella regione greca
della Tracia, furono il modello originario di quella sacralizzazione: di là
dominarono l’impero romano, ridottosi poi progressivamente a
porzioni sempre più piccole del territorio originario, procedendo le
invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel meridione. Quello fu
anche il modello della magnificenza liturgica dei cerimoniali del potere
europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i Papi. E’ significativo
che tutti i Concili ecumenici, vale a dire le assemblee
deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della nostra fede, del primo
Millennio della nostra era siano stati indetti dagli imperatori di
Bisanzio. In questo modello c’era un sovrano celeste,
soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era un
delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la
parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della
nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro
Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra
fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del
potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa
sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia,
piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e
legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa
Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo
dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della
Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti
legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità
si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
La sacralizzazione giustifica il potere assoluto, vale a
dire senza limiti, del sovrano. Non c’è autorità più alta di
quella celeste, dunque anche quella del delegato terreno di quella potenza non
può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La sacralizzazione del suo
potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo il diritto canonico,
quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano assoluto. Si tratta,
nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che si è sviluppato nel
secondo millennio della nostra era, non era originario nella nostra fede. Nei
secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato politicamente
subordinato all’imperatore romano, in realtà al potere politico
supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne politicamente un
feudatario (che significa principe di livello inferiore,
legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli imperatori germanici e
da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel secondo millennio della
nostra era volle costituirsi come un impero religioso, come supremo mandatario
(che significa delegato) celeste, con un potere più alto di quello
dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga di conflitti politici tra
il papato romano e le monarchie civili europee, e tra queste ultime per ragioni
anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi
la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che,
tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione del
potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi
democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale del
potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo
quadro, un potere assoluto, per di più attribuito a una sola
persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle
monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione
del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi
analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
6. Il processo di desacralizzazione del potere politico
Gli esseri umani, nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel
corpo e nella mente, e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro
aspetto, mutano continuamente. Se non se ne è convinti, è inutile
procedere con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia
come la si concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo
di democrazia serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla
cambiare. La sacralizzazione del potere politico serve
invece a contrastare la tendenza delle società a cambiare, travolgendo che le
domina. In una società dominata da un potere sacralizzato un
cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato quando
lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si
istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che
si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro si
ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di
punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina
concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà
autorizzato a irrogarle per conto della potenza
celeste che l’ha delegato. Tutte le società europee in cui si
svilupparono, dalla metà del Settecento, processi democratici erano dominate da
regimi assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i
sovrani di volta in volta da esse espressi, governavano “per grazia di Dio”.
Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.
Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione
del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro
continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto
molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno
stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere
romano di Borgo. Lo definisce stato in modo non del
tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano,
regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima
Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,
con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del
Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato si
legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di
tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati
dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle
istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione del
potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati
dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei
regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi
pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle
istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in
genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità
dello Stato.
Il principio giuridico, e addirittura costituzionale,
della laicità dello Stato significa prendere atto che non vi è
potere politico che possa arrogarsi di governare “per grazia di Dio,
sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità di essere cambiato.
Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi democratici. E’ chiaro che non
è in questione la nostra religione, ma la sua strumentalizzazione
politica, per la sacralizzazione del potere politico.
Storicamente il processo di desacralizzazione del
potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo europeo,
nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di
pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di
libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni
commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come
nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelle università europee
cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
Dal Duecento in Europa si svilupparono università degli
studi, istituzioni di studi superiori, le quali in genere, in epoca e
ambienti sociali di fortissima sacralizzazione del
potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine
naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di
una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra
i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più
potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia
politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il
secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni
campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un
esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina
Commedia di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento
essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le
concezioni dell’epoca sull’universo.
Il primo regno ad essere colpito dal processo di desacralizzazione,
quindi ad essere messo in questione nella sua legittimazione sacrale,
fu, nel Cinquecento, il papato romano, con la Riforma promossa
del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di
Wittemberg, nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania.
Questo processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo
risvolti politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione del
potere politico, anche se ad essere contestata era la sacralizzazione del
papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero
processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti
bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria
sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel
1648 nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della
Germania.
Il papato romano, fino ad epoca recente, reagì sempre
duramente ai tentativi di desacralizzare il suo potere
politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu l’enciclica Quas
primas [= Nella prima (enciclica)], del papa Achille Ratti
- Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento
culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in
realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge
(testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html )
Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi
empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non
maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società.
Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti;si negò
alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di
ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli
alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata
con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste;
quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei
principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che
pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso
naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio,
riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.
In seguito il papato romano usò toni più sfumati, riconducendo la sua
pretesa di potere all’ambito essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei
principali agenti politici in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di
papa Francesco, ma operando attraverso la mediazione prima di un partito
cristiano desacralizzato, vale a dire di ispirazione religiosa ma
senza la pretesa di essere delegato da poteri
soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate,
presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
A conclusione di questo discorso, tengo a precisare che bisogna
convincersi di questo: non sono le religioni che minacciano la pace
politica, come talvolta sento sostenere, ma la sacralizzazione del
potere politico. Se il potere politico è sacralizzato, allora viene
a dipendere per la propria stabilità da una, e una sola,
religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo
avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per
affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convinzioni di
fede. Se invece lo si desacralizza, quindi se trova
giustificazioni non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società
in cui si manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche.
Un esempio di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli
Stati Uniti d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato
regge una società complessivamente molto religiosa, secondo diverse
confessioni.
7. La Questione romana
L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di ciò che c’era
prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul futuro, è importante
conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto certi profili il passato
non è sempre veramente passato. Lo vediamo, ad esempio, nelle
lingue umane. Dico “lingua” e parlo latino, la lingua della Roma di
duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di oggi.
La Questione romana ha travagliato la storia
italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni politiche del 1913, le
prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi cittadini italiani. Il
papato romano, come reazione alla conquista militare del suo piccolo
stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò ai fedeli italiani,
obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato mortale i trasgressori,
la partecipazione alle elezioni politiche nazionali, sia come candidati sia
come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un Regno che nel suo Statuto proclamava:
“La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!).
Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici
nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori di
fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia
cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a
quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il
Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel
quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava
gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora
erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri
fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente il
conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il
Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando
di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma
anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna
autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il
riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale della
fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica
deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza
negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia
nazionale.
La lunghissima sacralizzazione dei
poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro a
sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un
proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra
mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere
supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra
di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei
manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente,
dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun
potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse
indispensabile possedere uno stato. Nel mondo di oggi
non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale,
quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi
ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella
nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per
deporre dittatori o per far cessare crudeltà e guerre. Un potere
che possieda uno stato non può più essere considerato
solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno
di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di
controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora
gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
Ecco come la rivista Panorama ha
sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:
I bancomat funzionano in tutta la
Capitale, ma non in quei 44 ettari che stando alle leggi (umane e anche divine)
proprio Roma non sono: si tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei
Vaticani, ma anche al distributore, al supermercato, al magazzino
abbigliamento, al tabacchi ed elettronica, alla posta e in farmacia, si paga
come una volta: solo in contanti o al massimo tramite il bancomat interno
emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di
Religione , che però i numerosi turisti e italiani che
frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha
poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia,
braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San
Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una
ragione: il Vaticano non può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché
- secondo la normativa antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non
equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato
come la peggiore isola caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank
Italia, infatti, è un soggetto di diritto italiano e quindi controllato da
Bankitalia. Quindici anni fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la
necessaria autorizzazione.
La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di quartiere dei Papi
che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo governa. Sotto
certi aspetti è un po’ un parco a tema, come Disneyland,
con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato che
i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di
fedeli. Possedere uno stato è anche sotto certi altri aspetti
controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del compromesso
con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi
entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa è un
sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in
realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo
limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare,
nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo,
avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella
cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si
compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al
modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista.
In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria
storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti
che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del
Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene
superficialmente che la Chiesa non è una democrazia si
ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e
non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio
le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo
mondo? Se però, nel mondo, si costituiscono delle
istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un
ente caritativo, un’università, o una parrocchia, perché non si dovrebbe
praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come
migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene,
altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene,
su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa
intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.
8. Politiche di
liberazione: libertà, uguaglianza,
fraternità come idee cristiane
Per chi scrivo queste brevi note sulla democrazia?
Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato Legge, Scienze
politiche e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in
Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo
conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La
democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire
il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una
formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’
di più? Ho studiato Legge e ho approfondito un po’.
La democrazia, più o meno come noi ancora oggi la intendiamo, è un
regime politico che si manifestò nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era
antica, quindi circa cinquecento anni prima che si formassero le nostre prime
collettività di fede. Gli antichi greci produssero anche un pensiero molto
sofisticato sulla politica, che era legato ad una sapienza più ampia e profonda
che si chiedeva il senso della vita umana e dell’universo, la filosofia.
Molti dei concetti che usiamo parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma
le nostre democrazie sono molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi,
queste ultime, con i criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno
democrazie. Perché coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse
un dieci per cento, si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti.
Questa era la quota degli adulti maschi liberi. Liberi da
che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva
considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di
quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne,
e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
La schiavitù non venne posta in questione dalla nostra religione e
venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei processi democratici in Europa.
E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero trovate proprio nella teologia della
nostra fede: nel fatto che riteniamo di essere stati creati e
di essere all'origine figli di un unico Padre.
Da qui l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi
democratici contemporanei sorsero in Europa, nel Settecento, sulla base
di concezioni che intendevano liberare gli esseri umani dalle
schiavitù sociali perché li si considerava uguali per
natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro,
ma come ogni figlio è diverso dal fratello.
Il padre tra loro fa parti uguali.
Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella
degli schiavi.
Benché dette con le parole della teologia della nostra fede, si
tratta di concezioni che fecero fatica ad affermarsi in religione. Oggi non
sono più avversate dalla nostra dottrina. Di solito cito, a questo proposito,
la nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004),
dove, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di
fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di
Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980
durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza,
fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione francese. In fondo
sono idee cristiane ». Che progresso da quando una simile frase
sarebbe stata invece condannata come eretica, solo poco più di un secolo prima!
Ma si dovette arrivare al 1991, con l’enciclica del Wojtyla Il
Centenario, nell’anniversario dei cento anni dalla prima enciclica della dottrina
sociale, la Le Novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino
Pecci - Leone 13°, per arrivare alla piena accettazione della democrazia
contemporanea. Si tratta comunque di argomenti ancora controversi in religione.
I reazionari considerano l’accettazione della democrazia una degenerazione del
magistero e giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto
in politica, hanno detto cose diverse dai papi di un tempo.
Certo, ai tempi in cui si formarono le nostre collettività delle
origini, gli antichi processi democratici si erano da tempo estinti. Il regno e
l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti
dall’esperienza di quelle collettività non troviamo dottrine politiche. Il
Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno, ma non
di questo mondo. Il detto che gli è attribuito “Date a
Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una sorta
di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello di Cesare,
il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello Celeste,
ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo
intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere
particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti
l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur
di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che
le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto
monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di comunione:
si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci
si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica,
e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale
venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un
processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come
propria forma di sacralizzazione politica, e quindi come
ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della
nostra era.
9. Liberare il
lavoro per coinvolgere tutti nella democrazia.
Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze politiche dei loro
tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una minoranza della
popolazione che praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa
gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza
d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare le
collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i
propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di
voleri favorire, ma chi arrivava al potere promettendo di
farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare,
per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide
politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il
bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi
come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad
esserlo. Al massimo furono consiglieri di chi comandava di
volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di
forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che
ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua corte,
un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri.
Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a
sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura.
Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.
In fondo è storia anche dei nostri giorni.
In un mondo fatto di tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui
l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava inverosimile che la gente
comune avesse voce in capitolo nelle cose della politica. E questo anche nelle
epoche storiche in cui si manifestarono processi democratici, come nell’antica
Roma prima che cadesse nel dominio di imperatori assoluti, nel
primo secolo dell’era antica, nell’età d’oro dei Comuni europei,
le esperienze di libertà delle industriose città dall’inizio del Secondo
Millennio della nostra era e fino al Trecento, o nel regno inglese dal
Duecento. La magnificenza della corti che si riunivano intorno a chi era
riuscito ad assolutizzare il proprio potere politico
supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi dal lavoro,
non avevano la capacità di occuparsi della politica, in particolare
organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se non fino
alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una
situazione naturale e che la ribellione fosse un grave
delitto. I poteri assoluti proposero diverse
giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La
loro sacralizzazione li aiutò in questo: si presentarono
come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società
sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa
situazione di temuta anarchia fu assimilata alla democrazia,
dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.
Quello che ho cercato di sintetizzare spiega perché, quando ci si
propose di coinvolgere tutti nei processi
politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare il
lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento.
Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama
l’Italia come una repubblica democratica fondata
sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha
iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici
sono entrati in crisi.
10. Democrazia
pacificante
globalmente, lì dove prima non si ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla
violenza (di chi era fuori si poteva fare ciò che si
voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo furono fondate su
questo principio). Questo perché servono processi democratici a livello
mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche solidarietà a livello
globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler chiudere gli occhi su di
essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni di popoli dai posti
dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa ci lega a
livello globale per cui si debba essere solidali a
quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è
sempre avvenuto?
Oggi pensiamo che democrazia e pace vadano
d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è
sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi
democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è
stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti
d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica
potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura
due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra
mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale,
nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente
connessi. In questo le democrazie a lungo non si distinsero dai
regimi assolutistici che vollero sostituire.
I nostri orientamenti religiosi oggi prevalenti ci propongono
un impegno per una pace globale che può servire a
sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale: questo tema è al
centro della predicazione di papa Francesco e si trova sintetizzato molto
efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del 2015. Ecco dunque che
l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in religione può avere, e anzi
dovrebbe avere, questo significato anche civico a livello molto ampio. In un
certo senso, a cominciare dalle realtà di prossimità, come è quella della
parrocchia, si può cominciare a cambiare il mondo. Si tratta di avviare
nuovi processi democratici.
11. Democrazia e
valori
Qui si ragiona di democrazia per metterla in pratica. Non dobbiamo mai
perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee oggi correnti in religione,
questo ha un significato anche per la vita di fede. Questo perché la
democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è legata a valori,
vale a dire a principi di azione sociale, che sono condivisi dalla
fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche se non sempre se ne è
mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la democrazia viene pensata
come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in danno di quei
valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio, allora,
mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari a
pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi
passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono
regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione,
altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle
mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si
osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria
l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con
un’autorità superiore che imponga la pacificazione: nella
dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che il
modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli
che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la
nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere
fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi
democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale.
Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie,
le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero delle
cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la
storia, si è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto
miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti
reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi sociali proposti in
tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi di
regressione della civiltà.
Opporre democrazia e valori, come fanno i reazionari, anche quelli
che abbiamo in religione, non è corretto, perché nelle democrazie contemporanee
i principi di azione sociali più importanti sono sottratti alla volontà delle
maggioranze. Fin dalle origini dei processi democratici contemporanei, nel Settecento,
si ebbe chiara consapevolezza che le democrazie degenerano se cadono in mano a tirannie
di maggioranze. Quando i reazionari accusano la democrazia di indifferenza ai
valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori?
A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa
sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di
pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da
limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione,
dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In
religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più
o meno così: oggi però la sua struttura feudale non
fa più gran danno perché è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale
ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con
la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici,
in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari
laicali, e in genere politici, questa mediazione salta: in fondo essi
sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
Se consideriamo la nostra Costituzione, un documento che contiene
regole che possono essere cambiate solo con maggioranze molto vaste e alcuni
principi che non possono essere cambiati, vediamo che è piena
di valori, di principi di azione sociale che vengono imposti anche
al legislatore, come ad ogni autorità pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli
della libertà religiosa e quello della laicità dello stato: in Italia non sono
mai stati completamente attuati. C’è quello di uguaglianza, che oggi è a
rischio. C’è quello di solidarietà sociale, anche questo oggi a rischio. Si
tratta di principi che nessuna maggioranza potrebbe abolire:
ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte Costituzionale, il collegio di
giuristi ai quali è affidata l’interpretazione autentica della Costituzione per
stabilire se le altre leggi la rispettano. I valori costituzionali in Italia si
sono affermati prima tra la gente che nelle assemblee legislative. Scaturirono
dalla disfatta del fascismo storico, all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe
un processo di conversione popolare, partito dal rifiuto della guerra e dalla
presa di coscienza che ci si era trovati in mezzo ad essa a causa delle idee
del fascismo, un regime oligarchico che proponeva la disparità sociale a
fondamento della gerarchia pubblica, la violenza come via per la risoluzione
dei conflitti sociali, l’aggressione internazionale come via per la ricchezza
nazionale, la guerra come igiene della razza. Era
un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la gente alla
violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani ebbero la
guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La gente non
gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta opportunistica,
come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i valori democratici
sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani. Vivono, ma spesso se ne
è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro nome. A volte li si
vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente potente.
Negli anni passati, si sono considerati i quartieri romani, e anche
il nostro, come terra di missione. Non sono mai stato d’accordo con
questa visione delle cose. L’ho sempre considerata piuttosto clericale. Mi
offendeva. Se le Valli fossero veramente terra di
missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli sono diventati
minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una prospettiva clericale
si è insoddisfatti della gente e allora si fa come se non
fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che è un vero arbitrio. E
perché poi? La gente non segue la vita buona raccomandata,
dicono. Questa però è stata più o meno la condizione di sempre della gente
della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si sforza di essere migliori, ma in
genere ci si approssima solo a quella vita buona idealizzata.
E’ quello che accade anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno
la predica. Non sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare
ai livelli più alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose
se ne intenda. Del resto: la vita buona raccomandata è
veramente praticabile? In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della
famiglia non si ha una visione realistica. Del resto chi legifera in materia
non ne ha esperienza se non da figlio e zio. E così va nelle cose del sesso,
ma lì è anche peggio perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri
capi religiosi sono scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso,
ma in che cosa si è veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi
sono molto meno violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi
è lo stesso. Non è un progresso? Le società del passato, permeate di
religiosità tradizionale, esprimevano incubi famigliari. Intorno
all'anno Mille gli stessi papi condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a
proposito del loro potere, di pornocrazia. In seguito ciclicamente
ci ricaddero, assumendo i costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche
dei capi violenti. E' dal Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un
caso che ciò avvenne con lo sviluppo di processi democratici che li sottoposero
a critiche serrate. Ai tempi nostri sono dei sant'uomini. A ben
vedere, dietro l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite,
c’è la politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi
disegni politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi
democratici. Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di
azione sociale, del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non
accettiamo più certe discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge condotto
qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono
come assolute. Questo, anche se non sempre se ne è
consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori
democratici.
Le Valli all’ultimo censimento avevano circa ventimila
residenti: circa quindicimila di loro, secondo le statistiche nazionali,
dovrebbero prendere come riferimento morale la nostra fede, anche se non
vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’ tra questa gente che
dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare di valori e metterli
in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine clericale che se ne ha
di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è il buono e c’è il
cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un processo: può
cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare le condizioni
per un miglioramento collettivo e individuale è il lavoro delle democrazia
come oggi la si concepisce, piena di valori dei quali le
maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori, da colonizzatori,
da missionari. Ne siamo parte, nel bene e nel male. Viviamo
in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più giovani, dei più anziani,
molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti soffriamo dei mali sociali.
Queste nostre vite hanno un significato sia civile che religioso. Non è senza
valore religioso ciò che facciamo in società, ma anche vero l'inverso: non è
senza valore civile ciò che facciamo in religione. Migliorando in religione
possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo cittadini migliori
possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale e collettiva. Ma
come migliorare? Bisogna innanzi tutto riprendere a incontrarsi: la
parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo. Ed è uno spazio
in un certo senso pubblico, perché pagato anche con soldi pubblici, con
una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono in presa diretta
nelle casse della nostra organizzazione religiosa. La società si
migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione. Non si
tratta divenire in chiesa come spettatori. Già proporsi che i più
giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è importante:
non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli richiede la
collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo sviluppando
processi democratici, imparando la democrazia, che è potere
condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi principi umanitari, come
quello che nessuno è meno degno di vivere di altri. Nella pratica,
ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si cerca di ascoltare e
capire gli altri, si rispetta il tempo loro concesso per parlare, non li
si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno umilia, nessuno
esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza limiti. Si
pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe della
fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma
cercando di espanderla per includervi nuovi amici.
12. La laicità delle
istituzioni pubbliche come principio inderogabile
della democrazia, contro ogni sacralizzazione del potere politico
E’ evidente quello che non ha bisogno di essere
dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare spiegazioni o anche
giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così, e basta.
Il Sole sorge e tramonta: è evidente. Che
però giri intorno alla Terra può sembrare,
solo sembrare, evidente, ma
poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate
dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare intorno
al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità
impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il
Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine
e astronauti nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione
piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è
ben chiaro come e dove evolva e che fine farà, se poi una fine ci sarà
mai ad un certo punto.
In religione quasi nulla è evidente, anche se qualcosa
talvolta sembra esserlo, perché la fede religiosa tratta
di potenze invisibili. Sono invece evidenti l’empatia e la compassione:
realtà interiori, in un certo senso invisibili, ma di cui
facciamo esperienza. Siamo capaci di immedesimarci negli
altri, nelle loro gioie e nei loro dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in
loro soccorso quanto soffrono. La psicologia, le neuroscienze e l’antropologia
ne danno spiegazioni, certo, ma si tratta di realtà evidenti,
e, innanzi tutto, proprio di realtà, appunto perché ne facciamo
esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi non prevale la natura di
antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e il
Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno significato
per la fede e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe,
del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per
tutti, nessuno escluso.
Al di fuori della misericordia, che è evidente nel
senso che ho precisato, mi pare che tutto in religione necessiti di complicate,
e anzi complicatissime, spiegazioni, delle quali si occupa la teologia.
Trattando dell’invisibile, è assai raro che i teologi siano d’accordo
tra loro, quindi poi ci sono, più o meno, tante teologie quanti sono i
teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché quasi tutto, nella vita
umana, va così. La scienza, in particolare, funziona così, e per certi versi,
nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando di accordare conclusioni e
premesse, la stessa teologia si è fatta scienza. Questo non significa che non
si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si ragiona insieme, e talvolta si
riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso in politica e nella
religione che si fa politica, come anche nella politica sacralizzata,
quella che strumentalizza la religione, si va per le spicce, non si ha tanto
tempo da perdere. Allora si stabilisce che la verità esce
da una certa fonte, sia proclamata da una certa autorità, e che si sia
obbligati a convincersene. Storicamente la faccenda della verità appare
strettamente connessa con l’autorità. Che cosa è la verità?
E’ un problema filosofico, ma anche politico. La domanda risuona nei racconti
della Passione e venne attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea,
funzionario di medio livello dell’imperatore romano, quindi, tutto
sommato, a un politico. Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta
del Maestro. In politica appare inutile discutere di verità:
e se poi ci fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare
il campo per questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela.
E gli argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti,
quelle che gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto,
facendone norme giuridiche. Una verità vale quanto gli
argomenti che si portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente;
un verità normativa, invece, è una legge e vale
quanto l’autorità di chi l’ha imposta e, in politica, quanto la forza del
potere che ha legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo.
Anche le religioni impongono verità normative, in particolare nelle società
dove i poteri pubblici sono sacralizzati e quindi inglobano la
religione nella propria giustificazione sociale. In esse poteri
pubblici e verità normative si rafforzano
a vicenda. Che accade però quando, in società con poteri sacralizzati,
una verità normativa viene posta in questione dai fatti,
da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa in genere resistenza, porta i
dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non cambiano idea, li condanna.
Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato questo il dramma delle
scienze tra gli europei. Dalla fine del Settecento è toccato alla
democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito,
superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà,
si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra
concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.
In democrazia si è tratto insegnamento dalla tremenda nostra storia
del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del potere: è questo il senso del
principio della laicità dei poteri pubblici. E’ uno di
quei principi inderogabili, che non dipendono da questa o quella
maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non c’è più, democrazia. Ma,
allora, nei regimi democratici, non è che quel principio della laicità
dei poteri pubblici sta virando in fondo verso la verità
normativa, e finisce per rientrare in quelle idee sul mondo che non possono
essere messe in questione solo perché sono divenute legge e si
rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione di sempre di ogni specie
di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che ha a che fare con la
morale. Non è come quando in religione si sosteneva che il Sole girasse intorno
alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge, altrimenti, si pensava,
l’Universo e con esso tutti i poteri politici e religiosi legati al Cielo
sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto degli altri e ci
poniamo dei limiti. Per questo rinunciamo a sacralizzare, quindi
ad assolutizzare rendendolo illimitato, il
potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia
condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo
che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non
sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro
strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono
questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di
annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.
Che cosa resta al dunque? Questo
resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un
sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per
questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze
interiori evidenti. E’ evidente, a questo punto,
anche il collegamento con la nostra fede.
13. La democrazia come conquista
culturale
La democrazia non è un fatto innato, si impara. Nella società italiana di
oggi mancano gli insegnanti. Storicamente l’Azione Cattolica è stata una delle
principali scuole di democrazia in Italia: prima però ha dovuto essa stessa
impararla e, innanzi tutto, convincersi del fatto che fede e democrazia
potessero andare d’accordo. All’inizio del Novecento questa idea veniva
considerata parte dell’eresia modernista. Questo significa che,
all’origine, la dottrina sociale, le idee dei papi sulla
riforma sociale, non comprendeva la democrazia. Infatti si riteneva che i
progetti di miglioramento sociale dovessero discendere dall’alto,
dedotti con ragionamenti teologici e proclamati con autorità. Progettare il
bene veniva considerato monopolio dei papi. L’osservazione e la comprensione
realistica della società in religione vennero progressivamente, in particolare,
in Italia, con il lavoro che si fece in Azione Cattolica, dopo la sua
fondazione, che risale al 1905, e per la sua organica collegamento con la
gerarchia del clero.
La democrazia non è solo un metodo per
prendere decisioni a maggioranza, ma un sistema di valori.
Principio fondamentale della democrazia è di considerare tutti uguali
in dignità. L’uguaglianza, però, va costruita in ciascuno. Lo si fa
rendendo libere le persone, che non significa lasciarle
alle loro passioni, ma fare in modo che possano decidere consapevolmente. Senza
vera libertà, ciascuno cade preda dei più forti. Il motto del primo
partito di ispirazione religiosa, il Partito popolare
italiano, fondato nel 1919 dal prete Luigi Sturzo e da altri suoi amici,
fu Liberi e forti. Ma nessuno è veramente libero da solo. E’
la società nel suo insieme che va liberata. Chi la libererà? “Non
esistono liberatori, ma persone che si liberano”, fu il motto di un gruppo
resistenziale milanese di cui fecero parte il prete Giovanni Barbareschi e
Teresio Olivelli. La liberazione è un compito collettivo che richiede di essere
solidali, di considerare anche gli altri, di tener conto di loro e, in
particolare, di chi sta peggio, perché non ci sono persone che abbiano più
urgenza di liberazione di quelle che stanno peggio, e di solito si sta così
quando si finisce in mani altrui. Libertà, uguaglianza, fraternità sono
valori assoluti in democrazia, sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza.
Ho ricordato che nella nota n.793 del Compendio della dottrina
sociale della Chiesa (2004), a proposito dell’amicizia civile da
intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale,
si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in un’omelia
tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà,
uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione francese.
In fondo sono idee cristiane ». Quando quelle parole furono
pronunciate la democrazia non era ancora completamente una conquista
culturale nella nostra fede: lo divenne solo circa dieci anni dopo, nel 1991,
con una storica enciclica del medesimo papa, Il Centenario, in
occasione dai cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna.
C’è voluto quindi un secolo perché, in religione, l’idea di riforma sociale
fosse abbinata a processi democratici. Ma si tratta di un conquista che va
rinnovata di generazione in generazione.
L’idea che proprio la Chiesa insegni la democrazia appare ancora oggi
un po’ strana. E’ il residuo, in genere inconsapevole, del passato. Chi parla
di democrazia in religione a volte viene collegato con i comunisti.
La bestia nera della prima dottrina sociale fu il socialismo. Urtava pensare
che le masse dovessero liberarsi con un proprio movimento sociale e non
attendere la giustizia sociale da chi dall’affermarsi della giustizia sociale
avrebbe subito solo un danno patrimoniale. In effetti socialisti e comunisti, e
in particolare questi ultimi, dovettero imparare la democrazia negli stessi
anni, e con le stesse difficoltà, in cui lo si fece in religione.
Imparandola, la trasformarono. La innervarono di idee di giustizia sociale
molto più che alle origini. A lungo i comunisti ritennero la democrazia un
imbroglio borghese, in particolare constatando che, anche dopo l’introduzione
del suffragio universale, le masse davano credito elettorale a chi non faceva,
o non faceva del tutto i loro interessi. Come può succedere? Successe
perché, in ambito democratico, si temperarono le asprezze sociali, venendo
incontro a chi stava peggio. Si raggiunsero accordi che convennero a tutti. La
crisi di quegli accordi è all’origine di quella della società di oggi. Non è un
caso che si accompagni ad una crisi dei processi democratici: la gente non ha
fiducia nella democrazia e chi comanda cerca di avere il consenso fascinando i
singoli, più che coinvolgendoli nelle decisioni collettive.