Spiritualità sinodale
E’ necessaria una spiritualità sinodale?
I nostri vescovi sono convinti di sì.
Che cosa è la spiritualità? E’ il vedere in ciò
che accade, e anche in noi stessi, più di quello che appare e, in particolare, coglierne
il senso profondo, come se recasse un segno per noi. La nostra
fede ci guida verso un’intensa spiritualità. Ne può essere considerata
manifestazione l’episodio evangelico della Trasfigurazione.
Sei giorni dopo, Gesù prese con sé tre discepoli:
Pietro, Giacomo e Giovanni fratello di Giacomo, e li condusse su un alto monte,
in un luogo solitario. Là, di fronte a loro, Gesù cambiò aspetto: il suo
volto si fece splendente come il sole e i suoi abiti diventarono bianchissimi,
come di luce. Poi i discepoli videro anche Mosè e
il profeta *Elia: essi stavano accanto a Gesù e parlavano con
lui. Allora Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi stare qui. Se
vuoi, preparerò tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia».
Stava ancora parlando, quando apparve una
nuvola luminosa che li avvolse con la sua ombra. Poi, dalla nuvola venne una
voce che diceva: «Questo è il Figlio mio, che io amo. Io l’ho mandato.
Ascoltatelo!».
A queste parole, i discepoli furono talmente
spaventati che si buttarono con la faccia a terra. Ma Gesù si avvicinò, li
toccò e disse: «Alzatevi! Non abbiate paura!». Alzarono gli occhi e non
videro più nessuno: c’era infatti Gesù solo.
[dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 17,
versetti da 1 a 8 - Mt 17, 1-8 - versione in italiano di TILC - Traduzione
interconfessionale in lingua corrente]
Parliamo di spiritualità perché siamo convinti che in questo c’entri lo
Spirito, quello che deve spiegarci
ogni cosa, e, appunto, ce la spiega
nell’interiorità consentendoci di non fermarci alle apparenze.
Se uno mi ama, metterà in pratica la mia parola, e il Padre mio lo
amerà. Io verrò da lui con il Padre mio e abiteremo con lui. Chi non mi
ama non mette in pratica quello che dico. E la parola che voi udite non viene
da me ma dal Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono con
voi. Ma il Padre vi manderà nel mio nome un difensore: lo Spirito
Santo. Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quel che ho
detto.
[dal Vangelo secondo
Giovanni, capitolo 14, versetti 23-26 - Gv 14, 23-26 - TILC]
Naturalmente
vedere
quello che non appare significa immaginarlo. Ma fin dove può spingersi
l’immaginazione pensando che sia frutto dello Spirito? Veramente molto in là.
La storia ce lo insegna.
Nella
Bibbia troviamo molta di quell’immaginazione. Essa viene evocata dal linguaggio simbolico del quale è piena la
nostra liturgia e che sempre meno viene inteso dai nostri contemporanei.
La nostra fede ha una caratteristica particolare, che la connota fortemente: la spiritualità centrata sull’agàpe - translitterazione del greco antico ἀγάπη, termine molto importante dell’antico greco evangelico che significa rimanere insieme come nel pranzo della festa, accogliendosi benevolmente, dividendo in modo solidale il mangiare e il bere e prevenendo le esigenze degli altri, nel senso di capirle prima che vengano espresse dandosi da fare per soddisfarle. E’ il comando fondamentale.
Il mio comandamento è
questo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un
amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete
miei amici se fate quel che io vi comando. Io non vi chiamo più schiavi,
perché lo schiavo non sa che cosa fa il suo padrone. Vi ho chiamati amici,
perché vi ho fatto sapere tutto quel che ho udito dal Padre mio.
«Non siete voi che avete scelto me, ma io ho
scelto voi, e vi ho destinati a portare molto frutto, un frutto duraturo.
Allora il Padre vi darà tutto quel che chiederete nel nome mio. Questo io
vi comando: amatevi gli uni gli altri».
[dal Vangelo secondo
Giovanni, capitolo 15, versetti 12-17 - TILC]
Il greco liceale della
mia giovinezza mi consente di accostare il testo originario di quel medesimo
brano evangelico (o almeno quello che si ritiene tale in base ai più antichi manoscritti)
Αὕτη ἐστὶν ἡ ἐντολὴ ἡ ἐμὴ ἵνα ἀγαπᾶτε ἀλλήλους καθὼς ἠγάπησα [egàpesa] ὑμᾶς· μείζονα ταύτης ἀγάπην [agàpen] οὐδεὶς ἔχει, ἵνα τις τὴν ψυχὴν αὐτοῦ θῇ ὑπὲρ τῶν φίλων αὐτοῦ. ὑμεῖς φίλοι μού ἐστε ἐὰν ποιῆτε ⸀ἃ ἐγὼ ἐντέλλομαι ὑμῖν. οὐκέτι ⸂λέγω ὑμᾶς⸃ δούλους, ὅτι ὁ δοῦλος οὐκ οἶδεν τί ποιεῖ αὐτοῦ ὁ κύριος· ὑμᾶς δὲ εἴρηκα φίλους, ὅτι πάντα ἃ ἤκουσα παρὰ τοῦ πατρός μου ἐγνώρισα ὑμῖν. οὐχ ὑμεῖς με ἐξελέξασθε, ἀλλ’ ἐγὼ ἐξελεξάμην ὑμᾶς, καὶ ἔθηκα ὑμᾶς ἵνα ὑμεῖς ὑπάγητε καὶ καρπὸν φέρητε καὶ ὁ καρπὸς ὑμῶν μένῃ, ἵνα ὅ τι ἂν αἰτήσητε τὸν πατέρα ἐν τῷ ὀνόματί μου δῷ ὑμῖν. 17ταῦτα ἐντέλλομαι ὑμῖν ἵνα ἀγαπᾶτε [agapàte] ἀλλήλους.
Vi ho evidenziato in esso l’agàpe che vi è inserita.
Di solito traduciamo agàpe con amore, ma si rischia di fraintendere in
senso sentimentale: l’agàpe è qualcosa che si deve mettere in pratica,
come appunto quando si prepara un bel pranzo della festa, per rimanere uniti
senza prevaricare ma prendendosi
cura gli uni degli altri.
E’ per questo che ci è stato detto
Se uno mi ama,
metterà in pratica la mia parola
Siamo anche
convinti che, addirittura, il fondamento consista in questa agàpe:
Se uno mi ama,
metterà in pratica la mia parola, e il Padre mio lo amerà.
Ἐάν τις ἀγαπᾷ με τὸν λόγον μου τηρήσει, καὶ ὁ πατήρ μου ἀγαπήσει αὐτόν,
Ma la vita insieme agli altri non sempre è
come nel pranzo della festa. E anche in quest’ultima occasione a volte, lo
raccontano le cronache, scoppiano delle liti anche piuttosto intense,
specialmente dopo aver bevuto un po’ troppo.
La realtà della vita sociale è proprio
questa: una cosa che ci conviene, che ci è necessaria, ma in genere non facile
da vivere. Intenderci con gli altri non è immediato, occorre un sforzo. Gli studiosi
nelle scienze cognitive hanno scoperto che abbiamo sviluppato aree del cervello
dedicate proprio a queste [si può leggere in merito di Robin Dunbar, Amici, Einaudi
2022, anche in ebook]. Si pensava che la nostra socialità avesse orientato l’evoluzione
della specie dotandosi di quei tessuti encefalici, ma ora si ipotizza che sia
andata un po’ diversamente. La socialità ci conviene, come specie, ma ci crea
un sacco di problemi con gli altri e per fronteggiarli l’evoluzione è stata orientata
nello sviluppare quelle aree encefaliche, che consentono quel sofisticato
sistema di relazioni interpersonali che ci permettono di resistere alla socialità.
Sinodalità è socialità:
non dobbiamo stupirci se, cercando di praticarla come agàpe sorgano dei problemi.
Abbiamo, però, delle risorse neurologiche per fronteggiarli, tuttavia disporne
non basta, come non basta avere gli strumenti di un mastro falegname per fare
un bel mobile artigianale. La sinodalità che è socialità secondo agàpe si impara,
provando e correggendosi, vale a dire facendo tirocinio.
Finora non abbiamo avuto molte occasioni,
nella nostra Chiesa, per fare tirocinio di sinodalità. Gli incontri dei cammini
sinodali in corso ci spingono
proprio a questo.
Siccome c’entra l’agàpe bisogna vedervi più di quello che appare, e
questo richiede una certa spiritualità. Ma poiché si tratta di un mettere in
pratica occorre anche la volontà di
imparare praticandola.
Qualcosa di analogo accade nell’arte: si
immagina e si crea. Senza lo spirito l’opera d’arte non viene fuori, ma sono poi le
mani a darle vita.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli