Cittadini e sudditi
[da De Giorgi Fulvio, Caneri
Fabio ( a cura di), Ardigò. Educare le comunità politiche. Coscienza etica e
impegno civile, Scholé 2021; pag. 123-124; dalla conferenza tenuta il 27
agosto 1988 alla scuola di formazione della Rosa Bianca a Brentonico sul tema “Cittadini
o sudditi, ricchi e poveri di potere nella democrazia che cambia”]
Se il potere politico-istituzionale è fondato (legittimato)
sul codice binario di consenso e costrizione, ciò è dovuto al fatto che alla
formazione e al controllo del medesimo concorrono cittadini e non sudditi. I
cittadini sono gli abitanti di un Paese che posseggono ed esercitano diritti di
cittadinanza […] che fondano il consenso al sistema politico e limitano la
capacità di costrizione del medesimo. Un sistema politico-istituzionale ha
sudditi e non cittadini che non posseggono, o di fatto non esercitano, diritti
di cittadinanza sia nella formazione del consenso che nella limitazione della
capacità costrittiva del suddetto sistema. «Sudditi – insegna Nicolò Tommaseo [
nella voce Sudditanza del suo Dizionario della lingua italiana, pubblicato
a fine Ottocento e riedito da Rizzoli nel 1977 – è quegli che è sotto la
signoria di Principi, di Repubbliche o di Signori». E con un’ironia amara da
buon democratico aggiungeva: «Al presente, la parola Sudditanza dovrebbe
non avere senso; ma io temo che Cittadinanza ne abbia ancor meno».
Poiché i diritti di cittadinanza non sono
distribuiti egualmente o non vengono esercitato e rivendicati da tutti gli
abitanti, ogni società può essere sociologicamente composta in proporzioni
mutevoli ed empiricamente accertabili, di cittadini e di sudditi. Per le
considerazioni svolge sopra (per essere il sistema politico sempre meno il
sistema centrale e gerarchico delle società complesse e sempre più un sistema
parziale, sia pure di spicco, tra gli altri) la dicotomia cittadini-sudditi non
può essere circoscritta al sistema politico. In tal senso, Ralf Dahrendorf in Per
un nuovo liberalismo [Laterza 1988] presenta i diritti di cittadinanza non solo giuridici, politici ma anche (sull’autorità
di T.H. Marshall) diritti sociali di welfare state, come una sorta di
terza dimensione. Una dimensione da incuneare nella società strappando spazio
ai sistemi sociali centralizzati. «Con cittadinanza e diritti civili – scrive –
si intende la quantità di diritti soggettivi, la quantità di diritti
soggettivi, la quale deve essere uguale per tutti quelli che sono implicati sia
nel mercato sia in una opinione pubblica politica democratica». «La
cittadinanza – scrive ancora – Dahrendorf – è dunque la limitazione dei mercati
e della politica». Sono i diritti di cittadinanza che insieme supportano e
limitano sia lo stato che il mercato. Cittadinanza è infatti la precondizione di
autonomia personale per l’esercizio del diritto di voto e di contratto, oltre
che di uguaglianza di status (secondo la Costituzione) davanti alla
legge. Il suo contrario, cioè l’invadenza senza difese e limiti dei sistemi
politici ed economico, come di altri, su singoli e gruppi (alla base o ai
margini della società) può dirsi sudditanza.
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Fondamentalmente, il processo sinodale voluto
da papa Francesco è diretto a trasformare profondamente il nostro modo di
vivere la Chiesa in modo da farci partecipare realmente alla sua vita, non solo
facendoci trascinare e nella misura in cui ci va di esserlo. E’ l’elevazione ad
una condizione che possiamo definire di cittadinanza da quella di sudditi
in cui ora ci troviamo. Nel brano
che ho trascritto sopra trovate una definizione efficace di cittadinanza e
sudditanza che mio zio Achille, sociologo bolognese, dette nel 1988,
tenendo una conferenza ad una scuola di politica.
Ora, parlare di cittadinanza nella nostra Chiesa può sembrare fuori luogo,
sconveniente addirittura. In genere si è assuefatti all’idea che la nostra
Chiesa fu voluta com’è ora, vale
a dire come struttura politico-istituzionale totalitaria, che non
tollera altro che sudditi. La teologia che potremmo definire di corte, non in senso dispregiativo ma
intendendo che si pone l’obiettivo di legittimare il potere ecclesiastico com’è
ora, l’accredita. Eppure mi pare che il Maestro, nel suo girare per la
Palestina insieme a un gruppo di discepoli quando fu tra noi, non la visse in
quel modo. C’è chi, a proposito del suo atteggiamento politico, ne parla
come di un blando anarchismo. In
particolare si muoveva con una certa libertà in mezzo alla classe sacerdotale e
ai teologi del suo ambiente. Mi ha
sempre sorpreso, fin da piccolo, la mitezza con cui trattò la sedizione di
Giuda iscariota, l’apostolo, tanto diversa dai costumi di sempre della nostra
gerarchia, che pure del Maestro si presenta come vicaria.
La nostra Chiesa, almeno fino all’inizio
degli anni ’80, in Europa, fu integrata in quello che mio zio Achille definiva sistema
EPC – Economia, Politica e Cultura, al vertice della gerarchia
politico-istituzionale. Poi tutto cominciò a mutare molto rapidamente e sorsero
molteplici centri di potere che iniziarono a muoversi autonomamente,
relazionandosi in modo estemporaneo con gli altri. Questa è la caratteristica
del mondo in cui ancora viviamo, che viene definito, per questo, post-moderno,
dove la modernità era l’epoca
governata dal sistema EPC ancora
coeso. Anche la nostra Chiesa fu coinvolta in questo movimento.
Tentò di recuperare l’autorevolezza perduta
con la forza del numero e restaurando il
totalitarismo che aveva cominciato a dissolversi negli anni Sessanta e
Settanta, sotto la spinta dei nuovi principi ecclesiali deliberati durante il
Concilio Vaticano 2°. La gente, si pensava, sarebbe tornata ad aderire
fascinata da quella immagine antica di potenza e affidabilità, come nelle
epoche precedenti. In questa fase si cercò di compattare tutti intorno ad una
ideologia di governo: fu l’epoca del cosiddetto Progetto culturale tentato dai vescovi italiani.
Nel contempo si svilupparono anche reazioni integraliste.
In quest’ottica ci cerca di mettere al sicuro un piccolo nucleo di convinzioni
e costumi sottraendolo alla contaminazione dell’ambiente sociale, in modo da
blindare intorno ad essi le comunità che le condividono, per il resto lasciando
molta libertà nelle transazioni sociali con gli altri centri di potere.
Queste vie, tentate in Italia, richiedono sudditi
che accettino di conformarsi a ciò che viene deciso per loro dall’alto.
Esse non hanno funzionato, in particolare in
Europa.
Questo perché gli europei si sono lentamente
assuefatti alla cittadinanza. L’esercizio di quest’ultima è un limite ad ogni potere sociale, non solo a quelli coinvolti
nel vecchio sistema EPC, ma ad ogni potere sociale. Costruendo limiti
basati sulla partecipazione collettiva
non al modo di sudditi, ma al modo di cittadini, si può costruire una coerenza
etica nella società che al contempo dia anche senso alla vita sociale.
Una Chiesa realmente partecipata, non
riservata a coloro i quali, anche solo in certi momenti della vita, accettano
di farsi sudditi, può consentire una più positiva interazione sociale e
la costruzione di senso che poi possono portare a una più efficace incidenza
nella cose sociali, senza essere trascinati e costretti nel mercato delle influenze, quello basato sullo scambio,
per cui, ad esempio, l’appoggio ecclesiastico ad un sistema di governo viene
barattato con privilegi fiscali o di altra natura, esenzioni, finanziamenti,
possibilità di influenza sociale, secondo il costume dei concordati.
La nostra Chiesa è totalitaria perché non
concede libertà e, anzi, propone come virtù la libera rinuncia alla libertà. Vorrebbe che tutti la pensassero
in un solo modo, che è quello di obbedire a tutto ciò che viene proposto dai suoi
gerarchi. Questa sarebbe, poi, la sequela in senso teologico. Teme la libertà ed è da secoli in dura
polemica con essa, perché non riesce a concepirsi che come totalitaria e questa è la sua interpretazione dell’idea
evangelica che tutti siano una cosa
sola. Il problema è che questo nel
vangelo non viene presentato come un obiettivo politico-istituzionale e,
infatti, sotto questo profilo il Maestro mi pare che lasciasse fare in modo estemporaneo
e arrivò a dire che il suo regno non
era di questo mondo. In particolare nel suo pellegrinare per la Palestina
del suo tempo e intorno ad essa non mi pare che abbia lasciato plenipotenziari
sul territorio, costruendo una
organizzazione propriamente politica. Fin da piccolo mi è sempre riuscito difficile immaginare
che questa complessa organizzazione che nei secoli costruimmo qui a Roma
rimandasse realmente alla volontà del Maestro, il quale certamente non ordinò
di trasferirvi suoi vicari e vi fece riferimento alla lontana stabilendo
di dare a Cesare quel che era di
Cesare.
Quando ci si impegna a pensare di
organizzare la sinodalità nel senso richiesto dal Papa (e più o meno solo da
lui), vale a dire dal basso, a
noi persone laiche vengono fatte lunghe tirate spiritualistiche (nel
gergo romanesco definite icasticamente pipponi) sostanzialmente per
convincerci che siamo noi che non andiamo e non la struttura
ecclesiastica com’è ora. Quest’ultima dal 1984, con l’8 per mille, è collegata in presa diretta al bilancio
dello stato ed è una grande proprietaria immobiliare e quindi può durare ancora
a lungo facendo a meno dei fedeli. Alcuni, sociologi, teologi, storici,
osservano che la Chiesa si sta dissolvendo, quanto a fedeli, ma in genere la gerarchia non se ne fa una colpa,
ma, appunto, sviluppa pipponi dando a noi la colpa, che siamo persone cattive e
non facciamo quello che a noi viene raccomandato.
Insomma dall’alto si guarda in basso con un
certo evidente fastidio quando ci si accorge che laggiù qualcosa si muove.
E’ veramente paradossale che, in questa fase
di ascolto di noi cosiddetto Popolo
di Dio, tanto incensato a parole quanto disprezzato nei fatti, ci venga
ingiunto di fare molto silenzio nei nostri incontri sinodali.
La sinodalità dal basso non potrà essere prodotta se non si
costituiranno dei limiti a ciò che c’è in alto, che ora si presenta come un
dispotismo totalitario, anacronistico, obsoleto, ma molto pervicace.
Se sinodalità deve essere non si può
ammettere che ci sia chi decide e chi deve limitarsi ad obbedire. Il principio
deve essere quello della co-decisione, in modo che a nessuno sia
consentito di escludere nessuno e che nessuno possa silenziare del tutto nessuno.
Nulla senza di me, ma nulla solo da me. Altrimenti si inscena una
sinodalità finta (magari aspettando che passi la fissa per la sinodalità e
riprende quella per il totalitarismo gerarchico).
Vano è pensare di produrre al vertice della
nostra Chiesa mutamenti sinodali pari a quelli che si stanno sperimentando
nella Chiesa tedesca. Il peso del passato è troppo pesante. Ma in realtà di
base come la parrocchia è diverso. Quest’ultima ha la peculiarità di essere
destinata ad essere la casa di tutti, non di questo o quel gruppo di
tendenza. E’ quindi il posto giusto per sperimentare la sinodalità, da un lato perché,
salvo continuare a ricorre alla legione straniera del clero (con
l’effetto di un clero che sa poco delle cose italiane, e in particolare della
storia d’Italia, e quindi non sa indirizzare i fedeli nell’azione sociale),
senza partecipazione reale si
chiude bottega perché preti e religiosi sono sempre meno, ad eccezione che nei
posti di potere ecclesiastico, e dall’altro perché è sempre meno, in Europa, la gente disposta a farsi umiliare dalla
fantasiosa teologia di corte, secondo la quale, sostanzialmente, il Maestro
volle la maggior parte dei credenti ridotta a gregge.
Senza sinodalità reale si avrà il
paradosso delle Chiese vuote e delle casse piene, veramente poco evangelico,
direi.
Mario Ardigò – Azione
Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli