Umanità e divinità
Nell’antichità
cristiana costituì un problema l’umanità nella
divinità: di quest’ultima non si dubitava.
Dalla tarda
modernità (a cavallo tra Settecento e Ottocento) iniziò ad esserlo la divinità nella umanità.
A parte ciò
che le teologie hanno ritenuto di ricavare dalla Bibbia e da come la nostra
fede è stata vissuta nei vari cristianesimi che si sono succeduti dal primo
secolo, sulla divinità abbiamo vaghi riscontri, in genere molto legati alla
soggettività di persone notevoli. Fondamentalmente ci viene narrata,
ma non è evidente, nel senso che non occorra ragionarci sopra. E’ forte
convinzione della nostra Chiesa che ragionandoci sopra ce se ne possa
convincere. Di fatto, le persone di fede mi pare che ci ragionino sopra molto
di più che nell’antichità e rispetto ad epoche più vicine a noi. Le statistiche
sulla religiosità in Italia ci dicono che gli atei convinti, che lo sono
avendoci ragionato sopra, sono pochi, mi pare intorno al 5%, e dunque quell’idea
della nostra Chiesa che ragionandoci sopra ci si possa convincere della divinità mi pare
valga ancora.
Accettare
l’umanità nel divino ci può essere utile per essere più umani e, anzi, umani migliori.
Questo finché dell’umanità si tiene conto realmente e non la si dissolve nelle
idee che si hanno sulla divinità. In realtà qualche volta la nostra teologia mi
è sembrata piuttosto disumana e storicamente lo è effettivamente stata,
a considerare le conseguenze letali che ne sono state tratte.
Nel costruire società, anche a sfondo religioso,
è importante tener conto dell’umanità di chi è chiamato a parteciparvi. E’ come
quando si appresta la tavola per un bel pranzo con tanti invitati: si tiene
conto dei gusti delle altre persone e si cerca di dare cibo in quantità né
eccessiva né scarsa, e di buona qualità.
In genere, però, quando si pensa a come deve
essere la nostra Chiesa non si segue quell’indirizzo, ma si seguono
essenzialmente le idee che si hanno sulla divinità e si cerca di conformare a
quel modello la nostra umanità. In questo modo il cristiano dovrebbe essere una
specie di Superman. I risultati, poi, deludono e il problema mi pare sia
nelle fantasie sulla divinità che si sono riversate sull’umano.
Ad esempio, non credo che ci sarà mai
possibile vivere in comunità al modo in cui vivono i Tre nella Trinità.
Eppure è proprio questo il modello che sento e leggo proporre per la sinodalità
a cui siamo chiamati. Si pensa che lo Spirito ci elevi a quel livello, ma, di fatto, non
accade, almeno a ciò che ho potuto constatare. Rimaniamo umani che cercano di conformarsi
agli insegnamenti del Maestro.
Proviamo almeno, per cominciare, a trasformare i
nostri incontri sinodali, che hanno lo scopo di vivere la Chiesa in modo più
partecipato, in occasioni liete. Questo ci è possibile, in base alla nostra
umanità. Il metodo è quello della gentilezza, che consente di non essere percepiti dai nostri interlocutori come
arcigni censori, ma come amici.
Quello
della gentilezza
è un importante insegnamento che papa Francesco
ha inserito nell’enciclica Fratelli tutti, trattando di dialogo e amicizia sociale (capitolo 6°):
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo consumista provoca molti soprusi. Gli altri
diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità. Dunque si finisce
per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si accentua e arriva a
livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni catastrofiche, in
momenti difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi può”. Tuttavia, è
ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo
fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola
greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato
d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La
persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza
sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi,
delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta
in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con
le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende
il «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che
consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che
irritano, che disprezzano».[ dall’Esortazione apostolica postsinodale La
gioia dell’amore - Amoris laetitia (2026)].
224. La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte
penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri,
dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere
felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi
a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni
tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue
preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un
sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di
ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è
capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene
i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un
atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e
rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile
di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee.
Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge
tutti i ponti.