“Faremo e udremo”
In uno
degli incontri del Meic Lazio, su Zoom , è stato menzionato il Faremo e udremo di cui si tratta di seguito.
Esso
spiega il senso del perché l’agàpe, anche quella che nella potente inculturazione
evangelica della democrazia che ancora stiamo vivendo in Europa occidentale, cercando
di trascinarci dietro l’altra Europa, non viene messa ai voti, e fonda i
diritti fondamentali di dignità umana sui quali abbiamo costruito la nostra
attuale convivenza democratica, mentre altre democrazie del passato e contemporanee, come quella statunitense, furono
e sono molto violente.
L’accettazione
della convivenza con le altre persone precede ogni ragionamento sul suo perché
e sulla sua convenienza.
Questa
è anche la ragione per cui non vi è alcun contrasto tra sinodalità e
democrazia. Perché la nostra democrazia è diventata una cosa nuova, mai
vissuta prima nella storia dell’umanità.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Es 24, 1-7
Il
Signore disse a Mosè: "Sali verso il Signore tu e Aronne, Nadab e Abiu e
settanta anziani d'Israele; voi vi prostrerete da lontano, solo Mosè si
avvicinerà al Signore: gli altri non si avvicinino e il popolo non salga con
lui".
Mosè
andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto
il popolo rispose a una sola voce dicendo: "Tutti i comandamenti che il
Signore ha dato, noi li eseguiremo!". Mosè scrisse tutte le parole
del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte,
con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni giovani
tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come
sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la
mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il
libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero:
"Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo
ascolto".
καὶ λαβὼν τὸ βιβλίον τῆς διαθήκης ἀνέγνω εἰς τὰ ὦτα τοῦ λαοῦ καὶ εἶπαν πάντα ὅσα ἐλάλησεν κύριος ποιήσομεν καὶ ἀκουσόμεθα
Talmùd, trattato “ Shabbath” (pp88a-88b):
«Insegnò Rav Simai:
Quando gl’Israeliti s’impegnarono a fare prima di udire, scesero seicentomila angeli e
posero su ciascun Israelita due corone, una per il fare e l’altra per l’udire.
Tosto che Israele ebbe peccato, scesero un milione duecentomila angeli
sterminatori e si presero le corone, perché è detto (Esodo 33,6): “I figlioli
d’Israele rinunziarono ai loro
ornamenti, a far tempo dal Monte Oreb”».
Disse Giuseppe Dossetti nella
conferenza tenuta il 18-5-94 a Milano, presso la Fondazione G.Lazzati,
in occasione dell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati, il cui
testo, con il titolo “Sentinella, quanto resta della notte?”, è
pubblicato in Giuseppe Dossetti, La Parola e il silenzio.Discorsi e scritti
1986-1995, Paoline 2005, pagine 369-383:
Così alla inappetenza diffusa dei valori – che
realmente possono liberare e pienificare l’uomo – corrispondo appetiti
crescenti di cose che sempre più
lo materializzano e lo cosifican e lo rendono schiavo.
Questa è la notte,
la notte delle persone: «la notte davvero impotente, uscita dai recessi impenetrabili
dell’inferno impotente», nella quale la persona è «custodita
rinchiusa in un carcere senza serrami» (Sap
17,13.15).
In questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere
(il Mit-sein heideggeriano: pur esso, però, insufficiente, come cercherà
di insistere Lévinas): e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in
componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) sino
alla riduzione al singolo individuo.
[…]
C’è da chiedersi, a
questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del
pensiero occidentale come sostiene Lévinas. A suo parere, possono essere
evitate non con un semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà, ma
ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla impostazione
ebraica originale nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla libertà
del soggetto. I figli di Israele sul
Sinai, nel momento più solenne e fondante di tutta la loro storia, quando Mosè
propose la Legge, hanno detto: «Faremo e udremo» (cfr Es 24,7 secondo TM [Testo Masoretico] e LXX [antica
traduzione in greco]).
Cioè essi scelsero
un’adesione al Bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’ida
di pratica anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi
accettarono la Torah precede la conoscenza, anzi è mezzo e via della
vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, evento
fondante di una responsabilità irrecusabile.
Nella
nota al testo pubblicato nel ’94, Dossetti scrisse, a proposito del Faremo e
udremo, una citazione da Emmanuel Lévinas, Quattro letture talmudiche, Genova
1982, che commenta un testo del Talmud, del genere Aggadà [apologhi e adagi che accompagnano l’Halakhà,
ragionamenti sulla base delle regole concernenti la vita rituale, sociale,
economica e lo statuto personale dei fedeli], contenuto nel trattato “ Shabbath” (pp88a-88b):
«Insegnò Rav Simai: Quando gl’Israeliti s’impegnarono a fare
prima di udire, scesero
seicentomila angeli e posero su ciascun Israelita due corone, una per il fare e
l’altra per l’udire. Tosto che Israele ebbe peccato, scesero un milione
duecentomila angeli sterminatori e si presero le corone, perché è detto (Esodo
33,6): “I figlioli d’Israele rinunziarono ai loro ornamenti, a far tempo dal Monte
Oreb”».
Ho le Quattro lezioni talmudiche nel testo pubblicato da Il Melangolo nel
2000.
Leggo:
Ed eccoci alla terza
parte – essenziale per il nostro assunto. Essa metterà in risalto il carattere
impareggiabile di un avvenimento come la donazione della Torà: la si
accetta, prima di conoscerla. Ciò ch’è motivo di scandalo per la logica può
essere preso per fede cieca o per l’ingenuità della fiducia infantile.
[…]
“Faremo e udremo” –
Rav Simai fa notare lo straordinario che è in questo detto biblico. […] Com’è
risaputo, la tradizione ebraica s’è compiaciuta di questa inversione
dell’ordine normale, in cui l’intendere
precede sempre il fare. La tradizione non finirà mai di sfruttare tutto il
partito che si può trarre da quest’errore di logica e tutto il merito che sta
nell’agire prima di aver inteso.
[…]
Il Talmùd, tuttavia,
indicherà, qualche riga appresso, come un “mistero d’angeli” il paradosso di quest’inversione,
e quindi sembra ben consapevole del problema. Martin Buber, nella sua
traduzione della Bibbia, trova un’interpretazione ingegnosa: prende il vav del testo come congiunzione finale, uso
perfettamente legittimo. “Faremo e capiremo” diventa: “Faremo allo scopo di capire”.
[…]
L’ottima scelta di
far passare il fare davanti all’udire non impedisce la caduta. Essa ci
premunisce non dalla tentazione, ma dalla tentazione della tentazione. Neanche
il peccato distrugge l’integrità, la Temimùth, che s’esprime nell’ordine nel quale il “Faremo” precede l’ “Udremo”.
Peccato che segue, è vero a una tentazione, ma non è tentato dalla tentazione:
esso non mette in dubbio la certezza del bene e del male; resta un peccato triste
senza corone, ignaro dei trionfi cui attingono le colpe scevre di scrupoli e
rimorsi. Donde, per il peccatore, una via di ritorno. L’adesione al bene, per
coloro che dissero “Faremo e udremo”, non è il risultato d’una scelta tra il
bene e il male. Essa viene prima. Quell’adesione incondizionata al bene, il
male la può scalfire, ma senza distruggerla. Essa esclude tutte le posizioni
che stanno al di qua e al di là del bene, che siano l’immoralismo degli esteti
e dei politici o il super-moralismo dei religiosi, tutta quell’extraterritorialità
morale che s’apre dinanzi alla tentazione della tentazione. Tutto ciò sta a indicare come il fare che
ricorre nella formula commentata non sia semplicemente la prassi opposta alla
teoria, ma una maniera di attualizzare senza incominciare dal possibile,
di conoscere senz’esaminare, d’installarsi fuori della violenza, senza che ciò dipenda
dal privilegio d’una libera scelta. Un patto col bene, antecedente all’alternativa
tra bene e male.
[…]
Per il nostro
problema, che è quello della tentazione, è chiaro che l’idea di un frutto anteriore alle foglie
(e ai fiori) è affatto essenziale, l’ammissione della Torà prescinde da
qualunque marcia esplorativa, da qualunque svolgimento progressivo. Il vero
della Torà si dà senza precursore, senz’annunziarsi prima (come il Dio di
Malebranche [Nicolàs Malebrànche, filosofo francese vissuto tra Seicento e
Settecento: conosciamo Dio per illuminazione, non ragionandoci sopra] nella sua
idea, senz’annunziarsi “in prova” in un
progetto d’approccio; e quel che si dà e si prende in tal modo è il frutto
maturo, non quello che può offrirsi alla mano infantile che tasta ed esplora.
Il vero che s’offre in questo modo è appunto il bene, che non lascia a chi l’accoglie
il tempo di riflettere e d’esplorare; l’urgenza del quale, non solo non è un limite imposto alla libertà, ma l’attesta,
anzi, ancor più della libertà, ancor più del soggetto isolato ch’è costituito
dalla libertà, una responsabilità irricusabile, al di là degli impegni presi,
dove forse già si contesta l’io assolutamente separato, nella sua pretesa di
detenere il segreto ultimo della soggettività.
[…]
Ma il “faremo” non
esclude “l’udremo”. La fedeltà preliminare non è ingenuità: tutto in lei può e
deve diventar discorso e libro, discussioni.
L’innocenza […] è un’innocenza senza ingenuità, una rettitudine senza dabbenaggine,
rettitudine assoluta, che è anche assoluta autocritica, rettitudine letta negli
occhi di colui che ne è il termine e che, con suo sguardo, mi mette in
discussione. Movimento verso l’altro che non torna al punto di partenza – come invece
il divertimento, in capace di trascendenza. Movimento al di là della cura e più
forte della morte.
Rettitudine che ha
nome Temimùth, essenza di Giacobbe.
[…]
Non abbiamo per
caso esaltato, in nome dell’integrità, l’attitudine antiscientifica […] Non
abbiamo commesso l’imprudenza di affermare che la prima parola – quella che rende
possibili tutte le altri e persino il no della negazione e il “né sì né no”
della “tentazione della tentazione” – è un incondizionato sì?
Incondizionato, è
vero, ma non ingenuo. Un sì ingenuo -
come abbiamo fatto notare più volte – resterebbe indifeso contro il no e contro
le tentazioni che dovessero nascere nel
suo seno per divorar quel seno stesso che le ha messe al mondo. È un sì più
antico dell’ingenua spontaneità.
[…]
La rettitudine,
fedeltà originaria a un’alleanza irresolubile, appartenenza, sta nel confermare
quell’alleanza, non già nell’impegnarsi, a capofitto.
Si vorrà dire che
quell’alleanza preliminare non era stata
liberamente conclusa? Ma è ragionare come se l’io avesse assistito alla creazione del mondo e come se il mondo
fosse uscito dal suo libero arbitrio. Presunzione di filosofi? La Scrittura la
rimprovera a Giacobbe.
La distinzione tra libero e non libero è forse l’ultima? La Torà è un ordine da cui l’io dipende senza
che sia dovuto entrarci, un ordine dell’al di là dell’essere e della scelta.
Prima dell’io-che-si-decide, sta il suo uscire dall’essere. Non per un gioco di
nessuna importanza, che s’apra in qualche cantucci dell’essere, dove la trama
ontologica s’allenta; ma per il peso che esercita su un punto dell’essere il
rimanente della sua sostanza. Quel peso si chiama responsabilità.
Responsabilità per la creatura – essere di cui l’io non è stato l’autore – la quale
istituisce l’io. Essere io vuol dire essere responsabili al di là di ciò che
possiamo aver commesso. La Temimùth sta nel sostituirsi agli altri.
[…]
la responsabilità
illimitata, che giustifica la cura della giustizia e di se stessi e della
filosofia, può cadere in obli. Nell’oblio nasce l’egoismo. Ma l’egoismo non è né
primo né ultimo. L’impossibilità di sfuggire a Dio – che almeno in questo non è
un valore come gli altri è il “mistero degli angeli”
Disse Rabbì Eliezer: Quando gl’Israeliti s’impegnarono a “fare”
prima d’ “udire” -esclamò una voce dal cielo: Chi ha rivelato ai miei figli il
segreto di che si servono gli angeli, perché sta scritto (Salmi 103, 20): “Benedite
l’Eterno, voi, suoi angeli, eroi possenti, che eseguite i suoi ordini, attenti
al suono della sua parola”.
[nota Lévinas: «Eseguiscono
prima d’aver udito! Segreto d’angeli, non coscienza infantile]
il “Faremo e udremo”. Esso sta nel profondo dell’io in quanto
io, che non è solo nell’esser la possibilità della morte, la “possibilità dell’impossibile”,
ma già la possibilità del sacrificio, nascita d’un senso nell’ottusità dell’essere,
d’un “poter morire” subordinato al “sapersi sacrificare".